Curare il Covid a casa - studio dell'istituto Mario Negri

tontolina

Forumer storico
April 2, 2021
Curare il Covid-19 a casa: studio clinico su un possibile trattamento precoce
NEWS


È stato appena pubblicato su MedRxiv in versione pre-print * lo studio dal titolo "A simple, home-therapy algorithm to prevent hospitalization for covid-19 patients: a retrospective observational matched-cohort study" (Un semplice algoritmo [ndr. schema sistematico di calcolo] per il trattamento domiciliare di pazienti Covid-19 per prevenire l'ospedalizzazione: uno studio di osservazione retrospettiva).
Come precisa il prof. Remuzzi, coautore dello studio,“pur essendo in attesa della pubblicazione ufficiale, abbiamo pensato di rendere noti i dati emersi alla comunità scientifica perché i risultati sull'ospedalizzazione sono di un certo interesse".
Lo studio in questione, infatti, si propone, come altri studi attualmente in corso, per il trattamento domiciliare dei pazienti Covid-19, di presentare ai Medici di Medicina Generale una possibile cura precoce nelle prime fasi dell'infezione.
Nei primi 2-3 giorni, infatti, il Covid-19 è in fase di incubazione: la persona non presenta ancora sintomi, ovvero è presintomatica.
Nei 4-7 giorni successivi, la carica virale aumenta facendo comparire i primi sintomi (tosse, febbre, stanchezza, dolori muscolari, mal di gola, nausea, vomito, diarrea). Intervenire in questa fase, iniziando a curarsi a casa e trattando il Covid-19 come si farebbe con qualsiasi altra infezione respiratoria, ancora prima che sia disponibile l'esito del tampone, potrebbe aiutare ad accelerare il recupero e a ridurre l’ospedalizzazione.
Seguire questo approccio offre vantaggi sia ai pazienti che al il sistema sanitario, il cui sovraccarico è attualmente ancora un problema.

Le evidenze dello studio clinico sulle cure domiciliari del Covid-19
Studi clinici randomizzati in pazienti con Covid-19 curati a casa, condotti per confrontare l'efficacia di diversi regimi di trattamento, non erano ancora mai stati compiuti finora.
Lo studio retrospettivo “matched-cohort” mostra quanto segue: 90 pazienti con Covid-19 lieve sono stati trattati a casa dai loro medici di famiglia, tra ottobre 2020 e gennaio 2021, secondo l'algoritmo proposto. I risultati ottenuti da questi pazienti sono stati confrontati con i risultati di pazienti che presentavano le stesse caratteristiche (età, sesso e comorbidità), ma che avevano ricevuto altri regimi terapeutici. Le analisi di questo studio sono state effettuate con il metodo “intention to treat”, cioè un'analisi statistica che, nella valutazione di un esperimento, si basa sugli intenti iniziali di trattamento e non sui trattamenti effettivamente somministrati.
Un trattamento accurato dei pazienti Covid-19 a domicilio da parte dei medici di famiglia, secondo il regime di raccomandazione proposto nel documento, ha avuto un effetto importante sulla necessità di ricovero in ospedale. Ciò si è tradotto in una riduzione di oltre il 90% del numero complessivo di giorni di ricovero e dei relativi costi di trattamento.
Il tempo mediano per la risoluzione dei sintomi principali è stato di 18 giorni per i pazienti trattati secondo le nuove raccomandazioni, mentre è stato di 14 giorni nel gruppo di controllo. Significa che trattare precocemente a casa non influenza in modo apprezzabile la durata delle malattie, quanto invece il suo fenotipo, e cioè l’insieme di tutte le manifestazioni cliniche, con una conseguente riduzione della necessità di ospedalizzazione.

