Lo so, è stato detto e ridetto, chi ci crede e chi no. Nasdaq come Nikkey, Usa come Giappone. Chi ci crede, chi lo predica, chi lo esorcizza. Ma sono le sfumature che fanno la differenza. E attraverso queste cogliere l’essenza dei cambiamenti passati, di quelli in atto e – perché no – ipotizzarne di futuri. Cmq, lascio a voi il giudizio. Intanto, scartabellando la rete, ho trovato questo. Buona lettura
:smile:
Lo scorso anno
“La borsa giapponese rappresenta il caso anomalo di una debolezza prolungata e apparentemente inguaribile. Tra le speranze di un risveglio che, quando arriverà, potrebbe essere dirompente, e le ripetute delusioni di una ripresa annunciata e finora mancata, le radici della debolezza vanno ricercate nelle caratteristiche della bolla speculativa che si sviluppò in Giappone nella seconda metà degli anni ’80, e nel modo in cui venne affrontata.
Tra il Gennaio 1984 ed il Dicembre 1989 l’indice Nikkei arrivò quasi a quadruplicarsi, da 10.000 a 38.957 punti, livello mai più raggiunto. Alla base del fenomeno, le eccellenti condizioni di salute dell’economia nipponica, ma anche una politica monetaria eccessivamente permissiva. Nel corso degli anni ’80, infatti, i tassi giapponesi vennero tenuti bassi non solo in funzione delle esigenze interne ma anche in risposta alle pressanti richieste internazionali, segnatamente degli Usa, preoccupati di ridurre il proprio deficit commerciale e di ridare fiato alla congiuntura. La liquidità immessa nel sistema generò la crescita abnorme dei prezzi delle azioni, degli immobili e della terra. Nel clima di generale ottimismo le famiglie e, soprattutto, le imprese si indebitarono pesantemente offrendo in garanzia un patrimonio valutato a prezzi gonfiati. Il processo si autoalimentava: la crescita dei prezzi accresceva la capacità di indebitamento; l’espansione dei finanziamenti drogava la domanda di azioni ed immobili. Le autorità monetarie, preoccupate degli eccessi speculativi, nell’89 avviarono una politica di rialzo dei tassi, che ebbe l’effetto immediato di invertire il trend al rialzo della borsa. I prezzi della terra e degli immobili, i cui mercati sono strutturalmente meno efficienti, continuarono però a salire. A questo punto, nonostante il calo delle borse, la Banca del Giappone continuò ad alzare il tasso di riferimento, portandolo dal minimo del 2.5% del 1989 fino al massimo del 6% nell’Agosto del 1990. La politica restrittiva venne mantenuta fino al luglio 1991, ed anche allora i tassi vennero ridotti in maniera molto graduale. Tale comportamento venne considerato ottimale dagli osservatori dell’epoca. L’economia sembrava ancora forte, l’inflazione era sotto controllo e la bolla speculativa stava rientrando. La Banca del Giappone godeva fama di un efficientismo leggendario.
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Si stava però preparando il terreno ai problemi che ancora oggi attanagliano l’economia nipponica. Il crollo dei prezzi delle delle azioni e degli immobili, usati come garanzia per l’indebitamento del settore privato, accrebbero la rischiosità dei crediti concessi a piene mani dal settore bancario nel corso degli anni ’80. Le garanzie erano insufficienti, i debitori cominciavano a fallire, le banche restringevano il credito. Le famiglie, spaventate dai crolli dei valori azionari ed immobiliari, aumentavano i risparmi a scopo precauzionale riducendo i consumi e provocando la riduzione degli investimenti da parte delle aziende, le quali si ritrovavano con capacità produttive tarate sulle vecchie previsioni di crescita, quindi ormai eccessive. Nella fase di sgonfiamento della bolla speculativa la banca centrale era stata troppo restrittiva. Da quella crisi il Nikkei non si è finora ripreso, e vale oggi poco più di 1/3 rispetto al massimo di 12 anni fa.
I numerosi tentativi delle autorità economiche hanno provocato rush dell’indice anche consistenti, ma finora effimeri. I problemi sono i medesimi di 10 anni fa, incancreniti. Da più parti vengono richieste riforme strutturali, nel segno del vincente modello statunitense. Esse sono certamente necessarie, in particolare per quella parte dell’apparato produttivo orientato al mercato interno, non sottoposto alla concorrenza internazionale ed ancora ingessato in un sistema di sussidi e garanzie senza eguali tra le economie avanzate. Per l’avvio di un’azione realmente profonda, però, si dovrà probabilmente attendere il prossimo ciclo espansivo. Nell’attuale fase ci sono troppi rischi di deprimere ulteriormente il già basso livello di fiducia del Paese”.
Dopo la crisi del Far East (98)
“Tra gli economisti va per la meglio la tesi che Tokio sia alle prese con una sorta di trappola della liquidità di Keynesiana memoria. Un’ipotesi finora relegata nella teoria economica e che ora è scomodata perché consente un’uscita laterale alla crisi del paese, mediante la valvola della spesa pubblica.
In altre parole, Tokio ha reagito alla bolla speculativa all’inizio del decennio con una forte restrizione monetaria. Risultato, l’inflazione e i tassi d’interesse sono ai minimi storici. In queste condizioni - si sostiene - la reflazione dell’economia, aumentando la moneta a disposizione del sistema, non produce alcun effetto di propulsione dell’economia. Resta in una condizione di stallo sotto l’influsso della trappola della liquidità. Nello scenario in breve descritto, la teoria prevede che un aumento della spesa pubblica, produca una forte spinta sul sistema in panne. I tassi restano insensibili, e non pongono limiti al pieno impatto della domanda aggiuntiva proveniente dal settore pubblico. A questo punto, la domanda è: - il paese asiatico si trova nella condizione descritta? Può Tokio tornare ad essere la locomotiva della regione?
Non pochi sono i motivi di perplessità. Quando Keynes maturava la "General Theory", il mondo viveva all’epoca una fase di grave turbamento. La Belle époque si concludeva con la crisi del ‘29 e il decennio successivo vedeva l’implosione dell’economia mondiale e la corsa fatale verso la guerra mondiale. Inflazione e deflazione erano lo scenario in cui si svolgeva il dramma. Legare questo scenario al Giappone d’oggi è quanto mai arduo. La realtà del mondo attuale appare molto diversa. La stabilità, intesa come esclusione delle due malattie monetarie (l’inflazione e la deflazione), è il mito del secolo ventunesimo. La stabilità è un mito sconosciuto e in parte inesplorato dalla scienza economica. Tuttavia, è certo improprio ritenere che la stabilità dei tassi e dei prezzi possano configurare una sorta di trappola della liquidità. Che la mancanza d’inflazione attesa nel lungo periodo, possa essere un fattore di stallo per l’economia.
In realtà, in un modello di stabilità diffusa entrano in crisi i modelli teorici nati nel secolo che sta per concludersi, nei quali convivono inflazione e sviluppo. La promozione dello sviluppo con la manovra della domanda aggregata, la leva dei tassi e dei cambi a rischio di tensioni sui prezzi, fanno parte di un armamentario del passato. Il Giappone non si trova in una trappola della liquidità, a causa di tassi e inflazione prossimi allo zero. La causa sta nel cuore finanziario del sistema, nelle Banche sommerse da bad loans. Il Giappone odierno sembra avvicinarsi agli Stati Uniti alla metà degli anni ottanta. Per superare la grave crisi delle Saving & Loan fu costituito un organismo di salvataggio, che risultò provvidenziale per il mondo bancario Usa. Il progetto sul tavolo per il Giappone, è la costituzione di una Bridge bank, che svolga un ruolo ampio sia nell’accollo dei crediti inesigibili ed altre passività a carico delle banche sia nell’erogare nuove linee di credito alle imprese, specie di dimensioni modeste.
Il bilancio pubblico deve quindi svenarsi. Tuttavia, non per ridurre la tassazione, ma per sanare il sistema bancario, con l’accollo ai contribuenti della gran massa dei crediti inesigibili che gonfiano i bilanci delle banche. L’aumento della spesa pubblica non può avere velleità Keynesiane per il sostegno della congiuntura. Mira ad evitare il grave terremoto per il fallimento di banche principali. Messo ordine nella finanza, il Sol Levante potrà riprendere il cammino”.
Ancora, dalla rete (Brenner) – Paragone Usa-Japan alla fine del testo.
LA BOLLA E IL BOOM
Robert Brenner
”Due anni fa, nell'autunno 1998, l'economia internazionale sembrava in grande difficoltà. La crisi scoppiata nell'Asia orientale nell'estate del 1997 stava per travolgere il resto del mondo. Ovunque, eccetto che al centro dell'economia-mondo capitalistica, i valori azionari e monetari stavano crollando. La Russia aveva dichiarato bancarotta, il Brasile stava piombando nella depressione. La stessa economia giapponese stava nuovamente scivolando verso la recessione. L'economia americana non poteva rimanere immune da questo trend. Come risposta al crollo dei profitti nella prima metà del 1998, soprattutto nel settore industriale, che ancora aveva un ruolo centrale nell'economia, tra luglio e settembre i valori delle azioni crollarono drammaticamente. A ottobre, una pesante carenza di liquidità minacciava di trascinare l'economia statunitense — e quindi quella mondiale — in una zona a rischio. È a quel punto che è intervenuta la Federal Reserve. Ha organizzato il salvataggio del gigantesco Long Term Capital Management hedge fund (Ltcm: Fondo gestione dei capitali a lungo termine), asserendo che se lo avesse lasciato crollare l'intera economia internazionale avrebbe rischiato il collasso finanziario; e ha poi tagliato a tre riprese i tassi di interesse, non solo per neutralizzare la stretta creditizia, ma anche per far capire chiaro e tondo che voleva che i valori delle azioni salissero, in modo da sovvenzionare i consumi necessari a sostenere il riassestamento dell'economia internazionale.
L'esito di questa mossa è stato piuttosto contradditorio. La ciclica espansione americana che, fino al 1995, era stata assai meno marcata di quelle degli anni `70 e `80, ha improvvisamente acquisito forza. Da allora, e per i successivi cinque anni, si è registrata una rapida crescita del Pil, della produttività e anche dei salari reali, mentre la disoccupazione e l'inflazione diminuivano raggiungendo livelli appena inferiori a quelli della lunga espansione del dopoguerra. Gli investimenti sono aumentati in modo impressionante. I risultati dell'economia americana, sebbene pesantemente sovrastimati dalla stampa finanziaria, sono stati superiori nel decennio scorso a quelli raggiunti in qualsiasi periodo dei trenta anni precedenti. Ma, dall'altra parte, si è assistito alla formazione della più grande bolla finanziaria della storia americana. I valori delle azioni sono cresciuti a dismisura, senza alcun rapporto reale con i relativi trend industriali. Il debito pubblico, aziendale e finanziario, ha raggiunto, in riferimento al Pil, un livello record, rendendo possibile un'inedita esplosione dei consumi. La conseguente accelerazione delle importazioni ha portato il disavanzo della bilancia commericiale a livelli mai raggiunti prima. Il risultato è stata un'acquisizione massiccia e senza precedenti di beni americani da parte del resto del mondo, soprattutto di pacchetti azionari a breve termine; il che rendeva teoricamente l'economia americana vulnerabile a quelle stesse fughe di capitali, svalutazioni di beni e pressione verso il basso della valuta, che avevano travolto l'Asia orientale.
Se il boom ha spianato la strada alla bolla, la bolla ha accresciuto ulteriormente il boom. Il problema è quindi considerarli in maniera distinta l'una dall'altro. Solo determinando le forze che sovrintendono ai due fenomeni si può definire la traiettoria generale dell'economia americana, e farsi un'idea dei suoi sviluppi futuri. Le tensioni che hanno quasi provocato, appena due anni fa, il crollo dell'economia mondiale, sono forse state superate? L'attuale ciclo di crescita proseguirà e si rafforzerà? Dietro queste domande se ne nasconde un'altra più rilevante. L'economia americana sta forse uscendo finalmente dalla lunga congiuntura negativa cominciata intorno al 1973, ed è forse sulla soglia di un nuovo lungo ciclo di crescita, come negli anni `50 e `60? O, invece, dovrà affrontare quell'ampio movimento di correzione e reazione che ha già colpito la bolla giapponese degli anni '80, che, con il calo dei valori azionari gonfiati e della situazione contabile, si è trovata di fronte ad una profonda e vasta recessione?
I. L'aumento della redditività: 1985-1995
Le cause dell'aumento di produttività del settore industriale statunitense sono da ricercare nella recessione degli anni 1979-82, quando gli elevati tassi di interesse reali che hanno accompagnato la svolta monetaristica di Volcker hanno provocato un ampio processo di razionalizzazione industriale. In seguito a una serie di fallimenti come non si vedevano dalla `Grande depressione' degli anni `30, diversi mezzi di produzione e settori di manodopera vennero allora eliminati. La crisi del settore industriale venne inasprita dall'enorme aumento del valore del dollaro, seguito al notevole aumento dei tassi di interesse di quegli anni. Il primo risultato di questa politica fu un aumento della crescita produttiva dell'industria. Un altro, tuttavia, fu il livello record raggiunto dal disavanzo della bilancia commerciale: il dollaro galoppante riduceva sensibilmente la competitività statunitense. Tra il 1980 e il 1985, le importazioni industriali aumentarono di un terzo. Questa tendenza non poteva essere sostenuta e portò rapidamente a uno storico mutamento di politica.
L'accordo di Plaza
Il punto di svolta — un vero e proprio spartiacque per l'intera economia mondiale — fu l' `Accordo di Plaza' del settembre 1985, quando le potenze del G5 si accordarono per ridurre il tasso di cambio del dollaro, e salvare il settore industriale americano, che rischiava la decimazione. L' `Accordo di Plaza' ha portato a dieci anni di continue svalutazioni del dollaro rispetto allo yen e al marco tedesco, e a un decennale congelamento dei salari reali. Ha fatto quindi riacquisire competitività alle industrie statunitensi, provocando la crisi di quelle tedesche e giapponesi, e una esplosione senza precedenti di uno sviluppo industriale basato sulle esportazioni in tutta l'Asia orientale, le cui valute erano quasi tutte legate al dollaro declinante. Tra il 1985 e il 1995, il dollaro ha perso circa il 40% del suo valore rispetto al marco, e il 60% rispetto allo yen. Nello stesso periodo, i salari reali nel settore industriale statunitense sono aumentati a un tasso annuale medio dello 0,5%, a fronte del 3% della Germania e del 2,9% del Giappone. Nel frattempo, la recessione del 1990-91 aveva dato un'altra spinta all'eliminazione dal mercato dei mezzi di produzione ad alto costo e basso profitto nell'economia, provocando un ulteriore `aumento della disoccupazione'.
La combinazione di questi fattori — svalutazione del dollaro, blocco dei salari e razionalizzazione industriale, nonché, dopo il 1993, il conseguente aumento degli investimenti — innescò un cambiamento fondamentale nel modus operandi del settore industriale statunitense nei confronti dei mercati esteri. Dal 1985 al 1997 le esportazioni aumentarono a un tasso annuo del 9,3%, superiore del 40% rispetto a quello degli anni tra il 1950 e il 1970. A poco a poco, le esportazioni hanno spinto in avanti il settore industriale, e quindi l'intera economia. Questa rinnovata competitività internazionale ha reso possibile un notevole aumento lordo della redditività industriale. Nel 1986, nonostante il vigoroso aumento della produttività e la stagnazione dei salari reali, il tasso di profitto del settore industriale rimaneva ancora del 20% inferiore al suo livello del 1978, e del 50% a quello del 1965. Ma, a partire dal 1986, la redditività industriale aumentò rapidamente. La sua crescita venne interrotta dalla recessione del 1990-91 e dai suoi strascichi ma, dal 1995, la redditività lorda del settore industriale statunitense è aumentata del 65% rispetto al 1986, superando, per la prima volta nell'ultimo quarto di secolo, il livello del 1973 (ma rimanendo però per un buon terzo al di sotto del picco raggiunto nel 1965).
