2008-2015 i Paesi dell'Euro-zona hanno perso 3,238 milioni di posti di lavoro

tontolina

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Perché all'Italia conviene uscire dall'euro: quanto guadagniamo al giorno
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Su Libero di lunedì 15 agosto Paolo Becchi e Fabio Dragoni hanno spiegato, in 50 punti, perché l'Italia deve lasciare l'euro. Qui di seguito eccone alcuni.

http://www.liberoquotidiano.it/news...motivi-ue-campagna-libero-becchi-dragoni-.htm
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PERCHÉ NON È VERO CHE USCIRE DALL'EURO SIGNIFICHI USCIRE DALL'UE

Vi sono Paesi quali, ad esempio, la Svezia, l'Ungheria, la Danimarca ecc. che pur non avendo l'euro fanno comunque parte dell'Unione Europea e guarda caso stanno meglio. Una rielaborazione del Centro Studi Unimpresa sui dati della Banca d'Italia mostra che nel periodo 2008-2015 i Paesi dell'Eurozona hanno perso 3,238 milioni di posti di lavoro mentre quelli dell'Unione con propria moneta nello stesso periodo di tempo hanno creato 1,068 milioni di posti di lavoro. L'Eurozona è un'autentica macchina di distruzione del lavoro.


PERCHÉ FUORI DALL'UNIONE EUROPEA SI STA COMUNQUE MEGLIO

Mentre i Paesi senza euro ma dentro l'Ue stanno meglio dei cugini che hanno scelto la moneta unica, così i Paesi che stanno fuori dall'Unione vivono molto meglio dei vicini condomini dell'Unione Europea. Il Pil pro-capite medio dell'Efta (l'accordo di libero scambio fra Norvegia, Liechtenstein, Islanda e Svizzera) è infatti pari a 62.534 dollari, mentre quello dell'Unione Europea è pari a 37.800 dollari. In altre parole un cittadino dell'Unione mediamente guadagna il 60 per cento del cugino che sta fuori. I dati sono riferiti al 2015 (Fonte Cia factbook). A riprova di quanto detto sia l'Islanda che la Svizzera hanno di recente ufficialmente abbandonato il progetto di adesione all'Unione Europea. Un tempo si facevano carte false per entrare nell'Unione, ora se puoi la eviti.

PERCHÉ NON È VERO CHE ABBANDONANDO L'EURO TORNEREMO AI VECCHI MILIONI E MILIARDI

Sono in molti quelli che spesso - in cattiva o buona fede - fanno confusione fra tasso di conversione e tasso di cambio. L'Italia uscendo dell'euro potrà scegliere di convertire la propria nuova moneta con un tasso di conversione "convenzionale" rispetto all'euro. Cioè frutto di una deliberata scelta tecnica. Può essere 1 lira per ogni euro e quasi sicuramente così sarà per semplicità. Dopodiché il prezzo della lira sarà libero di fluttuare nel mercato valutario e quasi sicuramente svaluterà del 20 per cento - 30 per cento circa rispetto alle altre monete. Questo è il cosiddetto tasso di cambio. Ma ciò non deve destare preoccupazione. Per caso qualcosa nella vostra vita è drammaticamente cambiato da quando l'euro ha pesantemente svalutato rispetto al dollaro? Due anni fa con un euro acquistavamo 1,35 dollari mentre oggi ne acquistiamo 1,10 circa. Ovviamente nulla è cambiato nella vita quotidiana di ciascuno di noi per il semplice motivo che non facciamo la spesa al supermercato di Cleveland.

PERCHÉ NON È VERO CHE USCENDO DALL'UNIONE EUROPEA PERDEREMMO I FINANZIAMENTI UE
È vero l’esatto contrario. Lasciando l'Unione Europea risparmieremmo un sacco di soldi. Per l’esattezza 25 milioni di euro al giorno. Questo è quanto ci costa l'Unione Europea. Dal 2001 al 2014 l'Italia ha versato nelle casse dell'Unione europea 70,9 miliardi di euro in più di quanti ne abbia ricevuti. E questo - sia chiaro - nell'ipotesi che tutti i soldi ricevuti fossero effettivamente spesi. La fonte è la Ragioneria Generale dello Stato. A tutto questo si aggiungano i circa 60 miliardi di euro che nel 2014 avevamo prestato in varie forme agli altri Stati dell’Unione europea (la Grecia, l’Irlanda, la Spagna) affinché restituissero i crediti che le banche francesi e tedesche avevano loro incautamente prestato. Crediti che oggi sono in massima parte inesigibili e che avremmo invece potuto prestare alle nostre imprese. Ergo, in 14 anni sono stati spesi 130,9 miliardi di euro. Cioè, per l’appunto, 25 milioni di euro al giorno. Se uscissimo di sabato dall’Unione europea per rientrare il lunedì dopo risparmieremmo più di quanto il presidente del Consiglio Matteo Renzi sostiene che si possa tagliare con la sua revisione costituzionale del Senato della Repubblica.
 