‍Il primo documento, ottenuto dall’esperienza di Bergamo, per la cura domiciliare del Covid-19
Lo studio clinico pubblicato su MedRxiv ha dato ufficialità al primo documento presentato da Fredy Suter e Giuseppe Remuzzi, dal titolo “A recurrent question from a primary care physician: How should I treat my COVID-19 patients at home?”, pubblicato su Clinical and Medical Investigations.
Durante la prima fase dell’epidemia causata dal nuovo coronavirus, infatti, le indicazioni per curare i pazienti a casa sono state condivise con alcuni medici dell’ATS di Bergamo, che le hanno messe in pratica su più di 100 pazienti positivi al Covid-19 con sintomi, guariti tutti senza ricorrere al ricovero ospedaliero.
Secondo quanto elaborato da Suter e Remuzzi, se la febbre non è l’unico sintomo presente, i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) così come anche l’acido acetilsalicilico (aspirina), sono da preferirsi al paracetamolo(tachipirina). Quest’ultimo, infatti, non solo ha una bassa attività antinfiammatoria ma, secondo alcuni esperti, diminuisce le scorte di glutatione, una sostanza che agisce come antiossidante. La carenza di glutatione potrebbe portare ad un ulteriore peggioramento dei danni causati dalla risposta infiammatoria, che si verifica durante l’infezione Covid-19. Il beneficio offerto dai FANS nel ridurre l’infiammazione potrebbe, invece, tradursi in una minore progressione della malattia.
I FANS, che inibiscono in maniera selettiva l’enzima che produce i mediatori dell’infiammazione (chiamato ciclossigenasi-2 o COX-2), possono avere un miglior profilo benefici/rischi. Esempi di farmaci inibitori di COX-2 sono il celecoxib e la nimesulide (anche se meno selettivo rispetto al primo).
In questo modo, spiegano Remuzzi e Suter, si può prevenire la reazione infiammatoria che, se viene presa in tempo, è curabile a domicilio dal medico di famiglia. È proprio il medico di famiglia, infatti, che dovrà valutare lo stato di salute del paziente cercando di valutare la gravità della malattia e curandolo in modalità domiciliare fin quando possibile. In base all’evoluzione del quadro clinico, si deciderà poi la durata del trattamento.
Quando gli antinfiammatori non bastano a controllare la malattia, si passa ad altri farmaci ma non prima di aver fatto alcuni esami del sangue, con un prelievo a domicilio, per controllare:
  1. il numero dei globuli rossi e dei globuli bianchi, che danno un’idea della situazione immunologica;
  2. i livelli della PCR, o Proteina C Reattiva, per accertare l’andamento dell’infiammazione;
  3. i livelli di creatinina, albumina ed elettroliti per verificare lo stato di salute dei reni;
  4. i livelli del glucosio per la presenza di ipoglicemia e iperglicemia;
  5. i livelli degli enzimi epatici per controllare lo stato di salute del fegato;
  6. i livelli di D-dimero, PT, PTT e fibrinogeno per controllare la coagulazione del sangue.
Nella gestione domiciliare del Covid-19 è assolutamente necessario che i medici di famiglia seguano i pazienti giorno dopo giorno, come spiegato nel diagramma di flusso delle varie fasi di monitoraggio, riportato nella pubblicazione su Clinical and Medical Investigations.
covid-19 cure domiciliari

Diagramma di flusso delle fasi di monitoraggio raccomandate ai medici di famiglia per seguire i pazienti non ospedalizzati nelle prime fasi di infezione


* Un lavoro pubblicato come preprint non viene sottoposto a “Revisione dei pari” o “Peer-review”, al fine di velocizzare la disponibilità dei risultati.

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Raffaella Gatta - Content manager
 
Colchicina e COVID-19: lo studio del San Raffaele sui pazienti ad elevato rischio

I medici del San Raffaele mostrano per la prima volta la sicurezza e l’efficacia della molecola antinfiammatoria colchicina nel trattare precocemente pazienti Covid-19.
L’efficacia dei trattamenti nei pazienti Covid-19 dipende anche, e soprattutto, dalla precocità della loro somministrazione.
Ecco perché i medici dell’IRCCS Ospedale San Raffaele hanno deciso di intervenire somministrando a domicilio la colchicina, una molecola con effetti antinfiammatori nota fin dall’antichità, per intercettare e spegnere la risposta infiammatoria scatenata dal nuovo coronavirus nelle primissime fasi della malattia.
Lo studio, condotto da Emanuel Della Torre, immunologo presso l’Unità di Immunologia, Reumatologia, Allergologia e Malattie Rare dell’IRCCS San Raffaele, e coordinato da Moreno Tresoldi, primario dell’Unità di Medicina Generale e delle Cure Avanzate, descrive per la prima volta l’efficacia e la sicurezza del farmaco antinfiammatorio in pazienti Covid positivi.
La ricerca inoltre sottolinea l’importanza di agire tempestivamente per ridurre il rischio che una possibile progressione in insufficienza respiratoria porti ad un’eccessiva affluenza di casi critici negli ospedali.
Lo studio è stato recentemente pubblicato sulla rivista Clinical Immunology.
I risultati dello studio del San Raffaele