È ormai diventato consueto sottostimare l'importanza del settore industriale, mettendo in evidenza il suo ruolo sempre più limitato nella percentuale di occupazione e di Pil. Ma, negli anni `90, il 46% dei profitti derivanti dalle aziende non finanziarie proveniva dal settore industriale; nel 1998 (ultimo anno per cui disponiamo di dati statistici), tale cifra si assestava sul 42,5% del totale. Era stata proprio la caduta della redditività nel settore industriale internazionale, cominciata tra il 1965 e il 1973, non solo negli Stati Uniti ma in tutta l'economia-mondo, che aveva provocato il lungo ciclo di recessione — l'esteso periodo dall'inizio degli anni `70 fino all'inizio degli anni `90 contrassegnato da una lenta crescita della produzione, degli investimenti e della produttività, da un alto tasso di disoccupazione e da profondi e lunghi cicli di recessione 1. Segno dello stesso trend, la ripresa della redditività lorda del settore industriale statunitense ha prodotto la crescita della redditività lorda dell'economia privata non finanziaria, che è salita del 15,6% tra il 1986 e il 1995, avvicinandosi ai livelli della fine degli anni `60. Questo è ulteriormente confermato dal fatto che il tasso di profitto lordo dell'economia non finanziaria al di fuori del settore industriale è rimasto stabile per tutto il decennio - ed è anzi leggermente diminuito.
La ripresa della redditività veniva ulteriormente amplificata dai tagli alle imposte dell'inizio degli anni `80, quando Repubblicani e Democratici facevano a gara per offrire sovvenzioni alle imprese. Dal 1995, i tassi di profitto netti dell'economia aziendale non finanziaria e del settore industriale sono cresciuti, rispettivamente, del 23% e del 24%, sebbene i tassi lordi rimanevano del 34% e del 35% al di sotto dei livelli massimi raggiunti nel 1965. Le aziende si sono ulteriormente rafforzate, nella prima metà degli anni `90, riducendo in maniera significativa la loro dipendenza dal debito — e quindi la percentuale dei loro profitti in mano ai creditori. Tra il 1979 e il 1991 i pagamenti degli interessi netti in proporzione al surplus totale (profitti più interessi netti) delle aziende non finanziarie si sono assestati su una media del 31,8%, raggiungendo quota 37% nel 1991. A partire dal 1995, questa cifra è scesa al 20%, raggiungendo poi una media del 18% negli ultimi cinque anni del secolo.
Mentre l'economia statunitense stava lentamente uscendo dalla recessione del 1990-91, la ripresa della redditività cominciò infine a scuotere l'economia reale. Per diverso tempo, gli investimenti nel settore industriale erano rimasti stagnanti. Ma, tra il 1993 e il 1998 hanno fatto un balzo in avanti ad un tasso annuo medio del 9,4%, a fronte del 2,6% degli anni compresi tra il 1982 e il 1990. In questo stesso periodo i valori di capitali netti nel settore industriale sono aumentati ad un tasso annuo del 2,7%, a fronte dell'appena 1,3% registrato tra il 1982 e il 1990. La ripresa degli investimenti nell'economia privata nel settore non industriale cominciò più o meno nello stesso periodo, e si rivelò alla fine più consistente di quella del settore industriale. A sua volta, l'accelerazione degli investimenti fece quasi certamente aumentare la velocità della crescita produttiva, già largamente facilitata dalla definitiva eliminazione dal mercato di mezzi di produzione obsoleti. L'introduzione della `produzione a basso costo' di stampo giapponese ha fatto aumentare i posti di lavoro non qualificati, mentre diversi processi sono stati delocalizzati verso settori non sindacalizzati, in cui i lavoratori non disponevano della minima protezione sociale. In questi anni le aziende stavano anche cominciando ad applicare le tecnologie informatiche alla produzione industriale in modo consistente (anche se il loro impatto rimaneva limitato dal basso livello degli investimenti). Tra il 1982 e il 1990, nonostante il rallentamento della crescita degli investimenti, la produttività della manodopera industriale aumentò quindi ad un tasso annuo di circa il 3,3%, più o meno allo stesso ritmo del lungo boom del dopoguerra. Ma sulla spinta dell'aumento delle infrastrutture promosso dall'inizio degli anni `90, tale produttività è poi cresciuta a un tasso annuo medio del 4,74% dal 1993 al 1999. Questo ritmo accelerato non era la semplice espressione del più elevato rapporto capitale/manodopera. In effetti, tra il 1993 e il 1998, la stessa produttività del capitale ha continuato ad aumentare a quel ritmo del 2,6% che già aveva durante l'espansione degli anni `80, rendendo evidente che la produttività complessiva, considerata come capitale e forza lavoro, stava crescendo in maniera significativa.
Servizi e finanza
Il quadro era piuttosto diverso nel settore non industriale — servizi, edilizia, trasporti, servizi pubblici e miniere. La crescita in questo settore fu infatti discontinua e non esplose fino al 1996. A differenza di quanto era avvenuto nel settore industriale, in cui si era registrato un solido aumento della produttività molto prima del balzo in avanti degli anni `90, la produttività del settore non industriale aveva avuto risultati piuttosto miseri per circa vent'anni, con una crescita media annua dello 0,6% tra il 1977 e il 1995. Ma dal 1995 al 1999 è invece cresciuta, sulla scia dell'aumento degli investimenti non industriali, e in concomitanza con il balzo in avanti della redditività non industriale, a un ritmo annuo medio di circa il 2,4%, a fronte del circa 2,7% registrato tra il 1950 e il 1973 durante il boom del dopoguerra.
In che situazione versavano intanto le istituzioni finanziarie? Il problema di cercare di trarre profitto dal credito in un'epoca di sovra-produzione industriale a livello internazionale si è mostrato in tutta la sua gravità con l'esplosione del debito dei paesi produttori del Terzo mondo negli anni `70, e con le conseguenti crisi del debito dei paesi in via di sviluppo dei primi anni `80, che hanno minato il sistema alle fondamenta. I principali Stati capitalistici sono naturalmente intervenuti per salvare le grandi banche internazionali, usando il Fmi per mettere al sicuro i propri fondi (nei limiti del possibile) e imponendo ai paesi in via di sviluppo che volevano ottenere prestiti misure di ristrutturazione draconiane. Negli anni `80, il tentativo delle istituzioni di credito e delle banche commerciali di investire in beni immobili ha seguìto uno sviluppo simile, e ha portato al crollo della bolla immobiliare e al collasso di diverse banche verso la fine del decennio. La conseguente operazione di salvataggio degli istituti di credito è costata ai contribuenti americani l'equivalente di tre anni di investimenti privati. La moltiplicazione di fusioni e acquisizioni si è spinta tanto in avanti che quello che veniva considerato l'elemento caratterizzante della congiuntura finanziaria dell'epoca ha avuto la stessa misera fine. Se nella prima metà degli anni `80 — nel momento in cui la redditività del settore industriale ha raggiunto il suo livello minimo — queste fusioni hanno effettivamente portato a un aumento dei profitti, il potenziale di introiti del settore si è trovato rapidamente ristretto dalle entrate in eccesso, provocando, col passare degli anni, una sensibile diminuzione dei profitti, perché gli investitori si trovarono costretti a pagare prezzi sempre più alti per le loro fusioni. Il naufragio del movimento di fusione e acquisizione ha ampiamente contribuito al declino delle banche commerciali, che già avevano subìto una riduzione di introiti in seguito all'antagonismo crescente di varie istituzioni di credito non bancarie, come compagnie assicuratrici e finanziarie, oltre che per la diffusione dei titoli di Stato.
La situazione del settore finanziario venne ulteriormente peggiorata dall'inizio della recessione del 1990-91. Solo un'ulteriore operazione di salvataggio da parte del governo ha evitato una crisi di grande portata. Questa volta, la Federal Reserve ha portato i tassi di interesse reali a breve termine a quota zero, per permettere alle banche di rimettere in pari i propri bilanci e riprendere in modo redditizio la loro attività creditizia. Come si è visto in seguito, i problemi finanziari si sarebbero dissolti con sorprendente rapidità all'inizio degli anni `90. È stato durante l'epoca di Clinton, Ruban e Greenspan, più che durante quella di Reagan e Volcker, che si è assistito alla vera ascesa della finanza nell'economia americana. Nel momento in cui, all'inizio del decennio, la Fed ha ridotto in maniera così consistente i tassi di interesse a breve termine, alle banche è stato permesso sia di avere profitti insperati sulle obbligazioni in loro possesso sia di portare avanti i loro affari correnti — contrarre prestiti a breve termine a basso costo e prestare a costi elevati a lungo termine — con un successo ineguagliabile. Quando Clinton ha giurato che non avrebbe fatto tagli alle spese per far quadrare il bilancio, ha dato le necessarie garanzie ai creditori che i loro profitti non sarebbero stati divorati dall'inflazione. Per fugare ogni dubbio, nel 1994 Greenspan ha aumentato sensibilmente i tassi di interesse, di due punti percentuali e mezzo, in modo da frenare l'espansione.
Decollo finanziario
La prova definitiva della ripresa economia dei creditori e degli speculatori è stato il risanamento dell'economia non finanziaria avvenuto durante l'espansione degli anni `90. Le banche in particolare registrarono un'incredibile congiuntura positiva. La domanda di prestiti crebbe rapidamente, e le perdite legate al credito diminuirono sensibilmente. Mentre nel 1990 solo il 30% dei beni bancari era ufficialmente definito “ben capitalizzato”, il dato raggiunse quota 97% nel 1996. Nel momento in cui l'economia cominciava a prosperare, le banche potevano finalmente trarre il massimo vantaggio dal processo di deregulation che aveva cominciato a delinearsi alla fine degli anni `70, aumentando gli introiti di attività fuori bilancio, come le commissioni sulla vendita di fondi comuni di investimento. Nel frattempo, la tendenza verso la concentrazione bancaria cominciò ad aumentare negli anni `80: la percentuale di beni bancari posseduti dalle maggiori holding finanziarie del paese raggiunse il 64% nel 1996 — a fronte del 57% del 1986 — mentre il numero di compagnie commerciali diminuiva nello stesso periodo da 11.000 a 7500. Cosa forse ancora più importante, la Fed si assicurò che lo scarto tra quanto le banche pagavano per i loro debiti a breve termine e quanto ricevevano per i loro crediti a lungo termine rimanesse `insolitamente alto' 2. Il risultato fu di portata storica. Durante gli anni `90, le istituzioni finanziarie statunitensi in generale, e le banche commerciali in particolare, raggiunsero il più alto tasso di profitto sui propri valori di tutto il dopoguerra, con un margine piuttosto alto. A conferma della nuova congiuntura positiva, i profitti del settore finanziario furono sensibilmente più alti — come percentuale dei profitti totali aziendali — di qualsiasi altro periodo del dopoguerra. Come ciliegina sulla torta, i valori azionari schizzarono alle stelle.
Dalla metà degli anni `90 l'intero settore aziendale americano ha migliorato sensibilmente le proprie prestazioni rispetto al decennio precedente, soprattutto grazie all'ampio e brutale processo di razionalizzazione e ridistribuzione. La razionalizzazione industriale era consistita in una massiccia rimozione di macchinari e infrastrutture obsoleti e inutili e nel `ridimensionamento' di decine di migliaia di lavoratori, in modo da registrare miglioramenti nella produttività. Le aziende hanno quindi enormemente aumentato i propri profitti a scapito dei lavoratori, mediante un congelamento decennale dei salari reali, e una altrettanto decennale svalutazione del dollaro, a tutto scapito dei rivali commerciali esteri. Solo verso la fine di questo processo di ripresa hanno cominciato a intensificare gli investimenti stimolando quindi la crescita produttiva. Come abbiamo già visto, la ripresa della redditività nel settore industriale, amplificata da una decisiva riduzione delle imposte pagate dalle aziende, può effettivamente spiegare la completa ripresa del tasso di profitto del settore non finanziario nel 1995. Dopo il 1995, si è registrato un aumento sostanziale nel settore non industriale, soprattutto nei servizi, che ha portato la redditività dell'economia aziendale vicino ai picchi raggiunti nel lungo boom del dopoguerra. Consolidate le basi dell'economia reale, il settore finanziario ha potuto sfruttare la deregulation, oltre ai generosi sussidi e al saldo supporto del governo, per portare a termine una svolta inattesa. Se questa simbiosi tra il settore industriale, finanziario e dei servizi poteva essere mantenuta, l'economia statunitense si sarebbe forse potuta lasciare alle spalle la lunga epoca di recessione.
II. Spartiacque: 1995-1998
A livello di economia mondiale, tuttavia, la ripresa del settore industriale americano tra il 1985 e il 1995 ha esercitato un'enorme pressione sulle economie giapponese e tedesca, basate sulle esportazioni, per non parlare di tutta l'Europa occidentale. La profonda recessione e la ristrutturazione industriale su vasta scala avvenute in Giappone e in Europa occidentale nella prima metà degli anni `90, a causa delle valute forti, possono essere considerate l'equivalente della crisi del settore industriale americano nella prima metà degli anni `80, in seguito alla stretta monetaria di Volcker, all'impennata del valore del dollaro, e alla sbandata di Reagan-Regan per la finanza. Ma le difficoltà del Giappone e della Germania sono state probabilmente aggravate dal vantaggio degli Stati Uniti che, in simili circostanze, avevano già eliminato le imprese ad alto costo e a basso profitto. La ripresa statunitense avvenne a tutto scapito dei suoi principali rivali. Ma c'era comunque un prezzo da pagare per tutto ciò. Nella prima metà degli anni `90, la stagnazione complessiva dell'economia mondiale, aggravata dalla sovracapacità industriale e leggermente rallentata dalla pressione sui salari e dalla stretta creditizia, non era stata sormontata. La stessa ripresa statunitense era limitata dalla sempre più lenta crescita della domanda mondiale, e dalla conseguente intensificazione della competizione internazionale nel settore industriale. Non sottolineeremo mai abbastanza che, anche alla metà degli anni `90, l'economia mondiale mostrava ben pochi segni di essere uscita dalla lunga fase di stagnazione. In effetti, la crescita in questi cinque anni fu, nelle avanzate economie capitalistiche, sensibilmente più lenta che in ogni altro periodo degli ultimi trent'anni. Una tale constatazione non è valida solo per l'economia tedesca e quella giapponese, piombate in una profonda recessione, ma anche per la stessa economia statunitense, che crebbe più lentamente tra il 1990 e il 1995 di quanto avesse fatto negli anni `70 e `80.
Bisogna dire che questa lenta crescita non ha dato particolari pene all'amministrazione Clinton, che di fatto ha potuto portare avanti una politica monetaria avventuristica e una riduzione delle imposte come non si vedevano dall'epoca di Eisenhower — in attesa di una completa ripresa della redditività delle aziende. Non solo Clinton ha rifiutato la strategia di spesa del deficit usata dall'economia americana e internazionale per uscire dalle crisi dall'inizio degli anni `70, ma ha portato avanti una crociata per far quadrare il bilancio, che ha ridotto il disavanzo federale come percentuale del Pil dal 4,7% del 1992 a quota zero nel 1997. Inoltre, non appena l'economia ha cominciato a dare segni di ripresa, la Federal Reserve, come abbiamo già visto, ha aumentato i tassi di interesse di tre punti percentuali tra il febbraio 1994 e il febbraio 1995. In realtà, secondo i sondaggi di opinione, «molta gente pensava che il paese fosse ancora in una fase di recessione per tutto il 1995» 3. Non è certo sorprendente che, tra il 1990 e il 1995, il Pil statunitense, la produttività della manodopera e i salari reali sono cresciuti più lentamente di quanto fosse avvenuto negli anni `70 e `80.
