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Forumer storico
Cosa nascondono le mosse di Big Pharma?
Pubblicazione: 30.04.2021 - Mauro Bottarelli
Cambi di trend e operatività in piena pandemia contraddistinguono le mosse delle case farmaceutiche impegnate sui vaccini
I vaccini anti-Covid: AstraZeneca, Moderna, Sputnik, Pfizer-BionTech (LaPresse)
Alzi la mano chi ci capisce più qualcosa di vaccini. E non parlo a livello medico, ci mancherebbe. Quello è lavoro che non compete a noi, virologi della domenica ne abbiamo in giro fin troppi. Dico a livello di percezione di disponibilità.
Tradotto, ci sono o meno abbastanza vaccini per tutti? Ogni settimana, l’informazione cambia.
Prima gli Usa sono strapieni e pronti ad aiutare il mondo intero, inviando fiale in quantità industriale. Poi, di colpo, i consiglieri di Joe Biden lo ammoniscono dal mettere mano alle scorte per soccorrere l’India in piena escalation da variante domestica.
E l’Europa? Al netto dei deliranti contratti siglati a livello comunitario e dell’azione legale contro AstraZeneca, come stanno andando le cose?
L’Ema sta lavorando sulla certificazione di Sputnik dove tutto è fermo, magari per ragioni meramente geopolitiche?
Domande che sorgono spontanee. E che probabilmente si è posto lo stesso generale Figliuolo, a capo della task force voluta da Mario Draghi, il quale ha ammesso che all’atto dell’accettazione dell’incarico sapeva che le dosi a disposizione non erano sufficienti per i traguardi record che si era posto da subito, ma che occorreva comunque inviare un segnale, quasi motivazionale, attraverso la creazione di hub di massa.
Ora, pare, le fiale siano in arrivo in grande quantità. Nel frattempo, però, una convinzione si è fatta mainstream, dopo che a lanciare l’apparente provocazione è stato l’ad di Pfizer, lo stesso che lo scorso 9 novembre intascò un bel po’ di soldi dalle vendite di titoli della propria azienda, nonostante l’ordinativo fosse stato disposto – per legge, in quanto insider – nell’agosto precedente. Ovviamente, una semplice e fortunata combinazione temporale di eventi.
E cosa disse il 15 aprile scorso Albert Bourla parlando con Bloomberg?
Ce lo mostra questa schermata, tanto per rinfrescare un po’ la memoria storica: una terza dose di vaccino sarà probabilmente necessaria entro 12 mesi dalla somministrazione delle prime due.
Da allora, il vaso di Pandora dell’endemia si è scoperchiato. E lo stesso premier Mario Draghi ha più volte ricordato come dovremo convivere con questa situazione, probabilmente dovendo ricorrere a più richiami del vaccino. Un’emergenza sanitaria permanente. Di cui prendiamo atto, partendo dal presupposto che non siamo degli esperti e quindi dobbiamo fidarci.
Ora però guardate questo schema, il quale ci mostra quanto avremmo guadagnato investendo 1.000 dollari l’11 marzo 2020, giorno in cui l’Oms dichiarò ufficialmente la pandemia da Covid, sulle varie case farmaceutiche produttrici di vaccini.
Un esercizio interessante.
Prima di tutto, perché mostra un discrimine poco intuitivo per chi non opera nel comparto pharma (o in Borsa): come si nota, i grandi vincitori sono Novovax e Moderna, mentre Sanofi, AstraZeneca e Pfizer languono sul fondo di questa classifica dei returns. Ma attenzione, qui non si opera in una logica di numeri assoluti, bensì percentuali. Uno dei fattori che giustifica la discrepanza nella performance di prezzo dei titoli è il potenziale di revenue che si preventiva/ottiene dalle vendite del vaccino rispetto al resto del business aziendale esistente: tradotto, quanto è il plus garantito dal vaccino sui profitti generali dell’intero mercato di quel marchio. Ovviamente, più l’azienda è piccola, più l’impatto sui fondamentali può essere grande. Non a caso, Novavax ha stracciato tutti: l’azienda, infatti, vantava revenues per soli 18,7 milioni di dollari, quindi catturare anche solo una parte in più di quota di mercato significava enorme valore aggiunto per gli azionisti.
