2° CRACK..........PARMALAT !!!!!!!!!!!!!!!!! (1 Viewer)

SINIBALDO

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2° CRACK..........PARMALAT !!!!!!!!!!!!!!!!!
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2. Stagnazione e monopolio nel mercato lattiero caseario

*La crisi dei profitti nei settori maturi dell’economia: il settore lattierocaseario.

Nonostante il discredito che l’economia ufficiale continua a gettare sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, risulta difficile non vedere come allo stadio attuale di sviluppo del modo di produzione capitalista, i saggi di profitto dei settori maturi dell’economia vengano inesorabilmente schiacciati nella dialettica che sospinge concorrenza da un lato e miglioramenti della tecnologia dall’altro.

“L’industria dell’auto mondiale fornisce un buon esempio di questi processi competitivi all’opera.

Essa mette all’opera massicce economie di scala e sopporta enormi costi fissi.

Limitate tendenze di crescita globale, ingressi di nuove marche, poche uscite dal mercato hanno creato un vasto eccesso di capacità nel settore dell’automobile.

Nel 1999 Business Week scriveva che almeno ¾ dei 40 produttori mondiali di auto <affogavano nei debiti, alle prese con problemi di capacità. Il settore può produrre 20 milioni di auto e camion in più rispetto a quelli che vende.>

L’agenzia di consulenza PricewaterhoseCoopers concludeva che il grado di utilizzo degli impianti è caduto dal 80% nel 1990 al 70% nel 1999.

Causa gli astronomici costi fissi un consistente eccesso di capacità ha stroncato i profitti su tutti i mercati eccetto quello statunitense nella seconda metà degli anni ’90; secondo il Wall Street Journal , <gli enormi costi fissi necessari allo sviluppo di nuovi modelli e alla costruzione di grandi impianti fanno si che i produttori si sentano costretti a mantenere o espandere le loro quote di mercato>.

A peggiorare le cose poi nel 2001, pure lo stesso mercato USA si è rivelato improfittevole causa lo scoppio della bolla finanziaria legata alla new economy e causa il venir meno del temporaneo monopolio della aziende americane sulle vendite di jeep, fuoristrada e piccoli camion.

E benché oberate da eccesso di capacità, da debiti consistenti e da perdite o comunque risicati profitti, le imprese hanno continuato a riversare investimenti nella produzione.

Investimenti che consentano di trarre vantaggio dalle rapidamente crescenti economie di scala sono obbligatori: le stime sulla soglia minima per giungere ad una produzione efficiente variano dalla cifra di 2 milioni fino a quella stupefacente di 4 milioni di auto all’anno.

Il caso del mercato del latte e derivati non pare in sostanza granché differente: secondo l’analisi ampiamente condivisa della stessa Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (d’ora in poi AGCM), le prospettive del mercato sono statiche e il tipo di tecnologia utilizzato tende a standardizzarsi, impedendo l’acquisizione di vantaggi competitivi di un’azienda sull’altra;

“…nel corso degli anni ’90 i consumi complessivi di latte in Italia hanno mostrato una sostanziale stabilità, indicativa dell’elevato grado di maturità del settore, il quale difficilmente potrà sfruttare ulteriori potenzialità di espansione.

I consumi di latte fresco, peraltro hanno subito una leggera contrazione, in misura pari a circa l’8% dal 1992 ad oggi, anche in conseguenza del progressivo invecchiamento della popolazione.”

“Anche il processo di lavorazione della materia prima non risulta particolarmente complesso ed è caratterizzato da una tecnologia matura, i cui costi mostrano un’incidenza sostanzialmente omogenea tra gli operatori, benché piuttosto contenuta.

In relazione alla fase di confezionamento, si osserva come i contenitori vengano acquistati da tutti gli operatori presso il medesimo produttore specializzato (Tetrapak), rappresentando un’altra voce importante di costo comune (quantificabile nel 10% circa dei costi totali).”

Questo in sostanza è lo scenario che fa da sfondo alla corsa sfrenata che nel corso degli anni ’90 trasforma in profondità la direzione di marcia del mercato lattierocaseario verso una struttura altamente concentrata, nella quale sia possibile estrarre profitti supplementari sotto forma di rendite derivanti da posizioni monopolistiche o da cartelli di prezzo, possibili questi ultimi solo se il numero dei competitori è abbastanza ridotto.