Nel 1996 questa congiuntura cambiò. In quell'anno, e nell'anno seguente, la crescita di tutte le più importanti variabili economiche subì una considerevole accelerazione, includendo (con uno sfasamento) anche i salari reali. È chiaro che il recupero della redditività nel settore industriale, basato in gran parte sulla svalutazione del dollaro, la restrizione dei salari e la riduzione delle tasse sulle imprese – e solo in tempi molto recenti amplificata dal boom degli investimenti – stava cominciando a fruttare. Nel 1997, mentre le esportazioni reali salivano del 14%, l'economia prosperava come non aveva fatto per decenni, e cominciò a prospettarsi uno scenario dove gli Stati Uniti potevano finalmente condurre l'economia mondiale fuori dalla stagnazione. L'espansione del mercato interno statunitense, che stava rendendo possibile una crescita a livello internazionale sotto la spinta delle esportazioni, non poteva più essere sostenuta, come era stato per decenni, in prima istanza dal deficit del governo USA, ma, in modo sostanziale, dalla crescita delle esportazioni e dall'investimento di capitale, fondato su una competitività crescente e su un incremento degli indici di profitto. Proprio al momento in cui una crescita più rapida cominciava a diffondersi in tutta l'economia Usa, dalla fine del 1995, le sue stesse fondamenta cominciarono a essere trasformate da due linee di sviluppo strettamente legate fra loro. Da una parte, una rapida crescita del dollaro cominciò a minare alla base le esportazioni dell'industria, innalzando i relativi costi dei beni americani e accelerando indirettamente la fine del boom dell'Asia orientale. D'altro lato, la bolla del mercato che stava esplodendo, finanziando una febbrile corsa all'indebitamento, cominciò a spostare la forza trainante dell'espansione verso i consumi interni, e di conseguenza a far decollare la crescita dell'economia Usa.
Il Plaza ribaltato
Il punto di svolta nella fase iniziale di entrambe queste linee di sviluppo, e a conti fatti dell'evoluzione dell'economia mondiale nella seconda parte degli anni `90, è stato l'accordo siglato dagli Usa, dal Giappone e dagli altri paesi del G7 che sarà poi chiamato `Accordo del Plaza ribaltato'. Nella prima parte del 1995, in seguito al crollo del peso e alla conseguente operazione di salvataggio dell'economia messicana, si verificò una nuova corsa al dollaro, che venne ad accentuare fortemente la lunghissima fase di flessione del precedente decennio. Una moneta a buon mercato era stata, ovviamente, un prerequisito indispensabile per la ripresa della redditività dell'industria Usa e di tutta l'economia non-finanziaria, e Washington l'aveva accolta con notevole entusiasmo, tornando tra il 1985 e il 1995 alla politica di benign neglect nei confronti del dollaro, la stessa che aveva prevalso per la maggior parte degli anni '70. Così quando il dollaro precipitò nei primi mesi del 1995, l'amministrazione Clinton non soltanto non fece nulla per frenare la caduta, ma aumentò anche la pressione sul Giappone, minacciando di escluderlo dal mercato automobilistico statunitense se non avesse acconsentito ad aprire agli Usa il suo mercato di componenti per auto.
Nell'aprile del 1995, comunque, lo stesso dollaro basso che aveva contribuito a guidare l'economia industriale degli Usa per un decennio aveva portato il Giappone sull'orlo del collasso. Lo yen era salito di oltre il 60% rispetto al suo livello dell'inizio del 1991 e di circa il 30% rispetto all'inizio del 1994, arrivando al tasso record di 79 nel cambio col dollaro. A quest'altezza astronomica, i produttori giapponesi non potevano neanche coprire i loro costi variabili, e la crescita della macchina giapponese sembrava essersi inceppata. Nonostante quella che era stata, proprio in questa congiuntura, la loro preoccupazione quasi ossessiva per la competitività dell'industria, le autorità Usa non erano in grado di considerare questo sviluppo con serenità. Erano infatti state appena scioccate dalla crisi messicana, che, venuta fuori `dal nulla', aveva fatto tremare il sistema finanziario internazionale. E una versione giapponese sarebbe stata ovviamente molto più pericolosa. Così anche se una crisi giapponese poteva essere contenuta, poteva invece facilmente verificarsi una liquidazione su larga scala dell'immenso patrimonio azionario Usa in mano ai giapponesi, soprattutto di buoni del Tesoro. Uno sviluppo del genere avrebbe spinto al rialzo i tassi d'interesse, spaventato i mercati monetari, e forse avrebbe portato verso una recessione nello stesso istante in cui l'economia Usa sembrava finalmente pronta a raddrizzarsi. Oltretutto cominciavano a essere incombenti le nuove elezioni presidenziali. Gli Stati Uniti, sotto la guida del Segretario al Tesoro, Robert Rubin, non soltanto rinunciarono a forzare l'apertura del mercato giapponese di componenti per auto, ma intrapresero un progetto con giapponesi e tedeschi per un'azione comune tesa a ribassare lo yen (e il marco) e rialzare il dollaro. Questo fu in parte ottenuto abbassando i tassi d'interesse giapponesi rispetto a quelli americani, ma anche aumentando l'acquisto di dollari da parte di giapponesi e tedeschi, oltre che con l'intervento del Tesoro stesso per sostenere la moneta americana 4.
Questo fu un accordo provvisorio, che rappresentò un dietrofront nella politica sia degli Usa sia dei suoi principali alleati e rivali, in modo molto simile a quanto era accaduto per l'originario accordo del Plaza del 1985. Gli Stati Uniti rinunciarono ai vantaggi che una moneta debole aveva portato al settore industriale per quasi un decennio. Ma si assicurarono in cambio sia la prospettiva di un enorme afflusso di capitali che si immaginava potesse servire a coprire il crescente deficit della bilancia commerciale e rialzare il valore delle azioni, sia un'inondazione di importazioni a basso prezzo su cui poter contare per esercitare una forte pressione al ribasso sui prezzi, sollevando la Fed da gran parte del lavoro di contenimento dell'inflazione. In un certo senso, l'amministrazione Clinton stava favorendo i creditori e gli speculatori dei mercati a scapito degli industriali, più o meno allo stesso modo in cui l'amministrazione Reagan aveva fatto nella prima metà degli anni '80. Si potrebbe credere che un settore industriale Usa ridimensionato poteva ora resistere con successo a una crescita del dollaro. Forse si è anche pensato che l'aumento della redditività nei servizi e la crescita dei consumi interni avrebbero potuto compensare un declino dei profitti nell'industria. In ogni caso, le conseguenze sensibili di questo accordo si sentirono immediatamente in tutto il sistema mondiale, esattamente nel modo opposto in cui si erano registrati i drammatici effetti dell'originario accordo del Plaza nel 1985. La crescita della moneta cominciò allora a comprimere l'industria americana (piuttosto che quella giapponese e quella tedesca); le società giapponesi e tedesche (piuttosto che quelle Usa) iniziarono delle riprese (di breve durata); e l'Asia orientale passò dal boom record successivo all'accordo del Plaza a una crisi regionale successiva al `Plaza ribaltato'. Allo stesso tempo, esplodeva negli Usa un'immensa bolla finanziaria, consentendo all'espansione economica americana di accelerare sulla base della crescita dei mercati, del debito e dei consumi – proprio come aveva fatto la bolla in Giappone, dopo il 1985.
L'impennata delle azioni
Dal tempo della recessione della Volcker all'inizio degli anni '80, il mercato azionario Usa conobbe una storica ascesa. Questa fu interrotta dal crack dei mercati del 1987; ma quando non soltanto la Fed ma anche le autorità finanziarie degli Stati Uniti presero la decisione di fermare il crollo del prezzo delle azioni, molti investitori cominciarono a credere che non si sarebbe mai permesso al mercato dei titoli di precipitare troppo duramente, e la tendenza al rialzo continuò. Tra il 1990 e il 1993, la crescita dei mercati ebbe un ulteriore incremento quando Greenspan ridusse a zero i tassi di interesse reali a breve termine, per salvare le società sommerse dai debiti e le banche sull'orlo del fallimento – aprendo la strada a una massiccia espansione della liquidità. Poiché le opportunità di realizzare profitti erano ancora relativamente limitate in un'economia reale Usa che solo adesso stava lentamente riprendendosi dalla recessione, l'afflusso di moneta a buon mercato che ne seguì si riversò sui titoli, catalizzando un ulteriore notevole rialzo dei mercati. Tuttavia, alla fine del 1995 i corsi azionari, anche dopo un rapido incremento oltre i risultati migliori di una dozzina d'anni, non erano riusciti a staccare la crescita degli utili industriali. Si poteva affermare infatti senza troppa esagerazione che il significativo rialzo del valore delle azioni fino a quel punto non faceva altro che rispecchiare il recupero della redditività nell'economia Usa dopo lo stato di stagnazione della recessione dei primi anni '80. Tra il 1980 e il 1995 l'indice del valore delle azioni al NYSE (New York Stock Exchange) è aumentato di un coefficiente del 4,28, mentre i profitti al netto d'imposta sono aumentati del 4,68. Ma da questo momento in poi, il valore delle azioni perse rapidamente contatto con quello degli utili industriali che li sostenevano, e la bolla del mercato azionario cominciò a gonfiarsi.
È chiaro che la ripresa della redditività iniziata dieci anni prima, e la grande fiducia che aveva creato negli investitori, erano le condizioni necessarie per l'impennata dei corsi azionari che ebbe inizio dal 1995-96. Le forze che in realtà permisero quest'impennata non sono così facili da delineare. Tuttavia non si può non arrivare alla conclusione che una grande responsabilità va attribuita alle drammatiche trasformazioni nelle condizioni della finanza internazionale e ai flussi di capitale che entrarono in gioco nel corso del 1995. Nel marzo '95, a seguito dell'operazione di salvataggio del Messico, la Fed fermò la campagna di restringimento del credito iniziata circa un anno prima e, a partire dal luglio 1995, abbassò i tassi di circa tre quarti di punto durante i successivi sei mesi. Un dato forse ancora più notevole è che le misure prese per mettere in atto l'accordo del Plaza ribaltato non solo cominciarono a far salire il dollaro, amplificando in tal modo gli incrementi nel valore dei patrimoni Usa (compresi i titoli) per gli investitori orientati a livello internazionale, ma diedero anche spazio libero al fiume di denaro che veniva dal Giappone, dall'Asia orientale e da tutto il mondo, per potersi riversare nei mercati finanziari americani, facendo così scendere drasticamente il costo dei prestiti per investimenti.
Nell'aprile 1995, la Banca del Giappone tagliò il tasso ufficiale di sconto, già molto basso all'1,75%, fino all'1%, e il settembre successivo lo riabbassò ancora fino allo 0,5%. Questo contribuì a determinare l'effetto desiderato di ridurre il valore dello yen. Ma piuttosto che stimolare l'economia interna nella quale i tassi di profitto erano ancora troppo bassi per giustificare molti investimenti a lungo termine per le infrastrutture, i bassissimi tassi d'interesse del Giappone ebbero l'effetto di gonfiare la globale offerta di credito, considerato che una grande porzione dell'accresciuta liquidità giapponese si riversava fuori dai confini. Gli investitori Usa, in particolare, diedero vita a un `commercio di riporti' — assai redditizio, comprando yen in Giappone a un basso tasso d'interesse, convertendoli in dollari, e usando questi ultimi per investire in tutto il mondo. Buona parte dei profitti ritrovavano la loro strada proprio nel mercato azionario Usa 5.
Nel frattempo, le autorità giapponesi stavano riversando capitali sui titoli e sulla moneta Usa, e incoraggiavano le compagnie d'assicurazione giapponesi a comportarsi allo stesso modo, ammorbidendo la regolamentazione sugli investimenti all'estero. I governi dell'Asia orientale, decisi a tenere basso il valore delle monete locali e a sostenere la crescita delle esportazioni, si allinearono, e furono seguiti a ruota dagli investitori privati in tutto il mondo, specialmente dagli hedge funds. In questo modo nel 1995 gli acquirenti esteri compravano titoli del governo Usa per un valore di 197 miliardi di dollari, due volte e mezzo la media degli anni precedenti, continuando con acquisti per 312 miliardi di dollari nel 1996 e di 189,6 miliardi di dollari nel 1997. Di questa spesa, la parte più grossa riguardava titoli del Tesoro — 168,5 miliardi di dollari nel 1995, 270 nel 1996, 139,7 nel 197. La somma totale di più di 500 miliardi dollari in titoli del Tesoro Usa comprati da acquirenti stranieri in questi tre anni coprì non solo tutto il nuovo debito emesso dal Tesoro Usa in questo periodo, ma anche altri 266,2 miliardi di dollari di debito statale, prima in mano a, e ora comprato da, cittadini americani 6.
Quest'enorme massa di acquisti non poteva che facilitare le condizioni dei mercati monetari Usa, abbassando i tassi d'interesse e liberando un flusso di liquidità per comprare azioni Usa. Tra il gennaio 1995, quando queste raggiunsero il loro massimo in seguito alla stretta economica del 1994, e il gennaio 1996, i tassi d'interesse sui buoni trentennali del Tesoro precipitarono dal 7,85% al 6,05%. Questa riduzione vicina al 25% nel costo dei prestiti a lungo termine nel corso del 1995 ha costituito il principale fattore nel creare la bolla del mercato azionario. In questo modo ci fu un nuovo rialzo del dollaro, innescato dalla notevole massa di moneta acquistata dalle autorità Usa, in coordinazione con le controparti giapponese e tedesca, nel maggio e nell'agosto 1995; e successivamente sospinto dall'ondata di acquisti da parte estera di buoni del governo Usa. Il tasso di scambio del dollaro sullo yen schizzò in alto del 50% nel breve periodo tra l'aprile del 1995 e la fine del 1996.
Con i tassi d'interesse in caduta libera e un dollaro così fortemente in ascesa, era più che scontato le azioni salissero alle stelle. Dopo essere saliti rispettivamente del 2 e dell'1,8% nel 1994, l'S&P 500 e il NYSE ebbero un rialzo del 17,6 e del 14,6 nel 1995, di gran lunga gli incrementi più alti dal 1989. Entrambi gli indici salirono di un ulteriore 23% durante il 1996, e a dicembre di quell'anno Greenspan era di nuovo lì a lanciare moniti contro «l'esuberanza irrazionale». Senza alcun ascolto da parte degli investitori. Nel 1997, l'S&P crebbe di un altro 30%, il NYSE del 27%. L'espansione della bolla finanziaria Usa cominciata nel 1995 fece velocemente sentire il suo effetto sulla crescita di tutta l'economia. L'incremento delle vendite di azioni, in special modo a società che finanziavano le proprie operazioni di riacquisto attraverso il debito, si andava significativamente ad aggiungere al potere d'acquisto delle famiglie. Allo stesso tempo, l'inflazione dei patrimoni finanziari conseguenti all'ascesa del valore dei capitali sembrò giustificare una storica depressione dei risparmi dei privati, insieme a un grosso incremento nel debito dei privati. A sua volta l'accelerazione dei consumi diede un ulteriore stimolo a quello che sembrava essere un boom che si espandeva sempre di più, mentre la crescita delle importazioni USA e il deficit della bilancia commerciale contribuì a far uscire l'economia mondiale dalla recessione tra il '90 e il '95. L'economia non industriale ne fu la principale beneficiaria in patria. Con un'accelerazione della crescita dei consumi, la richiesta in questi settori si espandeva di conseguenza. Dato che questa produzione era composta principalmente da beni non commerciabili, che non erano danneggiati dal flusso di importazioni deprezzate dal dollaro alto, essa poteva sfruttare liberamente le importazioni a basso costo. Gli investimenti nell'economia non industriale crebbero molto rapidamente e, come abbiamo visto, determinarono un vero e proprio balzo in avanti nella crescita della produttività. Tra il 1995 e il 1997, la redditività del settore dei servizi dopo un luogo periodo di ristagno (anche se mai vi era stata una vera e propria recessione) crebbe del 22%, portando l'indice di profitto in tutto il settore non finanziario dell'economia quasi al 19% del suo massimo dal 1965 7.