Dalla parte opposta abbiamo la francese Sanofi, la quale forte di revenues generate per 40,5 miliardi di dollari, vedeva le vendite di vaccino come quasi residuali sull’impatto di business totale. Ovviamente, la torta si è allargata con l’arrivo delle varianti e l’accettazione pressoché generale dello stato di endemia, lo stesso certificato dall’ad di Pfizer e ormai assunto come ineludibile da politici e classe medica. Gli analisti, quindi, hanno rivisto al rialzo le stime del business globale legato alla vendite di vaccini per l’industria pharma: circa 100 miliardi di dollari, 40 dei quali di profitti post-tasse.
Ma attenzione, perché tutto va messo in ulteriore prospettiva. Lo scorso anno, lo Standard&Poor’s 500 è cresciuto grazie alla liquidità della Fed del 44,9%, il che significa che solo tre dei sette vaccini presi in esame dallo studio di Visual Capitalist hanno visto i loro trend di prezzo andare in out-performance sul mercato. Poco.
Sarà quindi un caso che, di colpo, i vaccini debbano diventare nostri amici per lungo tempo, quasi il siero anti-Covid sia il nostro nuovo antidoto anti-influenzale dell’autunno, la punturina di rito che ci evita mal di osso, febbre e naso che cola?
Sorge il dubbio, ancorché il sottoscritto attenda con ansia il proprio turno per vaccinarsi e inviti tutti quanti a farlo.
Perché tra l’essere un no vax e l’essere un credulone, c’è una bella via di mezzo.
Quindi, quando il 16 aprile, un giorno dopo l’annuncio urbi et orbi dell’ad di Pfizer rispetto alla terza somministrazione, la Commissione europea conferma i colloqui in corso con Novavax, la piccola azienda dalle revenues pre-Covid ridicole divenuta però campione di returns, dopo aver vaccinato mezzo America, le antenne un po’ si drizzano?
E che dire del fatto che il 26 aprile la francese Sanofi, ultima della fila nella classifica, abbia deciso comunque di rigettarsi nella mischia della corsa vaccinale, nonostante le revenues residuali garantite dal siero rispetto alla totalità del business? E attenzione, non per produrre un vaccino europeo, stante anche l’endemia che renderà la necessità di sieri pressoché permanente per un periodo non quantificabile di tempo, bensì producendo vaccino Moderna nei suoi stabilimenti nel New Jersey. E non pochi, poiché si parla di un massimale di 200 milioni di dosi. In più rispetto a quanto prospettato e preventivato finora a livello di domanda/offerta globale. Guarda caso, puntando ora su Moderna. Leader insieme a Novovax della classifica parallela delle performance borsistiche.
Ed ecco che, proprio ieri, la stessa Moderna rende noto – alla luce anche della nuova partnership sugli stabilimenti del New Jersey – come nel 2022 produrrà 3 miliardi di dose di vaccino. Nel 2022 e non entro il 2022. Endemia, appunto. Ma proprio Sanofi è reduce da numerose critiche visto che il suo vaccino, realizzato in collaborazione con la britannica GSK, è stato registrato con mesi di ritardo e dovrebbe così essere disponibile solamente a fine anno, anziché a metà 2021 come inizialmente annunciato. In compenso, a marzo è stato realizzato uno studio clinico sul suo secondo vaccino sviluppato con Translate Bio e che si basa su rna messaggero, così come i vaccini di Moderna e Pfizer.
Insomma, cambi di trend e operatività.
In piena pandemia.
Con una tendenza alla partnership operativa, più che al ruolo di sviluppatore. Ovviamente, nulla che abbia a che fare con il basilare rapporto costi/benefici mostrato da quella tabella, tanto semplice quanto tremendamente in grado di aprire scenari di riflessione profondi. E a lungo termine, degni appunto di un’endemia. Né tantomeno nulla di illegale, sia chiaro fin da subito. Anzi, ottimo materiale per tramutarsi in driver di mercato. E di mosse a comando o su commissione delle Banche centrali, in caso di flip-flop fra campagne vaccinali, apparizioni di nuove varianti, arrivi di cicliche ondate e imposizioni emergenziali di lockdown. O magari sono solo speculazioni.
Un caso. Anche perché, a onor del vero, l’accordo stretto da Sanofi per la produzione in Usa dal prossimo settembre è il terzo di partnership, dopo quello con Pfizer/BionTech e Johnson&Johnson. Certo, appare decisamente poco piacevole sapere come un grande soggetto di mercato europeo vada a operare in partnership per il mercato Usa, stante la dichiarazione di Juan Andres, direttore delle operazioni tecniche di Moderna: «La produzione ci consentirà di continuare ad aumentare le nostre capacità negli States». Anche qui, forse, la Commissione Ue deve fare un po’ di mea culpa, stante il livello di sostegno economico messo invece in campo dalla tanto vituperata amministrazione Trump per i trials di sperimentazione.