*La grande torta delle privatizzazioni e la ristrutturazione del mercato lattierocaseario.

Chi scrive esprime il sospetto, non suffragato da studi in materia - che purtroppo latitano o sono rarissimi-, che la forza motrice del gigantesco processo delle privatizzazioni che ha drammaticamente attraversato l’economia italiana degli anni ‘90, al di là dell’esplicito riferimento al problema del debito pubblico, sia da individuare nel sostegno all’accumulazione dei grandi gruppi privati alle prese con problemi di profittabilità, mediante l’acquisizione di monopoli naturali ed economici:

energia elettrica, autostrade, ferrovie, telefonia fissa, aziende municipalizzate di servizi, metropolitane, centrali del latte, tutti servizi e attività economiche caratterizzate dalla possibilità di incrementare i prezzi senza che meccanismi concorrenziali compromettano la domanda.

Dentro a tale contesto cerchiamo di leggere la svendita del patrimonio pubblico delle Centrali del Latte delle quali diamo un elenco approssimativo per difetto: nel corso degli anni ‘90: Vicenza, Parma, Viterbo, Milano, Roma [20], Monza, Genova, Como, Ancona, Taranto, Napoli, Brianza, Matera, Bergamo (Lactis), Busto Arsizio, Bovisio, Centrale latte Calabria.

Non ci vuole molta fantasia per capire com’è che il mercato italiano del latte fresco, che vale tra i 2500 e i 3000 miliardi delle vecchie lire, ne sia stato condizionato: nella tabella qui sotto il dato veramente impressionante è rappresentato proprio dal balzo di Parmalat in soli 10 anni, da operatore sotto l’1% a leader del mercato!

“Dalla tabella, che riporta le quote su base nazionale dei produttori di latte fresco, emerge come nel corso degli ultimi dieci anni i principali operatori locali, ad eccezione della Centrale del latte di Firenze siano stati acquistati da Granarolo e Parmalat.”

Nel 2003 la polarizzazione si è accentuata ulteriormente: secondo i dati del Sole 24ore del 24 dicembre 2003, Parmalat si accaparra il 31,1% dei volumi di latte fresco, Granarolo il 30%, Newlat il 2,1% e altri produttori il 36,8%.

Non si tratta di un semplice accaparramento di risorse pubbliche svendute dai privatizzatori di turno: è una vera e propria guerra condotta dai tre grandi gruppi del lattierocaseario (Parmalat, Granarolo, Cirio – che salta in aria nel 1999) e che porta ad una selvaggia corsa per l’acquisizione dei marchi e degli impianti privati e pubblici, al fine di ottenere rendite di monopolio sui prezzi di vendita del prodotto finito (per un esempio pratico vedere alla fine di questo paragrafo).

L’esempio della cooperativa che gestisce la centrale del latte di Varese e il relativo marchio Latte Varese pare veramente significativo riguardo al modus operandi della multinazionale di Collecchio: nel corso degli anni ’90 la cooperativa era in perdita e Lactis, un consorzio di produttori di Bergamo, intervenne a sostegno.

Nel 1996 tuttavia Lactis viene assorbita da Parmalat, cosicché i produttori di Varese consci della rapacità dei parmigiani, decidono di staccarsene:

“Gli agricoltori decisero di disdire ogni contratto.

La multinazionale reagì e scatenò una guerra commerciale nel Varesotto senza precedenti.

Domanda: Gli agricoltori dunque erano propensi a vendere a Lactis, ma non si fidavano di Parmalat ?

Esatto. Lactis, pensavano, era un consorzio di allevatori bergamaschi e quindi più vicina alla nostra realtà.

Quando intervenne Parmalat però le posizioni furono molto nette : nell’ambiente si sapeva che la multinazionale aveva fatto le sue fortune con le dilazioni di pagamento ai fornitori. Così nell’ottobre 1997 interrompemmo i rapporti.

Poco dopo, in una sola settimana, Parmalat ci portò via tutti i nostri commerciali. Poi iniziarono a offrire latte a prezzi stracciati ai distributori. Una strategia, tra l’altro, molto costosa per loro.”