Sembrò che l'economia stesse finalmente operando a pieno regime.
La débacle del 1998
Nell'autunno del 1997, la crisi dell'Asia orientale aveva appena cominciato a svilupparsi, e l'economia Usa era all'apice della rinascita catalizzata dall'industria. Nel 1996 e 1997, la produzione industriale e le esportazioni continuarono a crescere rapidamente. Inoltre, i costi di produzione si andavano riducendo drasticamente, mentre in quegli stessi anni la crescita annuale della produttività del lavoro si assestava su una media del 3,2%, il rapporto produzione-capitale al 6%, e la compensazione nominale a un mero 2,2%. Nonostante ciò, nello stesso periodo di due anni, il tasso di cambio reale del dollaro crebbe del 20% e il suo valore rispetto allo yen del 50%, esercitando una notevole pressione al ribasso sui beni commerciabili. I prezzi dei prodotti industriali furono costretti a scendere a una media annua del 3,5% nel '96 e nel '97, con il risultato che la crescita dell'indice di profitto dell'industria — e quello di tutta l'economia privata — che era iniziata alla metà degli anni '80 ed aveva avuto un breve arresto soltanto nella recessione dei primi anni '90, finì per arrivare al capolinea nella seconda metà del 1997 8.
Colpiti dalla crisi asiatica, i produttori Usa dovettero affrontare non solo una competizione accresciuta da parte dei rivali giapponesi, tedeschi e anche degli altri paesi dell'Europa che si stavano avvantaggiando della caduta delle rispettive monete. Ma si trovarono a confrontarsi con il collasso del mercato delle esportazioni dell'Asia orientale fino ad allora dinamico e con il riversarsi su mercati interni Usa di prodotti asiatici, diventati estremamente convenienti per la svalutazione delle monete. La crescita delle esportazioni Usa, motore essenziale del boom, precipitò in termini reali dal 14% del 1997 al 2% del 1998, da una media annuale del 17, 4% nel terzo trimestre del 1997 a meno 0,5% nel secondo e terzo trimestre del 1998. Le importazioni reali degli Usa, nel frattempo, continuarono a espandersi al ritmo dell' 11,8% nel 1998, a fronte del 14,2% del 1997. Con i prezzi delle esportazioni e delle importazioni che precipitavano rispettivamente del 3,1 e del 5,9% nel 1998, il settore industriale Usa era pronto per una crisi: l'indice di profitto dell'industria delle compagnie principali scese di circa il 12%, rispetto al 1997 9.
A sua volta il calo degli utili delle società esercitò una pressione al ribasso sui mercati. I valori delle azioni delle compagnie più piccole rappresentate sul Russell 2000 erano quelli più vulnerabili, e scesero del 20% tra aprile e la prima settimana di agosto.
Da quel momento anche l'élite del S&P 500 cominciò a scendere, perdendo il 10% dal suo picco di metà luglio; e a causa dell'insolvenza russa, andò sotto di un altro 10%. Il ribasso dei mercati minacciava di mettere rapidamente la parola fine all'espansione Usa distruggendo la fiducia degli investitori e invertendo la tendenza della crescita dei consumi interni. Con il resto dell'economia mondiale in crisi, una recessione negli Usa avrebbe minacciato di far piombare tutto il mondo nella depressione.
III. La bolla dietro il boom
Verso la fine del settembre 1998 gli Usa si trovarono ad affrontare una grossa crisi. Il crollo russo innescò una fuga verso la sicurezza del mercato delle obbligazioni, che si manifestò con l'emergere di enormi differenziali tra i tassi d'interesse pagati sui buoni del tesoro statunitensi, relativamente stabili, e quelli pagati sulle meno sicure obbligazioni societarie, sul debito dei paesi in via di sviluppo, e persino sui titoli d'emissione di alcuni governi europei. Le azioni delle banche commerciali crollarono, per la paura di grosse perdite sui prestiti concessi ai paesi emergenti. Ma le perdite maggiori vennero sostenute dagli hedge funds e dalle gestioni patrimoniali delle banche commerciali e di investimento, conosciute tutte sotto il nome di Higly leveraged financial institutions [Hlfi: Alte istituzioni finanziarie di controllo dell'indebitamento (NdT)], che persero una quantità inaudita di dollari, dopo aver accumulato buone posizioni con strumenti d'indebitamento rischiosi, di qualità scadente ma ad alto rendimento, ricompensati da qualche posizione guadagnata nei titoli statali di nazioni sviluppate.
Il grosso cambiamento avvenne il 20 settembre, quando il gigantesco Long Term Capital Management [Ltcm: Fondo gestione dei capitali a lungo termine (NdT)] ammise di fronte al governo federale di trovarsi alle prese con un'insolvenza. Fu in questo momento critico che il governo intervenne. Mise insieme un consorzio di quattordici banche di Wall Street e di società di intermediazione per organizzare un'operazione di salvataggio della Ltcm da 3,6 miliardi di dollari. Greenspan la giustificò come un atto di mediazione non-bancaria sulla base del fatto che, se il governo non avesse agito, avrebbe messo a rischio tutto il sistema finanziario internazionale 10. La Federal Reserve realizzò, come è noto, tre successivi tagli dei tassi d'interesse, compresa una clamorosa riduzione promossa durante un intervallo fra le sue sedute formali. Se l'obiettivo immediato era neutralizzare il pericolo di blocco dei mercati finanziari, l'obiettivo più ampio sin dall'inizio era di rialzare il valore delle azioni, e sostenere quanto più a lungo possibile la corsa agli acquisti. Le riduzioni dei tassi di interesse operate dal governo segnarono un punto di svolta, non tanto perché la conseguente caduta del costo dei prestiti fu consistente, ma perché essa diede un forte segnale positivo agli investitori che volevano veder salire le azioni. Tutto ciò per stabilizzare tanto l'economia interna che quella internazionale, che stavano avviandosi verso una crisi. Ovviamente, Greenspan negò categoricamente che le riduzioni dei tassi d'interesse fossero mirate a influenzare i prezzi delle contrattazioni. Ma gli investitori sapevano bene che l'intervento di Greenspan in questa congiuntura non era la prima operazione di salvataggio di finanzieri e corporation. Nell'ottobre del 1987 il presidente della Fed era già intervenuto per bloccare il crack dei mercati azionari e, tra il 1990 e il 1992, aveva ridotto a zero gli interessi reali a breve termine, per salvare le banche che si avviavano al fallimento e le compagnie che si erano pesantemente indebitate in seguito alle crisi delle istituzioni finanziarie e creditizie, alle fusioni delle aziende insolventi e al crollo degli acquisti. E non bisogna dimenticare che il ministero del Tesoro Usa e la Federal Reserve si erano preoccupati di salvare le principali banche internazionali all'epoca della crisi latino-americana del 1982; erano accorsi in aiuto degli investitori americani che si erano trovati a subire enormi perdite in conseguenza del crack messicano del 1994-1995; e, ancora una volta, avevano aiutato le banche internazionali durante la crisi dell'Asia Orientale nel 1997-1998.
Gli investitori furono così confermati nella loro idea che Greenspan non avrebbe lasciato precipitare troppo in basso i prezzi delle azioni, tanto più perché si rendevano conto di quanto la crescita economica in corso dipendesse dal livello dei consumi e quindi da un mercato favorevole. In verità, probabilmente Greenspan non aveva avuto molta scelta. La fonte principale della crescita Usa, ossia la ripresa dei profitti industriali, si era incrinata sotto l'impatto del rialzo del dollaro e dell'incremento del surplus produttivo mondiale derivato dalla crisi dell'Asia Orientale. Tra il 1987 e il 1997 l'aumento delle esportazioni aveva contribuito per almeno un terzo alla crescita del Pil – che nel '98 e nel '99 era aumentato solo del 7%. Per evitare una depressione internazionale, la Fed stava in effetti promuovendo un nuovo modo per stimolare la domanda – la crescita del debito privato, sia delle aziende che dei consumatori – al posto del vecchio, di tipo keynesiano, basato sul deficit pubblico. La spinta americana ha funzionato in misura molto maggiore rispetto a quanto era accaduto alla metà degli anni '70 e all'inizio degli anni '80 per bloccare la recessione mondiale.
L'intervento decisivo della Fed sul mercato azionario e in quello del credito nell'autunno-inverno del 1998 non diede solo una battuta d'arresto allo spaventoso crollo del mercato dei titoli dell'estate precedente, ma permise a questo di balzare alle stelle, pur senza che si fosse registrato il minimo risultato favorevole nel livello dei profitti. Così, tra il '98 e il '99, l'indice della Borsa di New York crebbe, rispettivamente, del 20,5 e del 12,5%, anche se gli utili d'impresa al netto d'imposta (interessi esclusi) diminuirono del 3,9% e del 4,6%. Negli stessi due anni, l'Indice Standard & Poor's Corp 500 [S&P 500: Indice azionario di 500 società (NdT)] crebbe rispettivamente del 27 e del 19%, sebbene i guadagni delle aziende rappresentate in questo Indice fossero stati dello 0% nel '98 e del 17% nel '99. La Fed non si fece sfuggire l'occasione di rassicurare nuovamente i mercati del credito alla fine del 1999, apparentemente come reazione alla possibile débâcle determinata dal millennium bug. Immettendo nel sistema bancario una liquidità tale da ridurre improvvisamente il Federal Funds Rate dal 5,5 al 4% – il più grosso sbalzo del tasso in nove anni – preparò la strada per un'ultima convulsa ripresa dei mercati azionari durante i primi tre mesi del 2000. Verso il marzo 2000, l'Indice S&P 500 era salito del 20% oltre il livello raggiunto alla fine dell'ottobre 1999. Ora stava a 3,3 volte il livello raggiunto alla fine del 1994. L'Indice Nasdaq dominato dai titoli tecnologici e informatici era esploso in modo ancor più rilevante, da quota 2736 all'inizio di ottobre 1999 a quota 5000 nel marzo 2000.
Il riacquisto delle azioni
Se le condizioni necessarie per prolungare l'espansione della bolla furono alimentate dalla Fed, i prezzi delle azioni sono stati spinti verso l'alto in modo diretto e consapevole dalle varie società. È in seguito alle fusioni delle aziende indebitate e alla frenesia di acquisizioni degli anni '80 che le società avevano avviato la pratica di comprare le loro stesse azioni attraverso una crescente assunzione del debito. Il risultato interessante è stato che le società hanno realizzato la stragrande maggioranza dei loro riacquisti di azioni durante questa fase: non meno del 72,5% tra il 1983 e il 1990. Sebbene queste spese fossero abbastanza limitate in questo periodo, la liquidità delle imprese è riuscita a coprirne soltanto l'87,5%, lasciando il 12,5% al finanziamento tramite prestito. Il risultato è stato che il 100% degli acquisti di azioni in questi anni è stato finanziato attraverso ulteriori prestiti. Gli acquisti di azioni hanno assorbito il 50% dell'esposizione delle imprese e sono arrivate al 125% degli utili accantonati (profitti d'impresa al netto delle tasse meno i dividendi) e al 25% del cash flow delle società (somma degli utili accantonati e della svalutazione) 11.
Nel periodo dal 1991 al 1993, in seguito alle crisi di indebitamento delle società, le aziende cessarono quasi del tutto sia di riacquistare azioni sia di indebitarsi ulteriormente. Ma, all'inizio del '94, riprendendo dal punto dove avevano smesso durante il movimento di fusione e acquisizione delle società indebitate degli anni '80, continuarono a sprofondare sempre più nei debiti. In modo del tutto simile al periodo precedente, ma con una differenza: l'obiettivo non era più finanziare investimenti in nuove infrastrutture, che per la maggior parte continuavano a essere coperte senza fondi interni, ma piuttosto quello di riacquistare le proprie azioni. La ripresa del movimento di fusioni e acquisizioni, che si è accelerato negli ultimi anni, ha influito su alcune di queste operazioni. In qualche modo i tassi d'interesse reale più bassi, che hanno abbassato il costo del credito, e un sistema fiscale reso meno gravoso più sugli utili di capitale che sui dividendi – che ha permesso alle compagnie di annullare il pagamento degli interessi – hanno costituito ulteriori fattori significativi. Ma è chiaro che, nel corso degli anni '90, le riacquisizioni delle azioni che stavano risalendo vennero sostenute sempre più dalle richieste dei dirigenti esecutivi di vertice delle aziende, che investirono una parte crescente delle proprie retribuzioni in forma di stock option, spingendo al rialzo il valore delle azioni della propria società semplicemente per riempirsi le tasche. Perseguendo questo obiettivo, essi non hanno avuto nessuna esitazione ad alimentare il debito in modo crescente. Nel 1999, il rapporto debito-capitale netto dell'S&P 500 è balzato al 116%, rispetto all'84% della fine degli anni '80, quando la crisi d'indebitamento delle imprese aveva paralizzato sia le banche che le stesse società 12. Tra il 1994 al 1999, l'indebitamento delle imprese non finanziarie ammontava a 1,22 mila miliardi di dollari. Di tutta questa somma, le imprese hanno usato soltanto il 15,3% per coprire i propri investimenti, finanziando il resto di questi acquisti attraverso gli utili accantonati più la svalutazione, mentre ne hanno devoluto non meno del 57%, ossia 697,4 miliardi di dollari, per riacquisire azioni – una somma uguale a circa il 75% degli anticipi sulle entrate e al 18% del cash flow.
Bubblemania
Nei primi tre mesi del 2000, il valore delle azioni delle imprese, ossia la loro capitalizzazione sul mercato, è volato a 19,6 mila miliardi, a fronte dei 6,3 mila miliardi del 1994. L'assurdità di questa cifra e la sua rapida crescita sono abbastanza comprensibili. Il dato più determinante, naturalmente, era la mancanza di connessione tra l'aumento dei corsi azionari e la crescita della produzione – e in particolare della redditività – dell'economia sottostante. La capitalizzazione dei mercati (in quanto percentuale del Pil) ha impiegato solo cinque anni (tra il 1995 e l'inizio del 2000) per triplicare e passare dal 50% al 150% del Pil, sebbene nel frattempo i profitti al netto d'imposta delle imprese siano aumentati solo del 41,2%. Ci sono voluti, invece, ben tredici anni, dal 1982 al 1995, per raddoppiare tale capitalizzazione dal 25% al 50% del Pil, mentre gli utili delle imprese sono saliti nello stesso periodo del 160% 13. Ugualmente significativo è stato il divario, senza precedenti, tra le valutazioni delle compagnie sul mercato in termini di prezzi delle azioni e il valore del capitale finanziario e fisico che avevano a disposizione. Nei primi tre mesi del 2000, il rapporto tra il valore di mercato delle imprese non finanziarie degli Stati Uniti rispetto al loro attivo netto – conosciuto come `Quoziente di Tobin' – ha raggiunto quota 1,92, dallo 0,94 del 1994 e dall'1,14 del 1995, a fronte di una media dello 0,65 del ventesimo secolo. È stato quindi di circa il 50% più alto del rapporto registrato nei precedenti picchi durante il ventesimo secolo, che si verificarono, come prevedibile, nel 1929 (1,3) e nel 1969 (1,2), proprio alla conclusione dei boom finanziari di quei decenni.