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I vaccini anti-Covid: AstraZeneca, Moderna, Sputnik, Pfizer-BionTech (LaPresse)
Alzi la mano chi ci capisce più qualcosa di vaccini. E non parlo a livello medico, ci mancherebbe. Quello è lavoro che non compete a noi, virologi della domenica ne abbiamo in giro fin troppi. Dico a livello di percezione di disponibilità.
Tradotto, ci sono o meno abbastanza vaccini per tutti? Ogni settimana, l’informazione cambia.
Prima gli Usa sono strapieni e pronti ad aiutare il mondo intero, inviando fiale in quantità industriale. Poi, di colpo, i consiglieri di Joe Biden lo ammoniscono dal mettere mano alle scorte per soccorrere l’India in piena escalation da variante domestica.
E l’Europa? Al netto dei deliranti contratti siglati a livello comunitario e dell’azione legale contro AstraZeneca, come stanno andando le cose?
L’Ema sta lavorando sulla certificazione di Sputnik dove tutto è fermo, magari per ragioni meramente geopolitiche?
Domande che sorgono spontanee. E che probabilmente si è posto lo stesso generale Figliuolo, a capo della task force voluta da Mario Draghi, il quale ha ammesso che all’atto dell’accettazione dell’incarico sapeva che le dosi a disposizione non erano sufficienti per i traguardi record che si era posto da subito, ma che occorreva comunque inviare un segnale, quasi motivazionale, attraverso la creazione di hub di massa.
Ora, pare, le fiale siano in arrivo in grande quantità. Nel frattempo, però, una convinzione si è fatta mainstream, dopo che a lanciare l’apparente provocazione è stato l’ad di Pfizer, lo stesso che lo scorso 9 novembre intascò un bel po’ di soldi dalle vendite di titoli della propria azienda, nonostante l’ordinativo fosse stato disposto – per legge, in quanto insider – nell’agosto precedente. Ovviamente, una semplice e fortunata combinazione temporale di eventi.
E cosa disse il 15 aprile scorso Albert Bourla parlando con Bloomberg?
Ce lo mostra questa schermata, tanto per rinfrescare un po’ la memoria storica: una terza dose di vaccino sarà probabilmente necessaria entro 12 mesi dalla somministrazione delle prime due.
Da allora, il vaso di Pandora dell’endemia si è scoperchiato. E lo stesso premier Mario Draghi ha più volte ricordato come dovremo convivere con questa situazione, probabilmente dovendo ricorrere a più richiami del vaccino. Un’emergenza sanitaria permanente. Di cui prendiamo atto, partendo dal presupposto che non siamo degli esperti e quindi dobbiamo fidarci.
Ora però guardate questo schema, il quale ci mostra quanto avremmo guadagnato investendo 1.000 dollari l’11 marzo 2020, giorno in cui l’Oms dichiarò ufficialmente la pandemia da Covid, sulle varie case farmaceutiche produttrici di vaccini.
Un esercizio interessante.
Prima di tutto, perché mostra un discrimine poco intuitivo per chi non opera nel comparto pharma (o in Borsa): come si nota, i grandi vincitori sono Novovax e Moderna, mentre Sanofi, AstraZeneca e Pfizer languono sul fondo di questa classifica dei returns. Ma attenzione, qui non si opera in una logica di numeri assoluti, bensì percentuali. Uno dei fattori che giustifica la discrepanza nella performance di prezzo dei titoli è il potenziale di revenue che si preventiva/ottiene dalle vendite del vaccino rispetto al resto del business aziendale esistente: tradotto, quanto è il plus garantito dal vaccino sui profitti generali dell’intero mercato di quel marchio. Ovviamente, più l’azienda è piccola, più l’impatto sui fondamentali può essere grande. Non a caso, Novavax ha stracciato tutti: l’azienda, infatti, vantava revenues per soli 18,7 milioni di dollari, quindi catturare anche solo una parte in più di quota di mercato significava enorme valore aggiunto per gli azionisti.
Dalla parte opposta abbiamo la francese Sanofi, la quale forte di revenues generate per 40,5 miliardi di dollari, vedeva le vendite di vaccino come quasi residuali sull’impatto di business totale. Ovviamente, la torta si è allargata con l’arrivo delle varianti e l’accettazione pressoché generale dello stato di endemia, lo stesso certificato dall’ad di Pfizer e ormai assunto come ineludibile da politici e classe medica. Gli analisti, quindi, hanno rivisto al rialzo le stime del business globale legato alla vendite di vaccini per l’industria pharma: circa 100 miliardi di dollari, 40 dei quali di profitti post-tasse.