E quale è stata la conseguenza sui consumatori di questa orgia di acquisizioni che tutti i partiti politici, purtroppo con rarissime eccezioni hanno avallato e incentivato, qual è stato il grado di benessere aggiuntivo che le privatizzazioni hanno garantito al famoso consumatore, sovrano nel famoso mercato ?

Non c’è bisogno di andare a consultare manuali di controinformazione politica, basta leggere i rapporti della Autorità Garante della concorrenza e del mercato, la quale candidamente ci informa del fatto che:

“…sino ad ora nessuna acquisizione di operatori locali [le Centrali] da parte dei gruppi nazionali abbia portato a incrementi di efficienza rilevabili attraverso diminuzioni dei prezzi al consumo.

Al contrario a tali acquisizioni sono quasi sempre seguiti incrementi di prezzo, resi possibili dall’aumentato potere di mercato.

Ad esempio nel Lazio, il gruppo CIRIO, dopo l’acquisizione della Centrale del Latte di Roma, ha incrementato il prezzo al consumo di 100 lire, senza incorrere in reazioni significative da parte della concorrenza.”
E poi danno la colpa dell’inflazione all’euro…..

*Gli allevatori, l’industria, le banche.

Il movimento di acquisizioni da parte delle grandi aziende sopra delineato ha avuto una serie di conseguenze anche sugli allevatori che alle Centrali locali vendevano il proprio latte: date le caratteristiche di deperibilità del prodotto infatti l’allevatore spesso non è in grado di trovare altri acquirenti, se non quelli tradizionalmente rappresentati dalle Centrali.

Rilevante è dunque il potere del compratore.

L’ingresso dei grandi gruppi nazionali ha portato ad una compressione dei prezzi pagati dagli stabilimenti agli allevatori stessi (Cirio ad esempio appena subentrata nella Centrale del Latte di Roma avrebbe imposto un taglio di 50 lire al litro agli allevatori laziali che la rifornivano), taglio dei prezzi che si è andato ad inserire nel quadro più generale di difficoltà che il settore lattiero e zootecnico vive in Italia.

Drastico infatti è il ridimensionamento quantitativo degli allevamenti che tendono sempre più verso dimensioni industriali per abbattere i costi (industrializzazione accelerata che è la vera ragion d’essere dei fenomeni degenerativi tipo la cosiddetta mucca pazza) :

“Continua ad un tasso annuo percentuale piuttosto sostenuto l’uscita delle aziende agricole dalla produzione di latte: tale tasso nel corso delle ultime tre campagne oscilla tra il -9.6% del 2000/01 e il -5.6% del 2002/03.

Il numero degli allevamenti si è ridotto infatti dalle 97044 unità del 1995/96 alle 60050 del 2002/03, quando solo dodici anni prima erano quasi 182 mila le aziende agricole con vacche da latte.

Durante le ultime 4 campagne hanno quindi smesso di produrre latte oltre 21500 stalle.”

Nel contempo la produzione media per allevamento è passata da 60 tonnellate all’anno nel 1988/89 alle 186 tonnellate nel 2002/03.

Gli industriali naturalmente svolgono la loro funzione razionalizzatrice, infischiandosene di quanti piccoli allevamenti saranno portati a chiudere per effetto di difficoltà economiche: tutto in nome della famosa alta qualità.

“Sono ormai un paio di annate che l’accordo interprofessionale resta senza la firma in calce alle numerose bozze. L’offerta al ribasso degli industriali è ritenuta insoddisfacente dalle organizzazioni degli agricoltori e non c’è accordo nemmeno sul sistema di pagamento e di indicizzazione del prezzi a un paniere di prodotti.”

La analisi senza fronzoli di R. Stefanelli mostra il funzionamento della combine industriali-banche ai danni dei produttori di latte: “Parmalat si fa finanziare dai produttori nel senso che impone tempi e termini di pagamento assai sfavorevoli agli allevatori in presenza di due condizioni:

un accesso al credito bancario (poi direttamente al risparmio delle persone) quasi illimitato, che consente di fare acquisizioni a prezzi gonfiati, il cui esito ( seconda condizione) è il rafforzamento di posizioni dominanti sul mercato.