Considerato che la valutazione delle loro azioni era decisamente più alta del costo dei mezzi di produzione e delle attività finanziarie in loro possesso, sembrava che fosse solo una questione di buonsenso da parte degli investitori acquistare nuovi impianti e attrezzature, piuttosto che azioni, al fine di mettere al sicuro gli incrementi di capitale conseguiti. Il fatto che sia più spesso accaduto il contrario mostra chiaramente che la bolla stava espandendosi 14. Alla fine, nel marzo 2000, il rapporto prezzo-rendita per le società rappresentate nell'Indice S&P 500 – il rapporto cioè tra quanto costa, in media, comprare un'azione rispetto ai rendimenti annui (gli utili) che le azioni realizzano – raggiunse quota 32. In considerazione di quanto si fosse allargato il divario tra l'ascesa dei prezzi delle azioni
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Lo scorso anno
“La borsa giapponese rappresenta il caso anomalo di una debolezza prolungata e apparentemente inguaribile. Tra le speranze di un risveglio che, quando arriverà, potrebbe essere dirompente, e le ripetute delusioni di una ripresa annunciata e finora mancata, le radici della debolezza vanno ricercate nelle caratteristiche della bolla speculativa che si sviluppò in Giappone nella seconda metà degli anni ’80, e nel modo in cui venne affrontata.
Tra il Gennaio 1984 ed il Dicembre 1989 l’indice Nikkei arrivò quasi a quadruplicarsi, da 10.000 a 38.957 punti, livello mai più raggiunto. Alla base del fenomeno, le eccellenti condizioni di salute dell’economia nipponica, ma anche una politica monetaria eccessivamente permissiva. Nel corso degli anni ’80, infatti, i tassi giapponesi vennero tenuti bassi non solo in funzione delle esigenze interne ma anche in risposta alle pressanti richieste internazionali, segnatamente degli Usa, preoccupati di ridurre il proprio deficit commerciale e di ridare fiato alla congiuntura. La liquidità immessa nel sistema generò la crescita abnorme dei prezzi delle azioni, degli immobili e della terra. Nel clima di generale ottimismo le famiglie e, soprattutto, le imprese si indebitarono pesantemente offrendo in garanzia un patrimonio valutato a prezzi gonfiati. Il processo si autoalimentava: la crescita dei prezzi accresceva la capacità di indebitamento; l’espansione dei finanziamenti drogava la domanda di azioni ed immobili. Le autorità monetarie, preoccupate degli eccessi speculativi, nell’89 avviarono una politica di rialzo dei tassi, che ebbe l’effetto immediato di invertire il trend al rialzo della borsa. I prezzi della terra e degli immobili, i cui mercati sono strutturalmente meno efficienti, continuarono però a salire. A questo punto, nonostante il calo delle borse, la Banca del Giappone continuò ad alzare il tasso di riferimento, portandolo dal minimo del 2.5% del 1989 fino al massimo del 6% nell’Agosto del 1990. La politica restrittiva venne mantenuta fino al luglio 1991, ed anche allora i tassi vennero ridotti in maniera molto graduale. Tale comportamento venne considerato ottimale dagli osservatori dell’epoca. L’economia sembrava ancora forte, l’inflazione era sotto controllo e la bolla speculativa stava rientrando. La Banca del Giappone godeva fama di un efficientismo leggendario.
* * *
Si stava però preparando il terreno ai problemi che ancora oggi attanagliano l’economia nipponica. Il crollo dei prezzi delle delle azioni e degli immobili, usati come garanzia per l’indebitamento del settore privato, accrebbero la rischiosità dei crediti concessi a piene mani dal settore bancario nel corso degli anni ’80. Le garanzie erano insufficienti, i debitori cominciavano a fallire, le banche restringevano il credito. Le famiglie, spaventate dai crolli dei valori azionari ed immobiliari, aumentavano i risparmi a scopo precauzionale riducendo i consumi e provocando la riduzione degli investimenti da parte delle aziende, le quali si ritrovavano con capacità produttive tarate sulle vecchie previsioni di crescita, quindi ormai eccessive. Nella fase di sgonfiamento della bolla speculativa la banca centrale era stata troppo restrittiva. Da quella crisi il Nikkei non si è finora ripreso, e vale oggi poco più di 1/3 rispetto al massimo di 12 anni fa.
I numerosi tentativi delle autorità economiche hanno provocato rush dell’indice anche consistenti, ma finora effimeri. I problemi sono i medesimi di 10 anni fa, incancreniti. Da più parti vengono richieste riforme strutturali, nel segno del vincente modello statunitense. Esse sono certamente necessarie, in particolare per quella parte dell’apparato produttivo orientato al mercato interno, non sottoposto alla concorrenza internazionale ed ancora ingessato in un sistema di sussidi e garanzie senza eguali tra le economie avanzate. Per l’avvio di un’azione realmente profonda, però, si dovrà probabilmente attendere il prossimo ciclo espansivo. Nell’attuale fase ci sono troppi rischi di deprimere ulteriormente il già basso livello di fiducia del Paese”.
Dopo la crisi del Far East (98)
“Tra gli economisti va per la meglio la tesi che Tokio sia alle prese con una sorta di trappola della liquidità di Keynesiana memoria. Un’ipotesi finora relegata nella teoria economica e che ora è scomodata perché consente un’uscita laterale alla crisi del paese, mediante la valvola della spesa pubblica.
In altre parole, Tokio ha reagito alla bolla speculativa all’inizio del decennio con una forte restrizione monetaria. Risultato, l’inflazione e i tassi d’interesse sono ai minimi storici. In queste condizioni - si sostiene - la reflazione dell’economia, aumentando la moneta a disposizione del sistema, non produce alcun effetto di propulsione dell’economia. Resta in una condizione di stallo sotto l’influsso della trappola della liquidità. Nello scenario in breve descritto, la teoria prevede che un aumento della spesa pubblica, produca una forte spinta sul sistema in panne. I tassi restano insensibili, e non pongono limiti al pieno impatto della domanda aggiuntiva proveniente dal settore pubblico. A questo punto, la domanda è: - il paese asiatico si trova nella condizione descritta? Può Tokio tornare ad essere la locomotiva della regione?
Non pochi sono i motivi di perplessità. Quando Keynes maturava la "General Theory", il mondo viveva all’epoca una fase di grave turbamento. La Belle époque si concludeva con la crisi del ‘29 e il decennio successivo vedeva l’implosione dell’economia mondiale e la corsa fatale verso la guerra mondiale. Inflazione e deflazione erano lo scenario in cui si svolgeva il dramma. Legare questo scenario al Giappone d’oggi è quanto mai arduo. La realtà del mondo attuale appare molto diversa. La stabilità, intesa come esclusione delle due malattie monetarie (l’inflazione e la deflazione), è il mito del secolo ventunesimo. La stabilità è un mito sconosciuto e in parte inesplorato dalla scienza economica. Tuttavia, è certo improprio ritenere che la stabilità dei tassi e dei prezzi possano configurare una sorta di trappola della liquidità. Che la mancanza d’inflazione attesa nel lungo periodo, possa essere un fattore di stallo per l’economia.
In realtà, in un modello di stabilità diffusa entrano in crisi i modelli teorici nati nel secolo che sta per concludersi, nei quali convivono inflazione e sviluppo. La promozione dello sviluppo con la manovra della domanda aggregata, la leva dei tassi e dei cambi a rischio di tensioni sui prezzi, fanno parte di un armamentario del passato. Il Giappone non si trova in una trappola della liquidità, a causa di tassi e inflazione prossimi allo zero. La causa sta nel cuore finanziario del sistema, nelle Banche sommerse da bad loans. Il Giappone odierno sembra avvicinarsi agli Stati Uniti alla metà degli anni ottanta. Per superare la grave crisi delle Saving & Loan fu costituito un organismo di salvataggio, che risultò provvidenziale per il mondo bancario Usa. Il progetto sul tavolo per il Giappone, è la costituzione di una Bridge bank, che svolga un ruolo ampio sia nell’accollo dei crediti inesigibili ed altre passività a carico delle banche sia nell’erogare nuove linee di credito alle imprese, specie di dimensioni modeste.
Il bilancio pubblico deve quindi svenarsi. Tuttavia, non per ridurre la tassazione, ma per sanare il sistema bancario, con l’accollo ai contribuenti della gran massa dei crediti inesigibili che gonfiano i bilanci delle banche. L’aumento della spesa pubblica non può avere velleità Keynesiane per il sostegno della congiuntura. Mira ad evitare il grave terremoto per il fallimento di banche principali. Messo ordine nella finanza, il Sol Levante potrà riprendere il cammino”.
Ancora, dalla rete (Brenner) – Paragone Usa-Japan alla fine del testo.
LA BOLLA E IL BOOM
Robert Brenner
”Due anni fa, nell'autunno 1998, l'economia internazionale sembrava in grande difficoltà. La crisi scoppiata nell'Asia orientale nell'estate del 1997 stava per travolgere il resto del mondo. Ovunque, eccetto che al centro dell'economia-mondo capitalistica, i valori azionari e monetari stavano crollando. La Russia aveva dichiarato bancarotta, il Brasile stava piombando nella depressione. La stessa economia giapponese stava nuovamente scivolando verso la recessione. L'economia americana non poteva rimanere immune da questo trend. Come risposta al crollo dei profitti nella prima metà del 1998, soprattutto nel settore industriale, che ancora aveva un ruolo centrale nell'economia, tra luglio e settembre i valori delle azioni crollarono drammaticamente. A ottobre, una pesante carenza di liquidità minacciava di trascinare l'economia statunitense — e quindi quella mondiale — in una zona a rischio. È a quel punto che è intervenuta la Federal Reserve. Ha organizzato il salvataggio del gigantesco Long Term Capital Management hedge fund (Ltcm: Fondo gestione dei capitali a lungo termine), asserendo che se lo avesse lasciato crollare l'intera economia internazionale avrebbe rischiato il collasso finanziario; e ha poi tagliato a tre riprese i tassi di interesse, non solo per neutralizzare la stretta creditizia, ma anche per far capire chiaro e tondo che voleva che i valori delle azioni salissero, in modo da sovvenzionare i consumi necessari a sostenere il riassestamento dell'economia internazionale.
L'esito di questa mossa è stato piuttosto contradditorio. La ciclica espansione americana che, fino al 1995, era stata assai meno marcata di quelle degli anni `70 e `80, ha improvvisamente acquisito forza. Da allora, e per i successivi cinque anni, si è registrata una rapida crescita del Pil, della produttività e anche dei salari reali, mentre la disoccupazione e l'inflazione diminuivano raggiungendo livelli appena inferiori a quelli della lunga espansione del dopoguerra. Gli investimenti sono aumentati in modo impressionante. I risultati dell'economia americana, sebbene pesantemente sovrastimati dalla stampa finanziaria, sono stati superiori nel decennio scorso a quelli raggiunti in qualsiasi periodo dei trenta anni precedenti. Ma, dall'altra parte, si è assistito alla formazione della più grande bolla finanziaria della storia americana. I valori delle azioni sono cresciuti a dismisura, senza alcun rapporto reale con i relativi trend industriali. Il debito pubblico, aziendale e finanziario, ha raggiunto, in riferimento al Pil, un livello record, rendendo possibile un'inedita esplosione dei consumi. La conseguente accelerazione delle importazioni ha portato il disavanzo della bilancia commericiale a livelli mai raggiunti prima. Il risultato è stata un'acquisizione massiccia e senza precedenti di beni americani da parte del resto del mondo, soprattutto di pacchetti azionari a breve termine; il che rendeva teoricamente l'economia americana vulnerabile a quelle stesse fughe di capitali, svalutazioni di beni e pressione verso il basso della valuta, che avevano travolto l'Asia orientale.
Se il boom ha spianato la strada alla bolla, la bolla ha accresciuto ulteriormente il boom. Il problema è quindi considerarli in maniera distinta l'una dall'altro. Solo determinando le forze che sovrintendono ai due fenomeni si può definire la traiettoria generale dell'economia americana, e farsi un'idea dei suoi sviluppi futuri. Le tensioni che hanno quasi provocato, appena due anni fa, il crollo dell'economia mondiale, sono forse state superate? L'attuale ciclo di crescita proseguirà e si rafforzerà? Dietro queste domande se ne nasconde un'altra più rilevante. L'economia americana sta forse uscendo finalmente dalla lunga congiuntura negativa cominciata intorno al 1973, ed è forse sulla soglia di un nuovo lungo ciclo di crescita, come negli anni `50 e `60? O, invece, dovrà affrontare quell'ampio movimento di correzione e reazione che ha già colpito la bolla giapponese degli anni '80, che, con il calo dei valori azionari gonfiati e della situazione contabile, si è trovata di fronte ad una profonda e vasta recessione?
I. L'aumento della redditività: 1985-1995
Le cause dell'aumento di produttività del settore industriale statunitense sono da ricercare nella recessione degli anni 1979-82, quando gli elevati tassi di interesse reali che hanno accompagnato la svolta monetaristica di Volcker hanno provocato un ampio processo di razionalizzazione industriale. In seguito a una serie di fallimenti come non si vedevano dalla `Grande depressione' degli anni `30, diversi mezzi di produzione e settori di manodopera vennero allora eliminati. La crisi del settore industriale venne inasprita dall'enorme aumento del valore del dollaro, seguito al notevole aumento dei tassi di interesse di quegli anni. Il primo risultato di questa politica fu un aumento della crescita produttiva dell'industria. Un altro, tuttavia, fu il livello record raggiunto dal disavanzo della bilancia commerciale: il dollaro galoppante riduceva sensibilmente la competitività statunitense. Tra il 1980 e il 1985, le importazioni industriali aumentarono di un terzo. Questa tendenza non poteva essere sostenuta e portò rapidamente a uno storico mutamento di politica.
L'accordo di Plaza
Il punto di svolta — un vero e proprio spartiacque per l'intera economia mondiale — fu l' `Accordo di Plaza' del settembre 1985, quando le potenze del G5 si accordarono per ridurre il tasso di cambio del dollaro, e salvare il settore industriale americano, che rischiava la decimazione. L' `Accordo di Plaza' ha portato a dieci anni di continue svalutazioni del dollaro rispetto allo yen e al marco tedesco, e a un decennale congelamento dei salari reali. Ha fatto quindi riacquisire competitività alle industrie statunitensi, provocando la crisi di quelle tedesche e giapponesi, e una esplosione senza precedenti di uno sviluppo industriale basato sulle esportazioni in tutta l'Asia orientale, le cui valute erano quasi tutte legate al dollaro declinante. Tra il 1985 e il 1995, il dollaro ha perso circa il 40% del suo valore rispetto al marco, e il 60% rispetto allo yen. Nello stesso periodo, i salari reali nel settore industriale statunitense sono aumentati a un tasso annuale medio dello 0,5%, a fronte del 3% della Germania e del 2,9% del Giappone. Nel frattempo, la recessione del 1990-91 aveva dato un'altra spinta all'eliminazione dal mercato dei mezzi di produzione ad alto costo e basso profitto nell'economia, provocando un ulteriore `aumento della disoccupazione'.
La combinazione di questi fattori — svalutazione del dollaro, blocco dei salari e razionalizzazione industriale, nonché, dopo il 1993, il conseguente aumento degli investimenti — innescò un cambiamento fondamentale nel modus operandi del settore industriale statunitense nei confronti dei mercati esteri. Dal 1985 al 1997 le esportazioni aumentarono a un tasso annuo del 9,3%, superiore del 40% rispetto a quello degli anni tra il 1950 e il 1970. A poco a poco, le esportazioni hanno spinto in avanti il settore industriale, e quindi l'intera economia. Questa rinnovata competitività internazionale ha reso possibile un notevole aumento lordo della redditività industriale. Nel 1986, nonostante il vigoroso aumento della produttività e la stagnazione dei salari reali, il tasso di profitto del settore industriale rimaneva ancora del 20% inferiore al suo livello del 1978, e del 50% a quello del 1965. Ma, a partire dal 1986, la redditività industriale aumentò rapidamente. La sua crescita venne interrotta dalla recessione del 1990-91 e dai suoi strascichi ma, dal 1995, la redditività lorda del settore industriale statunitense è aumentata del 65% rispetto al 1986, superando, per la prima volta nell'ultimo quarto di secolo, il livello del 1973 (ma rimanendo però per un buon terzo al di sotto del picco raggiunto nel 1965).
