è arrivata l'inflazione o no?

tontolina

Forumer storico
copio incollo da FB un'analisi interessante

Tony Cioli Puviani
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Preferiti · 29 m ·

L'INFLAZIONE SARA' DURATURA
Weekly Note for FreeFinance.biz
Sono orgogliosamente un trader di pancia, mi piace effettuare le mie scelte d’investimento ed orientare anche il mio trading in base a quello che percepisco, quello che leggo, e quindi sviluppo dei miei ragionamenti tentando di anticipare il mercato. Il trader di pancia è oggi una figura obsoleta, fuori dai tempi.
Ci sono tante narrazioni sulle tecniche di trading: algoritmi magici, software prodigiosi, logiche complesse che capisce solo chi le racconta, cicli mirabolanti.
Sinceramente credo che i mercati siano imprevedibili, quindi preferisco tentare di indovinare con le mie logiche obsolete piuttosto che fare delle ipotesi che lascerebbero la strada aperta a tutte le soluzioni e quindi inutili.
Negli ultimi tre mesi mi sono impegnato col Bund tedesco che ha perso qualche figura e credo che ne perderà ancora. Il tasso del decennale è oramai vicino allo zero, non rappresenta quindi più quell’occasione che poteva essere prima. Parlare d’inflazione oggi, dopo l’ultimo dato USA (+4,2%) è oramai scontato e quindi i mercati si sono adeguati. Quella che io potevo ritenere un’inefficienza sugli eccessivi rendimenti negativi del bund, adesso non c’è più!
L’etimologia di speculatore (dal latino speculator: osservatore, indagatore) chiarisce quello che deve essere il lavoro di un analista dei mercati finanziari, ma il termine latino “specula” ovvero vedetta è - a mio avviso – ancora più immediato.
Cerchiamo di capire quindi quale saranno i prossimi market mover dei mercati.
Il dibattito estivo che terrà banco tra gli operatori sarà ancora quello dell’inflazione. Adesso, che è stata ufficialmente constatata, il mercato appare indeciso perché contrastato da due idee: vi sono analisti convinti che l’inflazione sarà una fiammata temporanea, altri invece che l’inflazione sarà piuttosto lunga.
Personalmente ritengo di appartenere alla seconda schiera di analisti, quelli che sono più prudenti e che quindi pensano che gradatamente le banche centrali anticiperanno i loro piani di tapering. Le borse, quindi, entreranno in una fase di consolidamento e piccola correzione a dispetto di un’economia globale che andrà ancora meglio del previsto. Mantengo quindi l’idea di fondo di tutti i miei scritti precedenti.
Negli USA ci sono otto milioni di disoccupati in più rispetto a inizio 2020 e aziende che limitano la produzione perché non hanno abbastanza personale e hanno le scorte a zero.
Con l’esplosione della pandemia le politiche fiscali dei governi si sono fatte espansive ed anche in Germania tutti i partiti sono ormai d’accordo nell’aumentare stabilmente la spesa pubblica.
Una cosa, quindi, è dilatare la base monetaria tramite le note politiche di alleggerimento quantitativo intraprese nello scorso decennio, altra invece è stimolare direttamente l’economia reale grazie alla liquidità che viene trasferita direttamente alle persone tramite indennizzi, assegni di solidarietà e sussidi di disoccupazione: un aumento di domanda di beni e servizi a fronte di un’inferiore capacità produttiva si dovrà necessariamente riversare sui prezzi di molti beni di consumo.
Abbiamo visto questa settimana un ulteriore incremento di volatilità, un’Europa più forte (nuovo record storico del Dax e nuovi massimi relativi del Ftse Mib) rispetto gli USA.
La ritrovata forza del Gold, che torna vicino ai 1900, e la debolezza dollaro denotano che il timore dell’inflazione è presente.
In questi giorni ho comprato l’auto nuova nella convinzione di un imminente aumento dei prezzi.
Tempo di consegna: oltre quattro mesi!
 