I produttori di latte, piccoli produttori di varia taglia, non hanno accesso al credito bancario, quindi hanno scarse possibilità di sottrarsi al conferimento coatto del prodotto a credito [a Parmalat].

A loro volte le banche fanno della costituzione della posizione dominante sui fornitori di materia prima un fattore di garanzia implicita dei finanziamenti.”

Ovvero le banche apprezzano la posizione di monopsonista, cioè acquirente unico, dell’impresa industriale in quanto fattore di diminuzione del rischio di credito, cooperando con gli industriali nello strozzinaggio ai danni degli allevatori.

3. I rapporti tra capitale e lavoro

Il quadro della situazione non può ovviamente definirsi in alcun modo completo senza che venga prestata la dovuta attenzione alla dimensione delle relazioni di classe negli stabilimenti produttivi del gruppo Parmalat.

Qui di seguito verranno svolte alcune considerazioni parziali, in quanto riferite al solo stabilimento di Collecchio (Parma) e tuttavia significative poiché si tratta dello stabilimento storico dell’azienda e ancora adesso del suo maggior sito produttivo a livello europeo.

La fabbrica di Collecchio occupa all’incirca 2000 lavoratori tra produttivi e impiegati dei quali circa un quarto sono lavoratori precari e di cooperative esterne.

La produzione avviene a ciclo continuo, date le caratteristiche di deperibilità dei prodotti impiegati, con un orario medio settimanale per i turnisti di 36 ore alla settimana.

A Collecchio venivano lavorati (diciamo <venivano> poiché la ristrutturazione del “tagliateste” Bondi porterà probabili dismissioni) 4 dei principali prodotti dell’azienda: il latte confezionato UHT a lunga conservazione, i succhi Santal, lo yogurth (10% circa del fatturato) e i budini.

In termini salariali e normativi, l’azienda si è sempre contraddistinta per una politica economica accomodante che spesso ha modificato il contratto nazionale collettivo in senso migliorativo: ad esempio i turnisti godevano di 40 minuti mensa sulle 8 ore di turno più tre pause a turno.

Nel 1987 tuttavia la situazione di mercato non favorevole porta ad una prima importante ristrutturazione che modifica il rapporto “fordista” 1 a 1 tra macchina e lavoratore: si passa alle cosiddette “isole di produzione”, grazie alle quali il workgroup di 6-7 operai si accolla la gestione di 10 macchine.

Nella ristrutturazione viene introdotto il salario per obiettivi, che comporta una riduzione della parte fissa del salario, e in termini di orario abbiamo la perdita di una delle 3 soste garantite ai turnisti.

Sempre per l’orario, nel 1987 viene contrattato quella che resterà negli anni successivi la struttura dell’orario turnisti: 36 ore medie settimanali, ottenute mediante settimane da 32 alternate con settimane da 40; la flessibilità nei festivi è contrattata col sindacato e non prevede aumenti per il sabato, mentre quella domenicale gode di una maggiorazione del 100%.

Tra le altre cose, è durante questa ristrutturazione che si provvede ad una eliminazione “dolce” di una serie di lavoratori combattivi che vengono spostati in mansioni non produttive o nell’area dei servizi.

Dal 1992 il ricorso al lavoro straordinario viene incrementato.

Una seconda ristrutturazione viene imposta nel 1998, a seguito della stagnazione delle vendite.

Non si registrano scioperi né altre forme di conflittualità a Collecchio; sul piano nazionale vengono chiusi alcuni piccoli stabilimenti.

Essa porta all’espulsione mediante ammortizzatori sociali, ma soprattutto prepensionamenti di circa 300 lavoratori “anziani”, nel mentre viene incrementata la percentuale di precari di lunga durata che vengono introdotti, stavolta non solo in produzione, ma anche nelle sfere impiegatizie: si tratta di giovani lavoratori che vengono assunti per 10-12 mesi, licenziati e quindi riassunti e che finiscono per gravitare nell’orbita della fabbrica per periodi lunghi, 5,6,7 anni.

Questi lavoratori agli occhi del padronato hanno l’altra pregevole caratteristica che rimangono a qualifiche piuttosto basse, consentendo di risparmiare sul costo del lavoro.

