Macroeconomia Crisi della politica, crisi del liberismo

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Crisi della politica, crisi del liberismo
Alfonso Tuor

Il professor Antonio Spadafora e l’avvocato Tito Tettamanti, sulla scia di un commento di Giancarlo Dillena, si sono interrogati sulle colonne di questo giornale sulla «statura» dei politici dei nostri giorni che, secondo alcuni, risulterebbero inferiori rispetto ai politici del passato. Il primo si è chiesto perché i migliori esponenti della società civile si tengono lontano dalla politica e ha risposto che probabilmente la ragione è determinata dal fatto che il potere politico è ormai vuoto perché senza un progetto. Il secondo ha sostenuto che la crisi della classe politica è dovuta alla mancanza di una élite non solo politica, che «sappia in virtù di una coesione raggiunta su alcuni punti cardine e di un’autorevolezza guadagnata per impegno e riconosciuta competenza spiegare al paese quel progetto di cui Spadafora lamenta l’assenza». La questione non può essere affrontata solo rifacendosi alle categorie della filosofia e della sociologia politica senza tenere conto dei profondi mutamenti avvenuti negli ultimi decenni nella sfera dell’economia. L’intera questione può essere letta con un approccio diverso.
Negli anni Cinquanta e Sessanta nella maggior parte delle democrazie occidentali si era affermato ed era condiviso dalle élites il paradigma liberaldemocratico che con grande successo ha cercato di coniugare le ragioni della libertà con quelle dell’economia e della giustizia sociale. Questo periodo storico, che è stato anche chiamato l’era del «compromesso keynesiano» o ancora del «compromesso socialdemocratico», è stato un vero e proprio «Ventennio d’oro»: la crescita economica non è mai stata così alta e così continua, l’inflazione è rimasta a livelli minimi, le diseguaglianze sociali sono fortemente diminuite, da un canto, grazie alla forte crescita e, dall’altro, grazie alla politica di redistribuzione dei redditi attuata, seppur in forme diverse, in tutti i paesi occidentali. In questo periodo le società occidentali (e anche il Ticino) hanno prodotto uomini politici di grande statura, che erano espressione di una élite che aveva fatto proprio il modello liberaldemocratico. Negli anni Settanta questo modello è entrato in crisi per ragioni eminentemente economiche (e non per ragioni politiche).
La fine del sistema di Bretton Woods, che segna la fine del retroterra economico che aveva reso possibile queste politiche, gli choc petroliferi e l’incapacità delle autorità monetarie di affrontare il problema dell’inflazione provocano il fenomeno della «stagflazione», ossia la presenza contemporanea di alti tassi di inflazione e di stagnazione economica e quindi di disoccupazione.
In questo contesto di disorientamento delle élites politiche ed economiche del mondo occidentale attecchisce la rivoluzione liberista che poi trionfa (agli inizi degli anni Ottanta) anche politicamente con le vittorie elettorali di Ronald Reagan negli Stati Uniti e di Margareth Thatcher in Gran Bretagna. Nel corso degli anni successivi si cambiano ulteriormente le condizioni quadro dell’economia internazionale con misure tendenti a liberare le forze del mercato: esse vanno dall’estensione della libertà dei movimenti dei capitali alla riduzione delle tariffe doganali e così via. In pratica, si creano condizioni economiche internazionali nuove che rendono impossibile economicamente (o quanto meno molto arduo) il ritorno alle politiche liberaldemocratiche degli anni Cinquanta e Sessanta. Contemporaneamente si afferma in modo sempre più esteso (soprattutto tra le élites del mondo della finanza) il nuovo paradigma liberista.
Questo nuovo paradigma, che doveva portarci ad una nuova era di grande prosperità, comincia a mostrare ormai tutti i suoi limiti. La crescita è discontinua e dipendente dalla formazione di continue bolle finanziarie, la finanziarizzazione dell’economia accentua il fenomeno delle ineguaglianze sociali e la concentrazione delle ricchezze, la concorrenza tra un «sistema-paese» e l’altro accentua la precarietà sul mercato del lavoro e mette sotto pressione i meccanismi sociali che i diversi paesi si sono dati e gli stessi meccanismi della globalizzazione producono grandi storie di successo in Asia e grandi fallimenti in altre regioni del mondo e così via. Il suo definitivo fallimento, anche se molti non se ne sono accorti, viene paradossalmente sancito proprio dai mercati finanziari con il crollo delle Borse dell’inizio di questo decennio.
Il fallimento del progetto liberista ha fatto entrare il mondo della politica in una specie di «terra di nessuno». In questo contesto non stupisce che - come sostiene Tito Tettamanti - le élites non esprimano più progetti credibili e condivisi e che si rifugino nel mondo degli affari. Non stupisce nemmeno che - come sostiene Antonio Spadafora - non ci sia progettualità, ma solo amministrazione (spesso cattiva) dell’esistente. Non stupisce nemmeno che, da un canto, vi siano alcuni che, come grammofoni inceppatti, continuano ad invocare le prospettive radiose che offre il liberismo e, dall’altro, vi siano coloro che invocano il ritorno a politiche socialdemocratiche rese economicamente estremamente «costose» in termini di crescita e di occupazione dal nuovo quadro economico internazionale. E infatti ha ragione Antonio Spadafora quando sostiene che non c’è più un progetto politico. Anzi si potrebbe aggiungere che non esiste nemmeno un progetto economico, ma solo un progetto del mondo della finanza che, per sua natura, ha un orizzonte temporale unicamente di breve termine. Ed è quindi pericoloso sia politicamente sia economicamente.
Di fronte ad una realtà del genere che tende a riportarci, in base alle presunte regole del mercato, verso uno «stato di natura», in cui prevalgono i forti e i furbi, non vi può essere progetto politico (e nemmeno futuro per una società) se non ridisegnando le regole di funzionamento dell’economia internazionale. Ed è quanto stanno cominciando a capire numerosi esponenti delle élites europee e soprattutto quelli più legatì al mondo dell’industria, per esempio gli italiani Giulio Tremonti e Guido Rossi. Di fondamentale rilievo in questo senso è poi l’iniziativa del mondo industriale tedesco di creare un nuovo centro universitario di studi economici a Berlino, in cui invece della visione liberista, oramai prevalente ovunque nel mondo accademico, si formino i giovani e si attuino lavori di ricerca sulle strategie economiche di lungo termine e sulle responsabilità sociali delle imprese. Sono segnali che fanno ritenere che parti delle élites, ancora dotate di un cervello sgombro dalle ideologie, hanno voglia di investire per cercare il modo di riconiugare le ragioni della libertà con quelle dell’economia e della giustizia sociale. Sono queste le uniche fiaccole di speranza di rifondare le ragioni della convivenza sociale nei nostri paesi.

14/02/2006
CdT
 
Secondo me qualcuno, più di qualcuno, prima di parlare di liberismo, dovrebbe spiegare cosa è veramente il liberismo. Perchè ho l'impressione che la definizione di liberismo sia ben poco chiara a queste persone: se prima di accusare una determinata teoria economica ognuno la spiegasse per esteso, noi capiremmo meglio cosa tale persona stia effettivamente criticando. Sarebbe illuminante, secondo me.

Liberismo? Per piacere, ma chi l'ha visto?!? :rolleyes:
 

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