Il Vietnam italiano
di VITTORIO ZUCCONI
Quando muore qualcuno che ci è caro, il primo pensiero che affiora dal dolore sono le cose non fatte insieme, i discorsi che non ci siamo scambiati, il tempo che non abbiamo dedicato a loro e che non abbiamo più. I fiori, le lacrime, le offerte, le preghiere, sono tanto spesso soltanto il tributo tardivo che paghiamo a noi stessi e al nostro rimorso e in questa immensa, sincera manifestazione popolare di affetto per gli uomini (possiamo evitare almeno di chiamarli "ragazzi"?) uccisi in Iraq si vede benissimo, sotto le montagne di fiori deposte sui gradini del Vittoriano, il senso di rimorso che invece trasuda dalla commozione ufficiale.
Chi ha visto le maratone di pianti che le televisioni italiane, capaci di divenire intollerabili quando esplode il cordoglio, hanno riversato e soprattutto spremuto dagli occhi dei parenti, non può fare a meno di confrontarle con la severità, quasi la freddezza puritana, con la quale l'America della politica e dei media accoglie, ormai da otto mesi, le notizie dei propri, quotidiani sacrifici in Iraq. Sembra quasi che dall'Italia delle televisioni, l'unica Italia "reale" ormai, emerga non la paura, ma una inconfessabile voglia inconscia di un piccolo Ground Zero o di un piccolo Vietnam, il desiderio di avere anche noi, la piccola Italia, qualcosa che ci accomuni, almeno in una tragedia, alla irraggiungibile America. Soltanto con questi scherzi dell'inconscio si può spiegare la scelta che la direzione del TG1 ha fatto per accompagnare, alla fine delle sue edizioni principali della scorsa settimana, la sequenza delle foto dei caduti a Nassirya (altro, lugubre classico del Vietnam televisivo americano). In tutto l'immenso repertorio funebre disponibile, qualcuno ha scelto proprio l'"Adagio per Archi" del compositore americano Samuel Barber, lo straziante pezzo che Oliver Stone scelse per il suo "Platoon", il film più feroce sul massacro inutile in Indocina.
Era un modo involontario di dire, senza avere il coraggio di dirlo, in mezzo a questa ansia giustificativa e assolutoria che ha travolto l'ufficialità nazionale, che anche i nostri soldati, carabinieri e civili, sono stati sacrificati inutilmente? Che la simpatia e la gratitudine della popolazione locale non servono mai a proteggerti dalle bombe e dai proiettili, come scoprirono proprio i soldati Usa in Vietnam, dopo avere dato per anni la colpa dei loro caduti agli infiltrati del Nord? Che ai parenti dei morti non importa nulla se il camion carico di tritolo esplose dentro o fuori la recinzione regolamentare dei bidoni di ghiaia, come ci spiegano affannosamente gli altri gradi? Che avere fatto tutto il possibile, avere adottato tutte le misure, avere accettato con entusiasmo e professionalità la missione, non farà uscire neppure uno di quei 19 dalle bare del funerale di Stato? Che l'eccesso di violini strazianti può nascondere il dubbio sul perché siano morti e il timore che altri li seguiranno?
Questo sarebbe il momento per piangere su chi è vivo, mentre si onora giustamente chi è morto. Gli Americani, che hanno sopportato finora già 420 morti, almeno tremila feriti, mille e duecento mutilati e chissà quante vittime del deserto, dello stress, della fatica, non sono meno umani di noi. Le loro madri sanno piangere come le nostre sulle casse dei figli. I bambini di Bagdad amano i Marines come quelli di Nassirya amano i nostri Carabinieri. Ma loro sanno, o credono di sapere, che cosa sono andati a fare in Iraq, dunque perché i loro fanti, carristi, aviatori, poliziotti muoiono. Sono andati a fare una guerra, per vincerla e per cambiare un regime che il loro governo aveva giudicato pericoloso per la sicurezza della stessa America. Non importa ora discutere se la premessa fosse vera, se i piani fossero intelligenti, se la guerra del dopoguerra fosse stata prevista. Il patto tra la nazione e chi ha mandato i suoi figli a morire è chiaro e per questo, ancora, regge, come resse, per un decennio, il Vietnam, prima che la verità disintegrasse le bugie.
A differenza di noi, si sono parlati e chiariti prima che accaddesse il peggio, non hanno aspettato i certificati di morte per domandarsi, con il nodo del rimorso in gola e con il pietismo dei talk show televisivi da lacrima continua, se ancora una volta, come si dice dietro ogni feretro in ogni funerale, privato o di Stato, non sarebbe stato meglio pensarci, e parlarci, prima che fosse troppo tardi.
(18 novembre 2003)