Il rapporto percentuale tra lavoratori produttive e impiegati continua nel frattempo a cambiare, in conseguenza della avvenuta internazionalizzazione del gruppo nel corso degli anni ’90:

Collecchio, pur non venendone meno il ruolo produttivo, assume sempre più il ruolo di centro della multinazionale con la conseguente espansione dell’area impiegatizia e dei servizi.

Da sempre in fabbrica è impiegato un consistente numero di lavoratori di cooperative (Il Colle, Colser, Parmaservizi – fallita verso la fine degli anni ’90, lasciando circa 1 miliardo di stipendi non liquidati; era una cooperativa del giro democristiano, sostenuta dalla CISL).

Fino al momento dello scoppio della crisi si trattava di circa 250 lavoratori e lavoratrici, principalmente concentrati nella logistica, nelle spedizioni, e nelle pulizie; anche in questo caso i rapporti di lavoro a Collecchio erano di lunga durata, nell’ordine dei 3-5 anni.

Storicamente la fabbrica si è caratterizzata per un alto grado di consenso verso le politiche di Tanzi, frutto dello stretto legame tra Tanzi e il territorio: tutti i primi collaboratori e dipendenti sono stati individuati nella cerchia parentale e di conoscenze dell’imprenditore, mentre lo sviluppo degli anni ’70 e ’80 ha contribuito ad alimentare la nomea di padrone buono, che ovviamente lui stesso cercava di incentivare in ogni modo.

La politica di assunzioni era volta a favorire l’ingresso di lavoratori non sindacalizzati, provenienti dalle zone della collina, arrivando nel corso degli anni ’80 ad utilizzare il bacino di lavoratori della zona di Pontremoli in Toscana, distante quasi 100 chilometri, da sempre caratterizzata da elevata disoccupazione, tutto ciò in virtù dei buoni rapporti di Tanzi con l’allora ministro socialdemocratico Ferri, insediato in quelle zone.

La situazione sindacale è lo specchio di tale realtà: i delegati delle RSU sono in tutto 20 dei quali 12 eletti (6 CGIL) e 8 cooptati dall’esterno (3 della CGIL) in virtù dei “democratici” privilegi accordati a CGIL-CISL-UIL dagli accordi del luglio 1993.

Anche se sono sempre esistiti nel passato delegati combattivi, oggi l’introduzione del nuove figure del precariato, interinali, contratti a tempo determinato di lunga durata ha comunque contribuito all’indebolimento delle posizioni di classe nello stabilimento.

La mentalità concertativa instillata dai funzionari locali della triplice e supportata da una diffusa visione apolitica e aconflittuale da parte della maggioranza dei lavoratori ha determinato una situazione dove le pratiche di cogestione e di concertazione del sindacato erano preminenti.

Resta da capire oggi alla luce della situazione completamente mutata, quale tipo di resistenza la classe operaia di Parmalat sarà in grado di esprimere a fronte dei severi tagli occupazionali che si prevedono (si parla di 900 posti di lavoro in meno su 4000 in Italia), resistenza che non può che passare attraverso la critica delle visioni concertative e il ritorno a forme di lotta basate sul conflitto e sulla costruzione del potere dei lavoratori e delle lavoratrici.

4. CONCLUSIONI

La finanziarizzazione dell’economia di questi ultimi 20 anni è il motore immobile che crea e sorregge il campo d’azione dentro al quale l’azienda di Collecchio ha costruito la sua fantascientifica insolvenza debitoria.

La stagnazione delle vendite tipica di un settore maturo è alla base della sfrenata corsa all’accaparramento di marchi e stabilimenti al fine di garantirsi rendite monopolistiche a danno dei consumatori da un lato e degli allevatori dall’altro (con buona pace di tutti i sostenitori di destra e di sinistra dei vantaggi delle privatizzazioni).

Infine i rapporti di lavoro paternalistici e improntati alla redistribuzione salariale degli anni ’80 lasciano il campo alla precarizzazione dei rapporti di lavoro e al contenimento salariale nelle più svariate forme, né più e né meno come accade in tutte le fabbriche del mondo.

(CONTINUA)

SINIBALDO
 

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