Biden ha spinto l’inflazione ed è pronto ad affondare il dollaro
11:46 27.05.2021

Con l’arrivo di Joe Biden l’economia statunitense ha ricevuto altri 2.000 miliardi di dollari. Si tratta di un enorme pacchetto di incentivi, prevalentemente di natura sociale.
Tuttavia, questi ristori hanno avuto degli effetti collaterali: infatti, l’afflusso di nuovo denaro ha portato a un aumento dell’inflazione e della disoccupazione, il che a sua volta può generare un ulteriore aumento dei prezzi e un indebolimento della valuta americana.
Soldi a profusione
Durante la pandemia negli USA sono stati immesse nel mercato ingenti quantità di liquidità: le risorse anti-crisi si sono attestate a 9.000 miliardi di dollari. Questo denaro non garantito in alcun modo ha rapidamente tolto le briglie all’inflazione.
Tuttavia, nel mese di marzo il Congresso ha approvato l’American Rescue Plan, proposto dal presidente Biden, per un valore di 1.900 miliardi. Il piano è composto essenzialmente da ristori a favore della società: ristori diretti a beneficio dei cittadini, sussidi di disoccupazione fino a settembre, aiuti per l’alloggio, ulteriore finanziamento del programma SNAP per l’acquisto di prodotti alimentari, estensione degli sgravi fiscali, sussidi per l’acquisto di materiale scolastico, incentivi all’imprenditorialità. Circa 20 miliardi sono stati spesi per la campagna vaccinale e altri 50 per i tamponi.

Gli economisti in quel periodo hanno lanciato un segnale d’allarme: le nuove risorse immesse artificialmente nell’economia potrebbero non avere solo effetti positivi. Sarebbe infatti aumentati i prezzi per via dell’eccedenza di denaro non accompagnata da un aumento dei volumi di produzione.
A quale prezzo?
E la previsione degli economisti si è avverata. Ad aprile l’infezione è schizzata al 4,2% annuo, record assoluto dai tempi della crisi finanziaria del 2008. E l’indice di base dei prezzi al consumo, che non include i prodotti volatili come gli alimenti e le risorse energetiche, ha guadagnato il 3% in valore annuo, il che non accadeva dal gennaio del 1996.

È l’offerta di denaro a regolare l’inflazione. Se stampiamo denaro senza aumentare la produttività o il numero di merci e servizi, otteniamo un deprezzamento della valuta. Ma l’America sta confutando questa verità assoluta facendola passare per una banalità”, osserva Victor Davis Hanson, professore e storico militare americano, commentando la decisione del Congresso.
Il rischio inflazionistico rafforza anche la domanda al consumo in presenza di risparmi eccedentari elevati. Durante la pandemia i consumatori americani hanno accantonato 1.600 miliardi di dollari. La gente se ne stava a casa, non andava al bar o al ristorante, non viaggiava. Ora si sta ricominciando a spendere queste risorse.

C’è poi un altro problema: l’eccessiva pressione sul bilancio. Nel 2020 il deficit di bilancio si è attestato al 16,1% (ossia 3.100 miliardi di dollari): si tratta del valore massimo dal 1945 quando il governo stanziò ingenti risorse per far fronte alle operazioni militari su larga scala. Di conseguenza, sta crescendo anche l’onore debitorio.
Il debito statunitense si attesta a oltre 28.000 miliardi di dollari (ossia il 130% del PIL annuo del Paese). Grazie agli incentivi di Biden nel 2021 al debito accumulato si aggiungono altri 2.300 miliardi. E questo a fronte di un deficit da record di 3.100 miliardi.
“Ma il governo Biden è intenzionato a continuare su questa strada stanziando altri 2.000 miliardi per le infrastrutture e nuovi programmi di natura sociale”, sottolinea Hanson.
Surriscaldamento dell’economia
Alla luce di tutto ciò gli economisti Lawrence Summers e Olivier Blanchard in un’apposita ricerca hanno constatato che questi incentivi sono eccessivi e porteranno l’economia a “surriscaldarsi”.

V’è il rischio che si perda il controllo dell’inflazione e che la Fed si veda costretta a un giro di vite alla politica creditizia. Questo, a sua volta, causerebbe un ennesimo rallentamento dell’economia. L’esperienza dimostra che l’inflazione può benissimo sfuggire al controllo”, spiegano Summers e Blanchard.
Anche Hanson parla di rischi analoghi:
“È davvero necessario stampare nuova moneta aumentando così il debito pubblico? Ha senso mantenere i tassi di interesse prossimi allo zero ostacolando così l’aumento dell’occupazione, della produzione e del risparmio?
In passato comportamenti così rischiosi hanno provocato un aumento dell’inflazione a cui ha fatto seguito una terribile fase di stagnazione”.