Ma attenzione, perché tutto va messo in ulteriore prospettiva. Lo scorso anno, lo Standard&Poor’s 500 è cresciuto grazie alla liquidità della Fed del 44,9%, il che significa che solo tre dei sette vaccini presi in esame dallo studio di Visual Capitalist hanno visto i loro trend di prezzo andare in out-performance sul mercato. Poco.
Sarà quindi un caso che, di colpo, i vaccini debbano diventare nostri amici per lungo tempo, quasi il siero anti-Covid sia il nostro nuovo antidoto anti-influenzale dell’autunno, la punturina di rito che ci evita mal di osso, febbre e naso che cola?
Sorge il dubbio, ancorché il sottoscritto attenda con ansia il proprio turno per vaccinarsi e inviti tutti quanti a farlo.
Perché tra l’essere un no vax e l’essere un credulone, c’è una bella via di mezzo.
Quindi, quando il 16 aprile, un giorno dopo l’annuncio urbi et orbi dell’ad di Pfizer rispetto alla terza somministrazione, la Commissione europea conferma i colloqui in corso con Novavax, la piccola azienda dalle revenues pre-Covid ridicole divenuta però campione di returns, dopo aver vaccinato mezzo America, le antenne un po’ si drizzano?
E che dire del fatto che il 26 aprile la francese Sanofi, ultima della fila nella classifica, abbia deciso comunque di rigettarsi nella mischia della corsa vaccinale, nonostante le revenues residuali garantite dal siero rispetto alla totalità del business? E attenzione, non per produrre un vaccino europeo, stante anche l’endemia che renderà la necessità di sieri pressoché permanente per un periodo non quantificabile di tempo, bensì producendo vaccino Moderna nei suoi stabilimenti nel New Jersey. E non pochi, poiché si parla di un massimale di 200 milioni di dosi. In più rispetto a quanto prospettato e preventivato finora a livello di domanda/offerta globale. Guarda caso, puntando ora su Moderna. Leader insieme a Novovax della classifica parallela delle performance borsistiche.
Ed ecco che, proprio ieri, la stessa Moderna rende noto – alla luce anche della nuova partnership sugli stabilimenti del New Jersey – come nel 2022 produrrà 3 miliardi di dose di vaccino. Nel 2022 e non entro il 2022. Endemia, appunto. Ma proprio Sanofi è reduce da numerose critiche visto che il suo vaccino, realizzato in collaborazione con la britannica GSK, è stato registrato con mesi di ritardo e dovrebbe così essere disponibile solamente a fine anno, anziché a metà 2021 come inizialmente annunciato. In compenso, a marzo è stato realizzato uno studio clinico sul suo secondo vaccino sviluppato con Translate Bio e che si basa su rna messaggero, così come i vaccini di Moderna e Pfizer.
Insomma, cambi di trend e operatività.
In piena pandemia.
Con una tendenza alla partnership operativa, più che al ruolo di sviluppatore. Ovviamente, nulla che abbia a che fare con il basilare rapporto costi/benefici mostrato da quella tabella, tanto semplice quanto tremendamente in grado di aprire scenari di riflessione profondi. E a lungo termine, degni appunto di un’endemia. Né tantomeno nulla di illegale, sia chiaro fin da subito. Anzi, ottimo materiale per tramutarsi in driver di mercato. E di mosse a comando o su commissione delle Banche centrali, in caso di flip-flop fra campagne vaccinali, apparizioni di nuove varianti, arrivi di cicliche ondate e imposizioni emergenziali di lockdown. O magari sono solo speculazioni.
Un caso. Anche perché, a onor del vero, l’accordo stretto da Sanofi per la produzione in Usa dal prossimo settembre è il terzo di partnership, dopo quello con Pfizer/BionTech e Johnson&Johnson. Certo, appare decisamente poco piacevole sapere come un grande soggetto di mercato europeo vada a operare in partnership per il mercato Usa, stante la dichiarazione di Juan Andres, direttore delle operazioni tecniche di Moderna: «La produzione ci consentirà di continuare ad aumentare le nostre capacità negli States». Anche qui, forse, la Commissione Ue deve fare un po’ di mea culpa, stante il livello di sostegno economico messo invece in campo dalla tanto vituperata amministrazione Trump per i trials di sperimentazione.
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