il punto e' che l'austerity e' fallito perche' i costi dello stato non e' possibile tagliarli nemmeno in germania
la svalutazione delle monete e' necessaria per svalutare il costo della pubblica amministrazione. (PUNTO)
soluzione?aumentare inflazione e tagliare le tasse in tutta europa oppure tornare tutti alle proprie monete e problemi
 
Il FtseMIB a nuovi minimi storici di forza relativa ma potrebbe essere un’opportunità
by Ascanio Leandro Strinati - ago 15, 2016

Tutti i giornalisti si sono impegnati in questi giorni a segnalarci il fatto che l’S&P500, insieme a tutti i più noti indici azionari americani, abbiano segnato nuovi massimi storici, tutto vero!

Tuttavia un evento molto più significativo per noi italiani sembra essere sfuggito ai più: il rapporto tra FtseMib ed S&P500 ha segnato nuovi minimi assoluti!

Questa tendenza a sottoperformare non è nata ieri, ma nel lontano 2007 all’inizio della peggiore crisi post 1929. Anche gli americani, come potete vedere dai grafici, fino al 2009 hanno finanziariamente sofferto e non poco. Tuttavia dal 2009 qualcosa è cambiato e l’S&P500, anno dopo anno, ha solo migliorato le sue performance lasciando indietro noi poveri europei. Se guardassimo le condizioni politiche ed economiche del nostro paese (e non scomodiamo il debito pubblico a nuovi massimi storici in questo periodo), verrebbe da gettare la spugna, fare una bella foto dei massimi di quota 45.000 del 2007 e tenerla a futuro memento dei nipotini.



Tuttavia non tutto è completamente perduto ed il forte gap apertosi fra dividend yield e rendimento dell’obbligazionario euro corporate potrebbe essere un fattore molto positivo per l’equity europea in ottica di medio periodo.

Ci spieghiamo meglio.

L’attuale QE europeo ha portato i tassi dei titoli obbligazionari europei su livelli estremamente contenuti rendendo così l’azionario molto più attrattivo. A questo punto, se volessimo per così dire “copiare” le corporate Us, bisognerebbe incentivare la de-equitization, ovvero il buy back di azioni proprie finanziato con l’emissione di bond a tassi estremamente contenuti. Secondo una nota casa d’investimento, questa sotto performance del nostro indice azionario (ma anche di quelli europei) risiede proprio nella politica di gestione del capitale opposta fra gli Usa ed il resto del mondo. In Usa già da tempo le società hanno capito che con tassi vicino allo zero era più conveniente ricomprarsi le proprie azioni (de-equitization) emettendo debito, mentre nel resto del mondo si sta ancora attuando una politica opposta, ovvero di equitization.



Non tutto è perduto quindi, ma a questo punto le corporate devono incominciare davvero a credere nei propri mezzi ed a cambiare completamente logica finanziaria.

Se riusciremo a fare questo salto, in primis culturale, un giorno riusciremo a recuperare il tempo perduto. In caso contrario ci resterà una bella foto da mostrare a figli e nipoti.



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Macché crisi bancaria, l’Italia va male da quando ha l’euro
20/8 •