È ormai diventato consueto sottostimare l'importanza del settore industriale, mettendo in evidenza il suo ruolo sempre più limitato nella percentuale di occupazione e di Pil. Ma, negli anni `90, il 46% dei profitti derivanti dalle aziende non finanziarie proveniva dal settore industriale; nel 1998 (ultimo anno per cui disponiamo di dati statistici), tale cifra si assestava sul 42,5% del totale. Era stata proprio la caduta della redditività nel settore industriale internazionale, cominciata tra il 1965 e il 1973, non solo negli Stati Uniti ma in tutta l'economia-mondo, che aveva provocato il lungo ciclo di recessione — l'esteso periodo dall'inizio degli anni `70 fino all'inizio degli anni `90 contrassegnato da una lenta crescita della produzione, degli investimenti e della produttività, da un alto tasso di disoccupazione e da profondi e lunghi cicli di recessione 1. Segno dello stesso trend, la ripresa della redditività lorda del settore industriale statunitense ha prodotto la crescita della redditività lorda dell'economia privata non finanziaria, che è salita del 15,6% tra il 1986 e il 1995, avvicinandosi ai livelli della fine degli anni `60. Questo è ulteriormente confermato dal fatto che il tasso di profitto lordo dell'economia non finanziaria al di fuori del settore industriale è rimasto stabile per tutto il decennio - ed è anzi leggermente diminuito.
La ripresa della redditività veniva ulteriormente amplificata dai tagli alle imposte dell'inizio degli anni `80, quando Repubblicani e Democratici facevano a gara per offrire sovvenzioni alle imprese. Dal 1995, i tassi di profitto netti dell'economia aziendale non finanziaria e del settore industriale sono cresciuti, rispettivamente, del 23% e del 24%, sebbene i tassi lordi rimanevano del 34% e del 35% al di sotto dei livelli massimi raggiunti nel 1965. Le aziende si sono ulteriormente rafforzate, nella prima metà degli anni `90, riducendo in maniera significativa la loro dipendenza dal debito — e quindi la percentuale dei loro profitti in mano ai creditori. Tra il 1979 e il 1991 i pagamenti degli interessi netti in proporzione al surplus totale (profitti più interessi netti) delle aziende non finanziarie si sono assestati su una media del 31,8%, raggiungendo quota 37% nel 1991. A partire dal 1995, questa cifra è scesa al 20%, raggiungendo poi una media del 18% negli ultimi cinque anni del secolo.
Mentre l'economia statunitense stava lentamente uscendo dalla recessione del 1990-91, la ripresa della redditività cominciò infine a scuotere l'economia reale. Per diverso tempo, gli investimenti nel settore industriale erano rimasti stagnanti. Ma, tra il 1993 e il 1998 hanno fatto un balzo in avanti ad un tasso annuo medio del 9,4%, a fronte del 2,6% degli anni compresi tra il 1982 e il 1990. In questo stesso periodo i valori di capitali netti nel settore industriale sono aumentati ad un tasso annuo del 2,7%, a fronte dell'appena 1,3% registrato tra il 1982 e il 1990. La ripresa degli investimenti nell'economia privata nel settore non industriale cominciò più o meno nello stesso periodo, e si rivelò alla fine più consistente di quella del settore industriale. A sua volta, l'accelerazione degli investimenti fece quasi certamente aumentare la velocità della crescita produttiva, già largamente facilitata dalla definitiva eliminazione dal mercato di mezzi di produzione obsoleti. L'introduzione della `produzione a basso costo' di stampo giapponese ha fatto aumentare i posti di lavoro non qualificati, mentre diversi processi sono stati delocalizzati verso settori non sindacalizzati, in cui i lavoratori non disponevano della minima protezione sociale. In questi anni le aziende stavano anche cominciando ad applicare le tecnologie informatiche alla produzione industriale in modo consistente (anche se il loro impatto rimaneva limitato dal basso livello degli investimenti). Tra il 1982 e il 1990, nonostante il rallentamento della crescita degli investimenti, la produttività della manodopera industriale aumentò quindi ad un tasso annuo di circa il 3,3%, più o meno allo stesso ritmo del lungo boom del dopoguerra. Ma sulla spinta dell'aumento delle infrastrutture promosso dall'inizio degli anni `90, tale produttività è poi cresciuta a un tasso annuo medio del 4,74% dal 1993 al 1999. Questo ritmo accelerato non era la semplice espressione del più elevato rapporto capitale/manodopera. In effetti, tra il 1993 e il 1998, la stessa produttività del capitale ha continuato ad aumentare a quel ritmo del 2,6% che già aveva durante l'espansione degli anni `80, rendendo evidente che la produttività complessiva, considerata come capitale e forza lavoro, stava crescendo in maniera significativa.
Servizi e finanza
Il quadro era piuttosto diverso nel settore non industriale — servizi, edilizia, trasporti, servizi pubblici e miniere. La crescita in questo settore fu infatti discontinua e non esplose fino al 1996. A differenza di quanto era avvenuto nel settore industriale, in cui si era registrato un solido aumento della produttività molto prima del balzo in avanti degli anni `90, la produttività del settore non industriale aveva avuto risultati piuttosto miseri per circa vent'anni, con una crescita media annua dello 0,6% tra il 1977 e il 1995. Ma dal 1995 al 1999 è invece cresciuta, sulla scia dell'aumento degli investimenti non industriali, e in concomitanza con il balzo in avanti della redditività non industriale, a un ritmo annuo medio di circa il 2,4%, a fronte del circa 2,7% registrato tra il 1950 e il 1973 durante il boom del dopoguerra.
In che situazione versavano intanto le istituzioni finanziarie? Il problema di cercare di trarre profitto dal credito in un'epoca di sovra-produzione industriale a livello internazionale si è mostrato in tutta la sua gravità con l'esplosione del debito dei paesi produttori del Terzo mondo negli anni `70, e con le conseguenti crisi del debito dei paesi in via di sviluppo dei primi anni `80, che hanno minato il sistema alle fondamenta. I principali Stati capitalistici sono naturalmente intervenuti per salvare le grandi banche internazionali, usando il Fmi per mettere al sicuro i propri fondi (nei limiti del possibile) e imponendo ai paesi in via di sviluppo che volevano ottenere prestiti misure di ristrutturazione draconiane. Negli anni `80, il tentativo delle istituzioni di credito e delle banche commerciali di investire in beni immobili ha seguìto uno sviluppo simile, e ha portato al crollo della bolla immobiliare e al collasso di diverse banche verso la fine del decennio. La conseguente operazione di salvataggio degli istituti di credito è costata ai contribuenti americani l'equivalente di tre anni di investimenti privati. La moltiplicazione di fusioni e acquisizioni si è spinta tanto in avanti che quello che veniva considerato l'elemento caratterizzante della congiuntura finanziaria dell'epoca ha avuto la stessa misera fine. Se nella prima metà degli anni `80 — nel momento in cui la redditività del settore industriale ha raggiunto il suo livello minimo — queste fusioni hanno effettivamente portato a un aumento dei profitti, il potenziale di introiti del settore si è trovato rapidamente ristretto dalle entrate in eccesso, provocando, col passare degli anni, una sensibile diminuzione dei profitti, perché gli investitori si trovarono costretti a pagare prezzi sempre più alti per le loro fusioni. Il naufragio del movimento di fusione e acquisizione ha ampiamente contribuito al declino delle banche commerciali, che già avevano subìto una riduzione di introiti in seguito all'antagonismo crescente di varie istituzioni di credito non bancarie, come compagnie assicuratrici e finanziarie, oltre che per la diffusione dei titoli di Stato.
La situazione del settore finanziario venne ulteriormente peggiorata dall'inizio della recessione del 1990-91. Solo un'ulteriore operazione di salvataggio da parte del governo ha evitato una crisi di grande portata. Questa volta, la Federal Reserve ha portato i tassi di interesse reali a breve termine a quota zero, per permettere alle banche di rimettere in pari i propri bilanci e riprendere in modo redditizio la loro attività creditizia. Come si è visto in seguito, i problemi finanziari si sarebbero dissolti con sorprendente rapidità all'inizio degli anni `90. È stato durante l'epoca di Clinton, Ruban e Greenspan, più che durante quella di Reagan e Volcker, che si è assistito alla vera ascesa della finanza nell'economia americana. Nel momento in cui, all'inizio del decennio, la Fed ha ridotto in maniera così consistente i tassi di interesse a breve termine, alle banche è stato permesso sia di avere profitti insperati sulle obbligazioni in loro possesso sia di portare avanti i loro affari correnti — contrarre prestiti a breve termine a basso costo e prestare a costi elevati a lungo termine — con un successo ineguagliabile. Quando Clinton ha giurato che non avrebbe fatto tagli alle spese per far quadrare il bilancio, ha dato le necessarie garanzie ai creditori che i loro profitti non sarebbero stati divorati dall'inflazione. Per fugare ogni dubbio, nel 1994 Greenspan ha aumentato sensibilmente i tassi di interesse, di due punti percentuali e mezzo, in modo da frenare l'espansione.
Decollo finanziario
La prova definitiva della ripresa economia dei creditori e degli speculatori è stato il risanamento dell'economia non finanziaria avvenuto durante l'espansione degli anni `90. Le banche in particolare registrarono un'incredibile congiuntura positiva. La domanda di prestiti crebbe rapidamente, e le perdite legate al credito diminuirono sensibilmente. Mentre nel 1990 solo il 30% dei beni bancari era ufficialmente definito “ben capitalizzato”, il dato raggiunse quota 97% nel 1996. Nel momento in cui l'economia cominciava a prosperare, le banche potevano finalmente trarre il massimo vantaggio dal processo di deregulation che aveva cominciato a delinearsi alla fine degli anni `70, aumentando gli introiti di attività fuori bilancio, come le commissioni sulla vendita di fondi comuni di investimento. Nel frattempo, la tendenza verso la concentrazione bancaria cominciò ad aumentare negli anni `80: la percentuale di beni bancari posseduti dalle maggiori holding finanziarie del paese raggiunse il 64% nel 1996 — a fronte del 57% del 1986 — mentre il numero di compagnie commerciali diminuiva nello stesso periodo da 11.000 a 7500. Cosa forse ancora più importante, la Fed si assicurò che lo scarto tra quanto le banche pagavano per i loro debiti a breve termine e quanto ricevevano per i loro crediti a lungo termine rimanesse `insolitamente alto' 2. Il risultato fu di portata storica. Durante gli anni `90, le istituzioni finanziarie statunitensi in generale, e le banche commerciali in particolare, raggiunsero il più alto tasso di profitto sui propri valori di tutto il dopoguerra, con un margine piuttosto alto. A conferma della nuova congiuntura positiva, i profitti del settore finanziario furono sensibilmente più alti — come percentuale dei profitti totali aziendali — di qualsiasi altro periodo del dopoguerra. Come ciliegina sulla torta, i valori azionari schizzarono alle stelle.
Dalla metà degli anni `90 l'intero settore aziendale americano ha migliorato sensibilmente le proprie prestazioni rispetto al decennio precedente, soprattutto grazie all'ampio e brutale processo di razionalizzazione e ridistribuzione. La razionalizzazione industriale era consistita in una massiccia rimozione di macchinari e infrastrutture obsoleti e inutili e nel `ridimensionamento' di decine di migliaia di lavoratori, in modo da registrare miglioramenti nella produttività. Le aziende hanno quindi enormemente aumentato i propri profitti a scapito dei lavoratori, mediante un congelamento decennale dei salari reali, e una altrettanto decennale svalutazione del dollaro, a tutto scapito dei rivali commerciali esteri. Solo verso la fine di questo processo di ripresa hanno cominciato a intensificare gli investimenti stimolando quindi la crescita produttiva. Come abbiamo già visto, la ripresa della redditività nel settore industriale, amplificata da una decisiva riduzione delle imposte pagate dalle aziende, può effettivamente spiegare la completa ripresa del tasso di profitto del settore non finanziario nel 1995. Dopo il 1995, si è registrato un aumento sostanziale nel settore non industriale, soprattutto nei servizi, che ha portato la redditività dell'economia aziendale vicino ai picchi raggiunti nel lungo boom del dopoguerra. Consolidate le basi dell'economia reale, il settore finanziario ha potuto sfruttare la deregulation, oltre ai generosi sussidi e al saldo supporto del governo, per portare a termine una svolta inattesa. Se questa simbiosi tra il settore industriale, finanziario e dei servizi poteva essere mantenuta, l'economia statunitense si sarebbe forse potuta lasciare alle spalle la lunga epoca di recessione.
II. Spartiacque: 1995-1998
A livello di economia mondiale, tuttavia, la ripresa del settore industriale americano tra il 1985 e il 1995 ha esercitato un'enorme pressione sulle economie giapponese e tedesca, basate sulle esportazioni, per non parlare di tutta l'Europa occidentale. La profonda recessione e la ristrutturazione industriale su vasta scala avvenute in Giappone e in Europa occidentale nella prima metà degli anni `90, a causa delle valute forti, possono essere considerate l'equivalente della crisi del settore industriale americano nella prima metà degli anni `80, in seguito alla stretta monetaria di Volcker, all'impennata del valore del dollaro, e alla sbandata di Reagan-Regan per la finanza. Ma le difficoltà del Giappone e della Germania sono state probabilmente aggravate dal vantaggio degli Stati Uniti che, in simili circostanze, avevano già eliminato le imprese ad alto costo e a basso profitto. La ripresa statunitense avvenne a tutto scapito dei suoi principali rivali. Ma c'era comunque un prezzo da pagare per tutto ciò. Nella prima metà degli anni `90, la stagnazione complessiva dell'economia mondiale, aggravata dalla sovracapacità industriale e leggermente rallentata dalla pressione sui salari e dalla stretta creditizia, non era stata sormontata. La stessa ripresa statunitense era limitata dalla sempre più lenta crescita della domanda mondiale, e dalla conseguente intensificazione della competizione internazionale nel settore industriale. Non sottolineeremo mai abbastanza che, anche alla metà degli anni `90, l'economia mondiale mostrava ben pochi segni di essere uscita dalla lunga fase di stagnazione. In effetti, la crescita in questi cinque anni fu, nelle avanzate economie capitalistiche, sensibilmente più lenta che in ogni altro periodo degli ultimi trent'anni. Una tale constatazione non è valida solo per l'economia tedesca e quella giapponese, piombate in una profonda recessione, ma anche per la stessa economia statunitense, che crebbe più lentamente tra il 1990 e il 1995 di quanto avesse fatto negli anni `70 e `80.
Bisogna dire che questa lenta crescita non ha dato particolari pene all'amministrazione Clinton, che di fatto ha potuto portare avanti una politica monetaria avventuristica e una riduzione delle imposte come non si vedevano dall'epoca di Eisenhower — in attesa di una completa ripresa della redditività delle aziende. Non solo Clinton ha rifiutato la strategia di spesa del deficit usata dall'economia americana e internazionale per uscire dalle crisi dall'inizio degli anni `70, ma ha portato avanti una crociata per far quadrare il bilancio, che ha ridotto il disavanzo federale come percentuale del Pil dal 4,7% del 1992 a quota zero nel 1997. Inoltre, non appena l'economia ha cominciato a dare segni di ripresa, la Federal Reserve, come abbiamo già visto, ha aumentato i tassi di interesse di tre punti percentuali tra il febbraio 1994 e il febbraio 1995. In realtà, secondo i sondaggi di opinione, «molta gente pensava che il paese fosse ancora in una fase di recessione per tutto il 1995» 3. Non è certo sorprendente che, tra il 1990 e il 1995, il Pil statunitense, la produttività della manodopera e i salari reali sono cresciuti più lentamente di quanto fosse avvenuto negli anni `70 e `80.