Hanson osserva, inoltre, che negli “ultimi folli 100 giorni” (da quando è entrato in vigore il piano di Biden) sono schizzati alle stelle i prezzi di moltissimi prodotti: legname, derrate alimentari, benzina, automobili, alloggi. Tuttavia, i tassi continuano a rimanere attorno al 3% o addirittura sono inferiori.
Ad oggi la Fed non sta reagendo in alcun modo all’impennata dell’inflazione. Nel mese di marzo il presidente della Fed Jerome Powell ha dichiarato che non vede alcun problema del superare temporaneamente il valore target del 2%.
Bolla prossima a scoppiare
Tuttavia, sostiene Ray Dalio, fondatore del fondo di investimento Bridgewater Associates, la situazione è ben più pericolosa. Il pacchetto di incentivi e il programma di investimenti American Jobs Plan, immettendo denaro nell’economia, stanno creando una bolla. È necessario incrementare la produttività del lavoro, avverte l’esperto. E al momento questo è improbabile dato che a crescere non sono soltanto i prezzi, ma anche la disoccupazione.
La ragione risiede di nuovo negli incentivi. Secondo l’idea di Biden, la campagna vaccinale avrebbe dovuto contribuire ad incrementare l’occupazione. Ma la situazione è opposta: c’è molto da fare, ma manca la manodopera. La proroga dei sussidi federali di disoccupazione ha consentito a questi soggetti di rimanere a casa e di incassare gli assegni. E questo per almeno altri 4 mesi o più.
Secondo l’investitore il mercato azionario è già entrato in una fase di bolla e non per via dell’onere debitorio, ma per la politica condotta dalla Fed.

“Ci sono due tipologie di bolla. La prima è quella debitoria che si verifica quando bisogna pagare gli interessi, ma non vi sono fondi per farlo. In quel caso la bolla esplode”, spiega. “La seconda si viene a creare in presenza di un’eccedenza di denaro qualora la Fed non inasprisca la politica creditizia in maniera opportuna. In questo caso si sopportano perdite per via del deprezzamento della valuta”.
Secondo Dalio, gli USA sono più vicini alla seconda tipologia di bolla. Pertanto a tendere l’investitore ipotizza una forte svalutazione del dollaro.
 
Ultima modifica:
SPY FINANZA/ L’ultima vittoria della Cina sugli Usa
Pubblicazione: 20.05.2021 - Mauro Bottarelli
La Cina sembra tenere le leve dell’economia globale, a differenza degli Stati Uniti dove continua a vigere il Qe senza soluzione di continuità
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Xi Jinping con Joe Biden, allora vicepresidente degli Stati Uniti, nel 2015 (LaPresse)


Di fatto, Wall Street sta in piedi per auto-conservazione della Corporate America che utilizza parte dei profitti da Covid-rally per riacquistare propri titoli. Abbassa il flottante, tiene alte le valutazioni e dispensa dividendi e bonus.

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Scusate, chi è lo statalista dei due? Anzi, esageriamo: chi è il comunista da schema Ponzi strutturale? Ma non basta. Bitcoin è sceso per la prima volta da 14 settimane sotto quota 40.000 dollari, cominciando a far intravedere crepe di supporto. Il tutto mentre il dollaro sta vivendo una stagione di ultra-debolezza. Di cosa hanno parlato i giornali e i telegiornali in questi giorni? I tweets di Elon Musk contro la criptovaluta e il suo enorme dispendio energetico, facendo intuire che Tesla avrebbe potuto disfarsi delle sue detenzioni di Bitcoin. Sapete invece cosa rischia di mettere seriamente in difficoltà la valuta digitale e il suo status di bene rifugio alternativo? La decisione della Cina del 18 maggio di vietare la fornitura di servizi relativi a transazioni con criptovalute a istituzioni finanziarie e aziende di pagamento, mettendo sull’attenti in contemporanea i cittadini da investimenti nel comparto.

In base al bando, le compagnie interessate non possono offrire alcun tipo di operatività che coinvolga l’uso di valuta cripto, sia a livello di registrazione che di trading, clearing e settlement. Eco sui media? Praticamente zero. In compenso, l’America che si trastulla con le speculazioni di Elon Musk – senza che la Sec abbia nulla da dire al riguardo, alla faccia della supervisione di mercato e della lotta alla turbativa -, ha apparecchiato un’Ipo miliardaria e in pompa magna a Dogecoin, garantendole un market cap che allo scorso 18 aprile (data del collocamento) era di qualcosa come 11 miliardi di dollari. Da allora, continui pump’n’dump speculativi. Nel frattempo, Janet Yellen e Jerome Powell si limitano a sporadici attacchi proprio contro il carattere meramente speculativo delle criptovalute, lasciando intendere passi regolamentari che in realtà mai verranno intrapresi. Altrimenti, perché far quotare Dogecoin con quel can can mediatico?