L’Italia ha una crisi bancaria – quindi presumibilmente ha avuto quel tipo di folle boom che in genere conduce ad un crollo finanziario.
Ad esempio, piccoli mini-appartamenti in vendita a Torino per un milione di euro.
Banchieri che tracannano Asti Spumante e sniffano coca nei club di lap dance di Milano.
Concessionari Ferrari che vendono ad adolescenti macchine nuove da duecentomila euro, senza alcun controllo sul credito.
Vecchie signore che scivolano fuori dalla folla per piazzare ordini su azioni da due soldi coi loro smartphone.
Ma aspettate. L’Italia non ha visto niente del genere.
Negli ultimi dieci anni, la crescita è stata completamente piatta. I prezzi delle case in realtà sono in discesa. I mercati azionari hanno avuto l’euforia di uno dei comizi elettorali di Angela Merkel, all’incirca.
In effetti, l’Italia adesso ha la sbornia, senza mai aver partecipato alla festa. In realtà, l’Italia non ha affatto una crisi bancaria. Ha una crisi valutaria. L’euro ha succhiato la domanda fuori dall’economia e ha ucciso la crescita. Il risultato? Le sofferenze sono salite alle stelle.
Ora sta frenando il governo dal salvare il settore finanziario.
Il primo ministro Matteo Renzi può nascondere la magagne, ma fino a quando il paese non trova il modo di vivere con l’euro, o una via d’uscita dalla zona euro, nessuno dei suoi problemi sarà risolto. Dopo un mese di agitazione sul Brexit, che finora si è rivelato un non-evento, i mercati ora si stanno preoccupando del crollo del sistema bancario italiano – ed è giusto così. Secondo i dati del Fmi, le banche del paese hanno 360 miliardi di euro di crediti in sofferenza, pari al 18% del prodotto interno lordo. I prezzi delle azioni di tutte le maggiori banche sono in caduta libera.
UniCredit, la più grande banca del paese, ha visto la sue azioni perdere oltre il 60% del valore.
Banca Popolare di Milano ha perso oltre il 60% da inizio anno,
e così anche Intesa Sanpaolo.
Queste sono il tipo di perdite che suggeriscono che una banca sta per finire in guai seri.
Anche il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha detto all’inizio di questo mese che il settore avrebbe bisogno di una qualche forma di aiuto di Stato.
Ci siamo già passati, naturalmente.
Le banche fanno un sacco di prestiti irresponsabili. Caricano aziende, promotori immobiliari e consumatori con i debiti, e poi, quando i mercati iniziano a scendere, molti di questi prestiti vanno male e non possono essere rimborsati. Questo è quello che è successo negli Stati Uniti e nel Regno Unito nel 2008 e 2009, ed è un gioco che è stato giocato in molti altri paesi prima e dopo. In Italia, però c’è una giravolta. Non ci sono mai stati molti segni di prestiti irresponsabili. Se l’Italia è passata in una bolla speculativa, di quelle che è sempre probabile che scoppino, è molto difficile trovare delle prove. I prezzi delle case? Di solito sono un segno sicuro di surriscaldamento nel sistema. Ma, secondo i dati Eurostat, i prezzi degli immobili italiani sono in contrazione del 1,6% dall’ultimo anno.
Il mercato azionario? Nemmeno quello è stato esattamente in zona bolla. A quota 16.700 l’indice di Milano è più basso e lontano da quota 25.000 che ha toccato l’anno scorso, ed è a malapena sopra il livello di tre anni fa.
Che ne dite del credito al consumo? Secondo la Banca Centrale Europea, quest’anno sta crescendo ad un tasso di circa l’1% annuo.
In realtà, le banche italiane sono state gestite in modo perfettamente prudente e ragionevole. Il problema è che l’economia è diventata molto più piccola. La crescita ha colpito un muro, e sembra impossibile farla tornare in vita.
Nel 2015, l’economia italiana è cresciuta meno dell’1%. In realtà, l’economia in Italia è tuttora più piccola dell’8% di quanto era prima del crollo del 2008, e non è più grande di quanto fosse nel 1999, quando è entrata nell’euro.
Non è difficile capire cosa sta succedendo. Quando l’economia è così fiacca, un sacco di piccole imprese lottano per ripagare i loro debiti.
Allo stesso modo, i mutui vanno male e così i prestiti al consumo.
Un debito che sembrava perfettamente gestibile un decennio fa, non sembra così sano a 10 anni di distanza, quando l’economia è quasi un decimo più piccola, la disoccupazione è molto più alta, e i salari reali sono continuamente in calo. Quindi i livelli di debito sono aumentati inesorabilmente, solo perché l’economia annaspa.
Ciò ha portato ad una marea di crediti inesigibili. Semmai, è sorprendente non che le banche siano in difficoltà, ma che c’è voluto così tanto tempo perché i problemi emergessero.
In realtà, quello che ha l’Italia è una crisi da euro, non è una crisi bancaria. La moneta unica ha distrutto la competitività di quello che, 20 anni fa, era un settore manifatturiero perfettamente sano. Ha succhiato domanda fuori dall’economia, e ha sovraccaricato la spesa dei consumatori.
La situazione peggiora
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Le regole dell’Eurozona introdotte all’inizio di quest’anno significano che i detentori di obbligazioni, che in Italia sta ad intendere molti investitori privati, devono essere utilizzati per il “bail-in”.
Il governo non può semplicemente salvare le banche nei guai. Deve fare in modo che anche gli investitori privati ricevano un brutto colpo – e dal momento che molti sono semplici risparmiatori, questo significherà un calo anche maggiore della domanda, e lascerà l’economia in una forma ancora peggiore.
Come vi dirà qualsiasi medico, a meno che la diagnosi non sia giusta non vi sarà alcuna speranza di successo del trattamento. In questo momento, la Bce e i ministri delle finanze della zona euro stanno agendo come se si trattasse di una crisi bancaria come tutti le altre. Aggiustare le banche, fermare i prestiti irresponsabili, e tutto andrà di nuovo bene. Ma questo non è vero. Anche se le banche questa volta vengono riparate, in una economia stagnante saranno nuovamente nei guai in qualche anno. L’Italia è intrappolata nel peggiore dei mondi possibili – ed è diventata una vivida lezione di quanto sia diventato disfunzionale l’euro.
(Matthew Lynn, “L’Italia non è in crisi bancaria, è in crisi da euro”, da “Marketwatch” del 21 luglio 2016, post ripreso da “Voci dall’Estero”).
 