Nel 1996 questa congiuntura cambiò. In quell'anno, e nell'anno seguente, la crescita di tutte le più importanti variabili economiche subì una considerevole accelerazione, includendo (con uno sfasamento) anche i salari reali. È chiaro che il recupero della redditività nel settore industriale, basato in gran parte sulla svalutazione del dollaro, la restrizione dei salari e la riduzione delle tasse sulle imprese – e solo in tempi molto recenti amplificata dal boom degli investimenti – stava cominciando a fruttare. Nel 1997, mentre le esportazioni reali salivano del 14%, l'economia prosperava come non aveva fatto per decenni, e cominciò a prospettarsi uno scenario dove gli Stati Uniti potevano finalmente condurre l'economia mondiale fuori dalla stagnazione. L'espansione del mercato interno statunitense, che stava rendendo possibile una crescita a livello internazionale sotto la spinta delle esportazioni, non poteva più essere sostenuta, come era stato per decenni, in prima istanza dal deficit del governo USA, ma, in modo sostanziale, dalla crescita delle esportazioni e dall'investimento di capitale, fondato su una competitività crescente e su un incremento degli indici di profitto. Proprio al momento in cui una crescita più rapida cominciava a diffondersi in tutta l'economia Usa, dalla fine del 1995, le sue stesse fondamenta cominciarono a essere trasformate da due linee di sviluppo strettamente legate fra loro. Da una parte, una rapida crescita del dollaro cominciò a minare alla base le esportazioni dell'industria, innalzando i relativi costi dei beni americani e accelerando indirettamente la fine del boom dell'Asia orientale. D'altro lato, la bolla del mercato che stava esplodendo, finanziando una febbrile corsa all'indebitamento, cominciò a spostare la forza trainante dell'espansione verso i consumi interni, e di conseguenza a far decollare la crescita dell'economia Usa.
Il Plaza ribaltato
Il punto di svolta nella fase iniziale di entrambe queste linee di sviluppo, e a conti fatti dell'evoluzione dell'economia mondiale nella seconda parte degli anni `90, è stato l'accordo siglato dagli Usa, dal Giappone e dagli altri paesi del G7 che sarà poi chiamato `Accordo del Plaza ribaltato'. Nella prima parte del 1995, in seguito al crollo del peso e alla conseguente operazione di salvataggio dell'economia messicana, si verificò una nuova corsa al dollaro, che venne ad accentuare fortemente la lunghissima fase di flessione del precedente decennio. Una moneta a buon mercato era stata, ovviamente, un prerequisito indispensabile per la ripresa della redditività dell'industria Usa e di tutta l'economia non-finanziaria, e Washington l'aveva accolta con notevole entusiasmo, tornando tra il 1985 e il 1995 alla politica di benign neglect nei confronti del dollaro, la stessa che aveva prevalso per la maggior parte degli anni '70. Così quando il dollaro precipitò nei primi mesi del 1995, l'amministrazione Clinton non soltanto non fece nulla per frenare la caduta, ma aumentò anche la pressione sul Giappone, minacciando di escluderlo dal mercato automobilistico statunitense se non avesse acconsentito ad aprire agli Usa il suo mercato di componenti per auto.
Nell'aprile del 1995, comunque, lo stesso dollaro basso che aveva contribuito a guidare l'economia industriale degli Usa per un decennio aveva portato il Giappone sull'orlo del collasso. Lo yen era salito di oltre il 60% rispetto al suo livello dell'inizio del 1991 e di circa il 30% rispetto all'inizio del 1994, arrivando al tasso record di 79 nel cambio col dollaro. A quest'altezza astronomica, i produttori giapponesi non potevano neanche coprire i loro costi variabili, e la crescita della macchina giapponese sembrava essersi inceppata. Nonostante quella che era stata, proprio in questa congiuntura, la loro preoccupazione quasi ossessiva per la competitività dell'industria, le autorità Usa non erano in grado di considerare questo sviluppo con serenità. Erano infatti state appena scioccate dalla crisi messicana, che, venuta fuori `dal nulla', aveva fatto tremare il sistema finanziario internazionale. E una versione giapponese sarebbe stata ovviamente molto più pericolosa. Così anche se una crisi giapponese poteva essere contenuta, poteva invece facilmente verificarsi una liquidazione su larga scala dell'immenso patrimonio azionario Usa in mano ai giapponesi, soprattutto di buoni del Tesoro. Uno sviluppo del genere avrebbe spinto al rialzo i tassi d'interesse, spaventato i mercati monetari, e forse avrebbe portato verso una recessione nello stesso istante in cui l'economia Usa sembrava finalmente pronta a raddrizzarsi. Oltretutto cominciavano a essere incombenti le nuove elezioni presidenziali. Gli Stati Uniti, sotto la guida del Segretario al Tesoro, Robert Rubin, non soltanto rinunciarono a forzare l'apertura del mercato giapponese di componenti per auto, ma intrapresero un progetto con giapponesi e tedeschi per un'azione comune tesa a ribassare lo yen (e il marco) e rialzare il dollaro. Questo fu in parte ottenuto abbassando i tassi d'interesse giapponesi rispetto a quelli americani, ma anche aumentando l'acquisto di dollari da parte di giapponesi e tedeschi, oltre che con l'intervento del Tesoro stesso per sostenere la moneta americana 4.
Questo fu un accordo provvisorio, che rappresentò un dietrofront nella politica sia degli Usa sia dei suoi principali alleati e rivali, in modo molto simile a quanto era accaduto per l'originario accordo del Plaza del 1985. Gli Stati Uniti rinunciarono ai vantaggi che una moneta debole aveva portato al settore industriale per quasi un decennio. Ma si assicurarono in cambio sia la prospettiva di un enorme afflusso di capitali che si immaginava potesse servire a coprire il crescente deficit della bilancia commerciale e rialzare il valore delle azioni, sia un'inondazione di importazioni a basso prezzo su cui poter contare per esercitare una forte pressione al ribasso sui prezzi, sollevando la Fed da gran parte del lavoro di contenimento dell'inflazione. In un certo senso, l'amministrazione Clinton stava favorendo i creditori e gli speculatori dei mercati a scapito degli industriali, più o meno allo stesso modo in cui l'amministrazione Reagan aveva fatto nella prima metà degli anni '80. Si potrebbe credere che un settore industriale Usa ridimensionato poteva ora resistere con successo a una crescita del dollaro. Forse si è anche pensato che l'aumento della redditività nei servizi e la crescita dei consumi interni avrebbero potuto compensare un declino dei profitti nell'industria. In ogni caso, le conseguenze sensibili di questo accordo si sentirono immediatamente in tutto il sistema mondiale, esattamente nel modo opposto in cui si erano registrati i drammatici effetti dell'originario accordo del Plaza nel 1985. La crescita della moneta cominciò allora a comprimere l'industria americana (piuttosto che quella giapponese e quella tedesca); le società giapponesi e tedesche (piuttosto che quelle Usa) iniziarono delle riprese (di breve durata); e l'Asia orientale passò dal boom record successivo all'accordo del Plaza a una crisi regionale successiva al `Plaza ribaltato'. Allo stesso tempo, esplodeva negli Usa un'immensa bolla finanziaria, consentendo all'espansione economica americana di accelerare sulla base della crescita dei mercati, del debito e dei consumi – proprio come aveva fatto la bolla in Giappone, dopo il 1985.
L'impennata delle azioni
Dal tempo della recessione della Volcker all'inizio degli anni '80, il mercato azionario Usa conobbe una storica ascesa. Questa fu interrotta dal crack dei mercati del 1987; ma quando non soltanto la Fed ma anche le autorità finanziarie degli Stati Uniti presero la decisione di fermare il crollo del prezzo delle azioni, molti investitori cominciarono a credere che non si sarebbe mai permesso al mercato dei titoli di precipitare troppo duramente, e la tendenza al rialzo continuò. Tra il 1990 e il 1993, la crescita dei mercati ebbe un ulteriore incremento quando Greenspan ridusse a zero i tassi di interesse reali a breve termine, per salvare le società sommerse dai debiti e le banche sull'orlo del fallimento – aprendo la strada a una massiccia espansione della liquidità. Poiché le opportunità di realizzare profitti erano ancora relativamente limitate in un'economia reale Usa che solo adesso stava lentamente riprendendosi dalla recessione, l'afflusso di moneta a buon mercato che ne seguì si riversò sui titoli, catalizzando un ulteriore notevole rialzo dei mercati. Tuttavia, alla fine del 1995 i corsi azionari, anche dopo un rapido incremento oltre i risultati migliori di una dozzina d'anni, non erano riusciti a staccare la crescita degli utili industriali. Si poteva affermare infatti senza troppa esagerazione che il significativo rialzo del valore delle azioni fino a quel punto non faceva altro che rispecchiare il recupero della redditività nell'economia Usa dopo lo stato di stagnazione della recessione dei primi anni '80. Tra il 1980 e il 1995 l'indice del valore delle azioni al NYSE (New York Stock Exchange) è aumentato di un coefficiente del 4,28, mentre i profitti al netto d'imposta sono aumentati del 4,68. Ma da questo momento in poi, il valore delle azioni perse rapidamente contatto con quello degli utili industriali che li sostenevano, e la bolla del mercato azionario cominciò a gonfiarsi.
È chiaro che la ripresa della redditività iniziata dieci anni prima, e la grande fiducia che aveva creato negli investitori, erano le condizioni necessarie per l'impennata dei corsi azionari che ebbe inizio dal 1995-96. Le forze che in realtà permisero quest'impennata non sono così facili da delineare. Tuttavia non si può non arrivare alla conclusione che una grande responsabilità va attribuita alle drammatiche trasformazioni nelle condizioni della finanza internazionale e ai flussi di capitale che entrarono in gioco nel corso del 1995. Nel marzo '95, a seguito dell'operazione di salvataggio del Messico, la Fed fermò la campagna di restringimento del credito iniziata circa un anno prima e, a partire dal luglio 1995, abbassò i tassi di circa tre quarti di punto durante i successivi sei mesi. Un dato forse ancora più notevole è che le misure prese per mettere in atto l'accordo del Plaza ribaltato non solo cominciarono a far salire il dollaro, amplificando in tal modo gli incrementi nel valore dei patrimoni Usa (compresi i titoli) per gli investitori orientati a livello internazionale, ma diedero anche spazio libero al fiume di denaro che veniva dal Giappone, dall'Asia orientale e da tutto il mondo, per potersi riversare nei mercati finanziari americani, facendo così scendere drasticamente il costo dei prestiti per investimenti.
Nell'aprile 1995, la Banca del Giappone tagliò il tasso ufficiale di sconto, già molto basso all'1,75%, fino all'1%, e il settembre successivo lo riabbassò ancora fino allo 0,5%. Questo contribuì a determinare l'effetto desiderato di ridurre il valore dello yen. Ma piuttosto che stimolare l'economia interna nella quale i tassi di profitto erano ancora troppo bassi per giustificare molti investimenti a lungo termine per le infrastrutture, i bassissimi tassi d'interesse del Giappone ebbero l'effetto di gonfiare la globale offerta di credito, considerato che una grande porzione dell'accresciuta liquidità giapponese si riversava fuori dai confini. Gli investitori Usa, in particolare, diedero vita a un `commercio di riporti' — assai redditizio, comprando yen in Giappone a un basso tasso d'interesse, convertendoli in dollari, e usando questi ultimi per investire in tutto il mondo. Buona parte dei profitti ritrovavano la loro strada proprio nel mercato azionario Usa 5.
Nel frattempo, le autorità giapponesi stavano riversando capitali sui titoli e sulla moneta Usa, e incoraggiavano le compagnie d'assicurazione giapponesi a comportarsi allo stesso modo, ammorbidendo la regolamentazione sugli investimenti all'estero. I governi dell'Asia orientale, decisi a tenere basso il valore delle monete locali e a sostenere la crescita delle esportazioni, si allinearono, e furono seguiti a ruota dagli investitori privati in tutto il mondo, specialmente dagli hedge funds. In questo modo nel 1995 gli acquirenti esteri compravano titoli del governo Usa per un valore di 197 miliardi di dollari, due volte e mezzo la media degli anni precedenti, continuando con acquisti per 312 miliardi di dollari nel 1996 e di 189,6 miliardi di dollari nel 1997. Di questa spesa, la parte più grossa riguardava titoli del Tesoro — 168,5 miliardi di dollari nel 1995, 270 nel 1996, 139,7 nel 197. La somma totale di più di 500 miliardi dollari in titoli del Tesoro Usa comprati da acquirenti stranieri in questi tre anni coprì non solo tutto il nuovo debito emesso dal Tesoro Usa in questo periodo, ma anche altri 266,2 miliardi di dollari di debito statale, prima in mano a, e ora comprato da, cittadini americani 6.
Quest'enorme massa di acquisti non poteva che facilitare le condizioni dei mercati monetari Usa, abbassando i tassi d'interesse e liberando un flusso di liquidità per comprare azioni Usa. Tra il gennaio 1995, quando queste raggiunsero il loro massimo in seguito alla stretta economica del 1994, e il gennaio 1996, i tassi d'interesse sui buoni trentennali del Tesoro precipitarono dal 7,85% al 6,05%. Questa riduzione vicina al 25% nel costo dei prestiti a lungo termine nel corso del 1995 ha costituito il principale fattore nel creare la bolla del mercato azionario. In questo modo ci fu un nuovo rialzo del dollaro, innescato dalla notevole massa di moneta acquistata dalle autorità Usa, in coordinazione con le controparti giapponese e tedesca, nel maggio e nell'agosto 1995; e successivamente sospinto dall'ondata di acquisti da parte estera di buoni del governo Usa. Il tasso di scambio del dollaro sullo yen schizzò in alto del 50% nel breve periodo tra l'aprile del 1995 e la fine del 1996.
Con i tassi d'interesse in caduta libera e un dollaro così fortemente in ascesa, era più che scontato le azioni salissero alle stelle. Dopo essere saliti rispettivamente del 2 e dell'1,8% nel 1994, l'S&P 500 e il NYSE ebbero un rialzo del 17,6 e del 14,6 nel 1995, di gran lunga gli incrementi più alti dal 1989. Entrambi gli indici salirono di un ulteriore 23% durante il 1996, e a dicembre di quell'anno Greenspan era di nuovo lì a lanciare moniti contro «l'esuberanza irrazionale». Senza alcun ascolto da parte degli investitori. Nel 1997, l'S&P crebbe di un altro 30%, il NYSE del 27%. L'espansione della bolla finanziaria Usa cominciata nel 1995 fece velocemente sentire il suo effetto sulla crescita di tutta l'economia. L'incremento delle vendite di azioni, in special modo a società che finanziavano le proprie operazioni di riacquisto attraverso il debito, si andava significativamente ad aggiungere al potere d'acquisto delle famiglie. Allo stesso tempo, l'inflazione dei patrimoni finanziari conseguenti all'ascesa del valore dei capitali sembrò giustificare una storica depressione dei risparmi dei privati, insieme a un grosso incremento nel debito dei privati. A sua volta l'accelerazione dei consumi diede un ulteriore stimolo a quello che sembrava essere un boom che si espandeva sempre di più, mentre la crescita delle importazioni USA e il deficit della bilancia commerciale contribuì a far uscire l'economia mondiale dalla recessione tra il '90 e il '95. L'economia non industriale ne fu la principale beneficiaria in patria. Con un'accelerazione della crescita dei consumi, la richiesta in questi settori si espandeva di conseguenza. Dato che questa produzione era composta principalmente da beni non commerciabili, che non erano danneggiati dal flusso di importazioni deprezzate dal dollaro alto, essa poteva sfruttare liberamente le importazioni a basso costo. Gli investimenti nell'economia non industriale crebbero molto rapidamente e, come abbiamo visto, determinarono un vero e proprio balzo in avanti nella crescita della produttività. Tra il 1995 e il 1997, la redditività del settore dei servizi dopo un luogo periodo di ristagno (anche se mai vi era stata una vera e propria recessione) crebbe del 22%, portando l'indice di profitto in tutto il settore non finanziario dell'economia quasi al 19% del suo massimo dal 1965 7.
Sembrò che l'economia stesse finalmente operando a pieno regime.