“Lo studio è stato condotto nel mese di marzo, in piena pandemia. Abbiamo somministrato la colchicina in 9 pazienti domiciliari che, col passare dei giorni, avevano manifestato caratteristiche cliniche suggestive di un’evoluzione iper-infiammatoria” spiega il dottor Moreno Tresoldi, coordinatore dello studio.
COVID-19 nella maggior parte dei casi, infatti, esordisce come una sindrome simil-influenzale che tende ad auto risolversi. In circa il 30% dei casi, invece, dopo una iniziale fase prodromica si assiste alla comparsa di febbre elevata, tosse e affaticamento respiratorio.
“Questa popolazione di pazienti è quella più a rischio di ricovero e di supporto ventilatorio, poiché la dispnea evolve rapidamente in un’insufficienza respiratoria” specifica Tresoldi.
Emanuel Della Torre, primo nome della ricerca, spiega: “Colchicina è stata somministrata con una dose di carico, seguita da una dose di mantenimento, dopo almeno cinque giorni di febbre > 38°C.
Tutti i 9 pazienti trattati a domicilio si sono sfebbrati entro 72 ore con risoluzione della tosse e solo in un caso è stato necessario procedere al ricovero per un supporto di ossigeno a basso flusso”.
Colchicina: che cos’è e come funziona
La colchicina è una molecola estratta dalle piante del genere Colchicum e, per le sue proprietà antinfiammatorie note fin dall’antichità, viene oggi considerata come terapia di scelta nella gotta, nelle pericarditi croniche e in malattie auto-infiammatorie caratterizzate da febbri periodiche, come la febbre mediterranea familiare.
“I meccanismi fisiopatologici responsabili della transizione da una fase pauci-sintomatica ad una polmonite iper-infiammatoria in pazienti COVID-19 sembrano risiedere nell’attivazione dell’inflammasoma da parte del virus” spiega Emanuel Della Torre.
L’inflammasoma è un complesso di proteine che, se attivato, porta al rilascio di mediatori dell’infiammazione (citochine) responsabili della febbre e del danno d’organo.
Nei pazienti con forme gravi di COVID-19 ricoverati in tutto il mondo, questi mediatori sono oggi bersaglio di terapie somministrate per via endovenosa con l’intento di bloccare a monte la cascata infiammatoria e spegnere la cosiddetta tempesta citochinica.
“Nel nostro studio - continua Emanuel Della Torre - abbiamo deciso di usare colchicina per le possibili interferenze di questo farmaco con i meccanismi patogenetici implicati in COVID-19.
Colchicina, infatti, agisce bloccando l’attivazione dell’inflammasoma, impedendo l’eccessivo accumulo di cellule infiammatorie nei tessuti, e, secondo alcuni studi, ostacolando l’ingresso del virus nelle cellule”.
L’importanza di un’azione tempestiva sul territorio
“Sebbene siano necessari studi di dimensione maggiore per confermare questi risultati, la nostra esperienza solleva spunti di riflessione importanti in termini di strategie terapeutiche e di politiche sanitarie - conclude Moreno Tresoldi -.
Da un lato, considerato che si tratta di un farmaco diffuso in tutti i paesi del mondo, somministrato oralmente e a basso costo, colchicina rappresenta una molecola prontamente disponibile per il trattamento di COVID-19.
Dall’altro, siamo fortemente convinti che agire sul territorio sia fondamentale per intercettare precocemente la risposta infiammatoria scatenata da SARS-CoV-2, evitare la progressione in insufficienza respiratoria di quadri clinici a rischio, e ridurre l’affluenza di casi critici negli ospedali e nelle terapie intensive”.
 

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