pochi giorni fa ho letto di un vicentino che ha evaso 7 milioni di euro con soli 500 mila euro di proprieta' decidendo di non dichiarare nulla dal 2008
ora mi chiedo com'e' possibile generare 7 milioni di debito con il fisco con soli 500 mila euro di capitali a disposizione?
domanda: conviene essere ricchi in un paese di comunisti estremisti?

primo commento di estremista comunista:
"Bastardo...devi marcire sotto un ponte! "

Verona, scoperto evasore totale per 7,6 milioni di euro - Veneto

evasore - Cerca con Google
 
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Eurozona ancora a rischio se si agita lo spettro bail-in
Eurozona ancora a rischio se si agita lo spettro bail-in

L’Eurozona resta una unione monetaria e bancaria incompleta; questo la espone a shock idiosincratici capaci di mettere di nuovo a rischio la sua sopravvivenza. Forse non tutti, a Bruxelles come in influenti circoli di economisti, hanno ancora ben compreso che il detonatore di quella crisi può essere l’uso sconsiderato dello strumento del bail-in, in una fase in cui debolezze diffuse nel sistema bancario di tutta l’Eurozona possono combinarsi a innestare un panico sistemico. Perché l’Eurozona resti una costruzione incompleta è presto detto. Sei anni dopo l’inizio della crisi del debito sovrano, essa non dispone ancora di un sistema adeguato di condivisione dei rischi d'insolvenza di uno stato membro.

Invece di trovare una soluzione soddisfacente, abbiamo nascosto il problema sotto il tappeto con gli interventi della Bce, che comprimono temporaneamente gli spread dei titoli sovrani periferici, rispetto al bund tedesco, ma solo fino a che dureranno gli interventi di quantitative easing. Nelle intenzioni del Consiglio europeo, non potendosi rimuovere dal sistema il rischio dei debiti sovrani, l'unione bancaria avrebbe dovuto almeno recidere il circolo vizioso potenziale tra rischi sovrani e bilanci bancari; ma ciò richiede l’istituzione, accanto al sistema unico di sorveglianza e di risoluzione delle banche in crisi, anche l’assicurazione cross-border dei depositi (Edis). Il Consiglio Ecofin ha recentemente congelato il negoziato sull’Edis, non essendo riuscito a trovare un compromesso accettabile tra riduzione dei rischi nei bilanci delle banche (leggi: riduzione dei portafogli di titoli pubblici nazionali delle banche della periferia indebitata) e condivisione dei rischi residui attraverso il pooling dei fondi di assicurazione dei depositi.

In generale, in assenza di un back-up fiscale comune – che il Meccanismo europeo di stabilità e il Fondo unico di risoluzione non possono garantire per l'insufficienza dei mezzi finanziari e per la mancanza di accordo sul loro utilizzo – il sistema resta esposto alla possibilità di attacchi speculativi, perché i mercati finanziari ben vedono i disaccordi tra i paesi membri sulla conduzione delle politiche economiche e comprendono che, in caso di attacchi speculativi, quei disaccordi potrebbero di nuovo impedire efficaci misure di contrasto, come già avvenne nel 2010-12.