La débacle del 1998
Nell'autunno del 1997, la crisi dell'Asia orientale aveva appena cominciato a svilupparsi, e l'economia Usa era all'apice della rinascita catalizzata dall'industria. Nel 1996 e 1997, la produzione industriale e le esportazioni continuarono a crescere rapidamente. Inoltre, i costi di produzione si andavano riducendo drasticamente, mentre in quegli stessi anni la crescita annuale della produttività del lavoro si assestava su una media del 3,2%, il rapporto produzione-capitale al 6%, e la compensazione nominale a un mero 2,2%. Nonostante ciò, nello stesso periodo di due anni, il tasso di cambio reale del dollaro crebbe del 20% e il suo valore rispetto allo yen del 50%, esercitando una notevole pressione al ribasso sui beni commerciabili. I prezzi dei prodotti industriali furono costretti a scendere a una media annua del 3,5% nel '96 e nel '97, con il risultato che la crescita dell'indice di profitto dell'industria — e quello di tutta l'economia privata — che era iniziata alla metà degli anni '80 ed aveva avuto un breve arresto soltanto nella recessione dei primi anni '90, finì per arrivare al capolinea nella seconda metà del 1997 8.
Colpiti dalla crisi asiatica, i produttori Usa dovettero affrontare non solo una competizione accresciuta da parte dei rivali giapponesi, tedeschi e anche degli altri paesi dell'Europa che si stavano avvantaggiando della caduta delle rispettive monete. Ma si trovarono a confrontarsi con il collasso del mercato delle esportazioni dell'Asia orientale fino ad allora dinamico e con il riversarsi su mercati interni Usa di prodotti asiatici, diventati estremamente convenienti per la svalutazione delle monete. La crescita delle esportazioni Usa, motore essenziale del boom, precipitò in termini reali dal 14% del 1997 al 2% del 1998, da una media annuale del 17, 4% nel terzo trimestre del 1997 a meno 0,5% nel secondo e terzo trimestre del 1998. Le importazioni reali degli Usa, nel frattempo, continuarono a espandersi al ritmo dell' 11,8% nel 1998, a fronte del 14,2% del 1997. Con i prezzi delle esportazioni e delle importazioni che precipitavano rispettivamente del 3,1 e del 5,9% nel 1998, il settore industriale Usa era pronto per una crisi: l'indice di profitto dell'industria delle compagnie principali scese di circa il 12%, rispetto al 1997 9.
A sua volta il calo degli utili delle società esercitò una pressione al ribasso sui mercati. I valori delle azioni delle compagnie più piccole rappresentate sul Russell 2000 erano quelli più vulnerabili, e scesero del 20% tra aprile e la prima settimana di agosto.
Da quel momento anche l'élite del S&P 500 cominciò a scendere, perdendo il 10% dal suo picco di metà luglio; e a causa dell'insolvenza russa, andò sotto di un altro 10%. Il ribasso dei mercati minacciava di mettere rapidamente la parola fine all'espansione Usa distruggendo la fiducia degli investitori e invertendo la tendenza della crescita dei consumi interni. Con il resto dell'economia mondiale in crisi, una recessione negli Usa avrebbe minacciato di far piombare tutto il mondo nella depressione.
III. La bolla dietro il boom
Verso la fine del settembre 1998 gli Usa si trovarono ad affrontare una grossa crisi. Il crollo russo innescò una fuga verso la sicurezza del mercato delle obbligazioni, che si manifestò con l'emergere di enormi differenziali tra i tassi d'interesse pagati sui buoni del tesoro statunitensi, relativamente stabili, e quelli pagati sulle meno sicure obbligazioni societarie, sul debito dei paesi in via di sviluppo, e persino sui titoli d'emissione di alcuni governi europei. Le azioni delle banche commerciali crollarono, per la paura di grosse perdite sui prestiti concessi ai paesi emergenti. Ma le perdite maggiori vennero sostenute dagli hedge funds e dalle gestioni patrimoniali delle banche commerciali e di investimento, conosciute tutte sotto il nome di Higly leveraged financial institutions [Hlfi: Alte istituzioni finanziarie di controllo dell'indebitamento (NdT)], che persero una quantità inaudita di dollari, dopo aver accumulato buone posizioni con strumenti d'indebitamento rischiosi, di qualità scadente ma ad alto rendimento, ricompensati da qualche posizione guadagnata nei titoli statali di nazioni sviluppate.
Il grosso cambiamento avvenne il 20 settembre, quando il gigantesco Long Term Capital Management [Ltcm: Fondo gestione dei capitali a lungo termine (NdT)] ammise di fronte al governo federale di trovarsi alle prese con un'insolvenza. Fu in questo momento critico che il governo intervenne. Mise insieme un consorzio di quattordici banche di Wall Street e di società di intermediazione per organizzare un'operazione di salvataggio della Ltcm da 3,6 miliardi di dollari. Greenspan la giustificò come un atto di mediazione non-bancaria sulla base del fatto che, se il governo non avesse agito, avrebbe messo a rischio tutto il sistema finanziario internazionale 10. La Federal Reserve realizzò, come è noto, tre successivi tagli dei tassi d'interesse, compresa una clamorosa riduzione promossa durante un intervallo fra le sue sedute formali. Se l'obiettivo immediato era neutralizzare il pericolo di blocco dei mercati finanziari, l'obiettivo più ampio sin dall'inizio era di rialzare il valore delle azioni, e sostenere quanto più a lungo possibile la corsa agli acquisti. Le riduzioni dei tassi di interesse operate dal governo segnarono un punto di svolta, non tanto perché la conseguente caduta del costo dei prestiti fu consistente, ma perché essa diede un forte segnale positivo agli investitori che volevano veder salire le azioni. Tutto ciò per stabilizzare tanto l'economia interna che quella internazionale, che stavano avviandosi verso una crisi. Ovviamente, Greenspan negò categoricamente che le riduzioni dei tassi d'interesse fossero mirate a influenzare i prezzi delle contrattazioni. Ma gli investitori sapevano bene che l'intervento di Greenspan in questa congiuntura non era la prima operazione di salvataggio di finanzieri e corporation. Nell'ottobre del 1987 il presidente della Fed era già intervenuto per bloccare il crack dei mercati azionari e, tra il 1990 e il 1992, aveva ridotto a zero gli interessi reali a breve termine, per salvare le banche che si avviavano al fallimento e le compagnie che si erano pesantemente indebitate in seguito alle crisi delle istituzioni finanziarie e creditizie, alle fusioni delle aziende insolventi e al crollo degli acquisti. E non bisogna dimenticare che il ministero del Tesoro Usa e la Federal Reserve si erano preoccupati di salvare le principali banche internazionali all'epoca della crisi latino-americana del 1982; erano accorsi in aiuto degli investitori americani che si erano trovati a subire enormi perdite in conseguenza del crack messicano del 1994-1995; e, ancora una volta, avevano aiutato le banche internazionali durante la crisi dell'Asia Orientale nel 1997-1998.
Gli investitori furono così confermati nella loro idea che Greenspan non avrebbe lasciato precipitare troppo in basso i prezzi delle azioni, tanto più perché si rendevano conto di quanto la crescita economica in corso dipendesse dal livello dei consumi e quindi da un mercato favorevole. In verità, probabilmente Greenspan non aveva avuto molta scelta. La fonte principale della crescita Usa, ossia la ripresa dei profitti industriali, si era incrinata sotto l'impatto del rialzo del dollaro e dell'incremento del surplus produttivo mondiale derivato dalla crisi dell'Asia Orientale. Tra il 1987 e il 1997 l'aumento delle esportazioni aveva contribuito per almeno un terzo alla crescita del Pil – che nel '98 e nel '99 era aumentato solo del 7%. Per evitare una depressione internazionale, la Fed stava in effetti promuovendo un nuovo modo per stimolare la domanda – la crescita del debito privato, sia delle aziende che dei consumatori – al posto del vecchio, di tipo keynesiano, basato sul deficit pubblico. La spinta americana ha funzionato in misura molto maggiore rispetto a quanto era accaduto alla metà degli anni '70 e all'inizio degli anni '80 per bloccare la recessione mondiale.
L'intervento decisivo della Fed sul mercato azionario e in quello del credito nell'autunno-inverno del 1998 non diede solo una battuta d'arresto allo spaventoso crollo del mercato dei titoli dell'estate precedente, ma permise a questo di balzare alle stelle, pur senza che si fosse registrato il minimo risultato favorevole nel livello dei profitti. Così, tra il '98 e il '99, l'indice della Borsa di New York crebbe, rispettivamente, del 20,5 e del 12,5%, anche se gli utili d'impresa al netto d'imposta (interessi esclusi) diminuirono del 3,9% e del 4,6%. Negli stessi due anni, l'Indice Standard & Poor's Corp 500 [S&P 500: Indice azionario di 500 società (NdT)] crebbe rispettivamente del 27 e del 19%, sebbene i guadagni delle aziende rappresentate in questo Indice fossero stati dello 0% nel '98 e del 17% nel '99. La Fed non si fece sfuggire l'occasione di rassicurare nuovamente i mercati del credito alla fine del 1999, apparentemente come reazione alla possibile débâcle determinata dal millennium bug. Immettendo nel sistema bancario una liquidità tale da ridurre improvvisamente il Federal Funds Rate dal 5,5 al 4% – il più grosso sbalzo del tasso in nove anni – preparò la strada per un'ultima convulsa ripresa dei mercati azionari durante i primi tre mesi del 2000. Verso il marzo 2000, l'Indice S&P 500 era salito del 20% oltre il livello raggiunto alla fine dell'ottobre 1999. Ora stava a 3,3 volte il livello raggiunto alla fine del 1994. L'Indice Nasdaq dominato dai titoli tecnologici e informatici era esploso in modo ancor più rilevante, da quota 2736 all'inizio di ottobre 1999 a quota 5000 nel marzo 2000.
Il riacquisto delle azioni
Se le condizioni necessarie per prolungare l'espansione della bolla furono alimentate dalla Fed, i prezzi delle azioni sono stati spinti verso l'alto in modo diretto e consapevole dalle varie società. È in seguito alle fusioni delle aziende indebitate e alla frenesia di acquisizioni degli anni '80 che le società avevano avviato la pratica di comprare le loro stesse azioni attraverso una crescente assunzione del debito. Il risultato interessante è stato che le società hanno realizzato la stragrande maggioranza dei loro riacquisti di azioni durante questa fase: non meno del 72,5% tra il 1983 e il 1990. Sebbene queste spese fossero abbastanza limitate in questo periodo, la liquidità delle imprese è riuscita a coprirne soltanto l'87,5%, lasciando il 12,5% al finanziamento tramite prestito. Il risultato è stato che il 100% degli acquisti di azioni in questi anni è stato finanziato attraverso ulteriori prestiti. Gli acquisti di azioni hanno assorbito il 50% dell'esposizione delle imprese e sono arrivate al 125% degli utili accantonati (profitti d'impresa al netto delle tasse meno i dividendi) e al 25% del cash flow delle società (somma degli utili accantonati e della svalutazione) 11.
Nel periodo dal 1991 al 1993, in seguito alle crisi di indebitamento delle società, le aziende cessarono quasi del tutto sia di riacquistare azioni sia di indebitarsi ulteriormente. Ma, all'inizio del '94, riprendendo dal punto dove avevano smesso durante il movimento di fusione e acquisizione delle società indebitate degli anni '80, continuarono a sprofondare sempre più nei debiti. In modo del tutto simile al periodo precedente, ma con una differenza: l'obiettivo non era più finanziare investimenti in nuove infrastrutture, che per la maggior parte continuavano a essere coperte senza fondi interni, ma piuttosto quello di riacquistare le proprie azioni. La ripresa del movimento di fusioni e acquisizioni, che si è accelerato negli ultimi anni, ha influito su alcune di queste operazioni. In qualche modo i tassi d'interesse reale più bassi, che hanno abbassato il costo del credito, e un sistema fiscale reso meno gravoso più sugli utili di capitale che sui dividendi – che ha permesso alle compagnie di annullare il pagamento degli interessi – hanno costituito ulteriori fattori significativi. Ma è chiaro che, nel corso degli anni '90, le riacquisizioni delle azioni che stavano risalendo vennero sostenute sempre più dalle richieste dei dirigenti esecutivi di vertice delle aziende, che investirono una parte crescente delle proprie retribuzioni in forma di stock option, spingendo al rialzo il valore delle azioni della propria società semplicemente per riempirsi le tasche. Perseguendo questo obiettivo, essi non hanno avuto nessuna esitazione ad alimentare il debito in modo crescente. Nel 1999, il rapporto debito-capitale netto dell'S&P 500 è balzato al 116%, rispetto all'84% della fine degli anni '80, quando la crisi d'indebitamento delle imprese aveva paralizzato sia le banche che le stesse società 12. Tra il 1994 al 1999, l'indebitamento delle imprese non finanziarie ammontava a 1,22 mila miliardi di dollari. Di tutta questa somma, le imprese hanno usato soltanto il 15,3% per coprire i propri investimenti, finanziando il resto di questi acquisti attraverso gli utili accantonati più la svalutazione, mentre ne hanno devoluto non meno del 57%, ossia 697,4 miliardi di dollari, per riacquisire azioni – una somma uguale a circa il 75% degli anticipi sulle entrate e al 18% del cash flow.
Bubblemania
Nei primi tre mesi del 2000, il valore delle azioni delle imprese, ossia la loro capitalizzazione sul mercato, è volato a 19,6 mila miliardi, a fronte dei 6,3 mila miliardi del 1994. L'assurdità di questa cifra e la sua rapida crescita sono abbastanza comprensibili. Il dato più determinante, naturalmente, era la mancanza di connessione tra l'aumento dei corsi azionari e la crescita della produzione – e in particolare della redditività – dell'economia sottostante. La capitalizzazione dei mercati (in quanto percentuale del Pil) ha impiegato solo cinque anni (tra il 1995 e l'inizio del 2000) per triplicare e passare dal 50% al 150% del Pil, sebbene nel frattempo i profitti al netto d'imposta delle imprese siano aumentati solo del 41,2%. Ci sono voluti, invece, ben tredici anni, dal 1982 al 1995, per raddoppiare tale capitalizzazione dal 25% al 50% del Pil, mentre gli utili delle imprese sono saliti nello stesso periodo del 160% 13. Ugualmente significativo è stato il divario, senza precedenti, tra le valutazioni delle compagnie sul mercato in termini di prezzi delle azioni e il valore del capitale finanziario e fisico che avevano a disposizione. Nei primi tre mesi del 2000, il rapporto tra il valore di mercato delle imprese non finanziarie degli Stati Uniti rispetto al loro attivo netto – conosciuto come `Quoziente di Tobin' – ha raggiunto quota 1,92, dallo 0,94 del 1994 e dall'1,14 del 1995, a fronte di una media dello 0,65 del ventesimo secolo. È stato quindi di circa il 50% più alto del rapporto registrato nei precedenti picchi durante il ventesimo secolo, che si verificarono, come prevedibile, nel 1929 (1,3) e nel 1969 (1,2), proprio alla conclusione dei boom finanziari di quei decenni.
Considerato che la valutazione delle loro azioni era decisamente più alta del costo dei mezzi di produzione e delle attività finanziarie in loro possesso, sembrava che fosse solo una questione di buonsenso da parte degli investitori acquistare nuovi impianti e attrezzature, piuttosto che azioni, al fine di mettere al sicuro gli incrementi di capitale conseguiti. Il fatto che sia più spesso accaduto il contrario mostra chiaramente che la bolla stava espandendosi 14. Alla fine, nel marzo 2000, il rapporto prezzo-rendita per le società rappresentate nell'Indice S&P 500 – il rapporto cioè tra quanto costa, in media, comprare un'azione rispetto ai rendimenti annui (gli utili) che le azioni realizzano – raggiunse quota 32. In considerazione di quanto si fosse allargato il divario tra l'ascesa dei prezzi delle azioni