La fragilità diffusa dei sistemi bancari non è solo italiana
Ciò avviene in un contesto di fragilità diffuse nei sistemi bancari dell’area, ben descritto nelle analisi dell’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale sulla stabilità finanziaria globale, che sottolinea che una banca su tre dell’area si trova, in condizioni ancora fragili dopo la lunga crisi, a dover affrontare tre sfide severe: la pulizia dei bilanci di masse rilevanti di presti deteriorati, di attività “tossiche” (level three assets) e di posizioni in strumenti derivati; l’esigenza di adattare i modelli di business ai profondi mutamenti tecnologici e di mercato; i radicali mutamenti nella regolamentazione delle banche. Poiché i titoli delle banche vengono scambiati con pesanti sconti rispetto al patrimonio netto, trovare i capitali necessari sul mercato può risultare troppo costoso per consentirne poi un’adeguata remunerazione, mentre l’andamento ancora depresso dell’attività economica e i tassi d’interesse bassissimi sulle attività comprimono i margini per coprire i fabbisogni di capitale con risorse generate internamente. Non è un caso se i titoli delle banche sono caduti negli ultimi mesi sui principali mercati dell'Eurozona (vedi grafico). Ma il dubbio che dovrebbe attanagliare le autorità europee è che, se la discesa è diventata talora precipitosa, ciò potrebbe esser dovuto proprio ai timori di azionisti e creditori di un uso dissennato delle nuove regole sul burden sharing da parte delle autorità europee.


Le regole sugli aiuti di stato e il bail-in possono destabilizzare il sistema

È oramai noto a tutti che le nuove regole europee per gli aiuti di stato alle banche contengono esplicite clausole di esenzione dal burden sharing nel caso in cui la stabilità economica e finanziaria appaia minacciata. Forse meno chiaro è che il timore di un’applicazione imprudente delle nuove regole sul burden sharing, in una situazione finanziaria ancora molto fragile, potrebbe destabilizzare la situazione fino a diventare il detonatore di una nuova crisi sistemica. Gli andamenti offrono qualche evidenza.

Scudo precauzionale per le banche, il nodo è la norma sui titoli subordinati
Come si può vedere, l’avvio del quantitative easing, a inizio 2015, aveva coinciso con l’aumento dei corsi delle banche quotate.
Faceva eccezione il Portogallo, dove l’estate prima era stato posto in risoluzione il Banco de Espirito Santo e si era applicato lo strumento del bail-in alle obbligazioni senior non garantite, in larga parte in mano agli investitori istituzionali. L'effetto sulle quotazioni delle banche portoghesi (e sugli spread del debito sovrano, qui non riportati) fu devastante, come si può vedere, e ancora persiste
. Più importanti ancor
a furono gli effetti sistemici nel resto dell’Eurozona: il mercato delle obbligazioni senior non garantite si è chiuso per tutte le banche, con la sola eccezione di quelle di maggiori dimensioni. Un effetto analogo sui corsi azionari sembra esser derivato in Italia dalla risoluzione di quattro piccole banche locali, nel novembre dello scorso anno: da quel momento i corsi della banche italiane sono caduti più ampiamente della media dell'Eurozona e restano su valori ingiustificatamente depressi alla luce delle variabili fondamentali di bilancio.
Si può notare che le quotazioni delle banche tedesche sono cadute come quelle delle banche italiane, indicando che il malessere è diffuso – dunque implicitamente negando che le tensioni che attraversano l’Eurozona siano dovute solo o principalmente alle banche italiane.



In conclusione
L'analisi che si è presentata sembra indicare non solo che il sistema bancario e finanziario sta fronteggiando una crisi sistemica, ma anche che un’applicazione rigida delle nuove regole sugli aiuti di stato – che non tenga sufficientemente in conto lo stato di fragilità finanziaria diffusa dell’Eurozona – può veramente diventare il detonatore di una crisi finanziaria sistemica. Le nuove norme offrono sufficiente flessibilità per consentire quegli interventi pubblici che possono ristabilire la fiducia degli investitori. Non utilizzarle sarebbe un atto di irresponsabilità che l’intero sistema potrebbe pagare molto caro.
 

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