Il tutto, a pochi giorni dal pagamento del riscatto per l’attacco hacker contro la Colonial Pipeline, corrisposto ufficialmente proprio in criptovalute non tracciabili (balla sesquipedale, quest’ultima). Strano. Ma ancora più strano il fatto che, dopo aver direttamente chiamato in causa la Russia per quel sabotaggio, pur ammettendo di non avere prove al riguardo, Joe Biden paia intenzionato a togliere le sanzioni contro le aziende partecipanti al consorzio Nord Stream 2 e i loro Ceo: ma come, Mosca ti ha appena messo ko la seconda rete di distribuzione del carburante a livello nazionale e tu, Presidente, sembri volerla premiare con l’attenuazione del bando sanzionatorio su un’infrastruttura energetica di primaria importanza nei rapporti – anche politici e diplomatici – con l’Ue? Quale dei due Paesi prende per i fondelli i propri cittadini e il residuo di libero mercato ancora esistente, alla luce dei fatti e non dell’ideologia o dei pregiudizi?


Ma attenzione, perché mentre la Fed continua a definire transitoria l’inflazione e prosegue con la sua politica di alluvione del mercato, tanto da essere costretta a incamerare reverse repo a colpi di centinaia di miliardi ogni notte da parte di decine di bidders, questi due grafici ci mostrano come la Cina abbia davvero dato vita a una sua versione di tapering delle misure eccezionali messe in campo contro la pandemia. E ci devono far riflettere, perché non solo l’impulso creditizio ha appena virato in negativo, impiegando sette mesi di ciclo dal suo massimo contro i 9-10 storicamente registrati, ma il tasso di crescita annuale della massa monetaria M2 del Dragone è appena crollato all’8,1%, ben al di sotto del 9,2% atteso dagli analisti e poco al di sopra del minimo storico record dell’8,0%.


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E cosa significa?
Che per evitare l’ulteriore crescita del tasso di concessione di prestiti, esplosa nei mesi post-pandemici e già riverberatasi con bolle sugli assets azionari, la Cina chiude il rubinetto in maniera drastica, di fatto anticipando quello che sarà il trend di austerity creditizia da qui a fine anno. E se da un lato questa dinamica potrebbe portare a uno sgonfiamento delle valutazioni delle commodities tale da far rientrare nei ranghi l’attuale fiammata inflattiva già nei prossimi sei mesi, dall’altro rimane la certezza storica che virtualmente ogni assets al mondo è direttamente interessato e impattato dalla dinamica di credito cinese. Tradotto, il mondo rischia di trovarsi a dover affrontare un netto reverse della situazione di outlook da qui al prossimo anno: mentre si attrezza – già con lentezza pachidermica – ad affrontare uno scenario inflattivo, potrebbe invece ritrovarsi in un contesto simile a quello del 2011. Ovvero, un potenziale rischio di deflazione indotta dall’intervento di contrazione della Pboc, tale da prospettare uno scenario di depressione economica. Proprio mentre si dispiegavano le vele per prendere al meglio tutto il vento della ripresa post-pandemica dopata dai vari Qe.

Al netto di questa dinamica, innegabile, chi detiene il banco dell’economia globale, già oggi?

La tipografia Lo Turco con sede a Washington o chi gestisce il sistema idraulico reale della finanza e fornisce liquidità all’economia e al commercio, oltre che ai mercati azionari?
Vi pare davvero tanto intelligente, quindi, accodarsi ai diktat statunitensi e approcciare a Pechino come tanti maccartisti fuori tempo massimo?
Forse Angela Merkel, scegliendo di mettere in corsia preferenziale l’accordo commerciale Ue-Cina lo scorso dicembre, ci aveva visto lungo. Ancora una volta. Ma si sa, per qualcuno sconta il peccato originale di essere tedesca. Per di più dell’Est, quindi ideologicamente affine ai cinesi. Quantomeno nel Dna.

Non la pensa così Mario Draghi, il quale il 17 maggio ha intrattenuto una conversazione telefonica con il Primo ministro cinese, Li Keqiang, sottolineando in particolare l’esigenza di rafforzare e rendere più equi i rapporti economico-commerciali bilaterali. «La Cina è pronta a lavorare con l’Italia per promuovere la cooperazione nei campi del commercio, degli investimenti, dell’energia e dei cambiamenti climatici», ha dichiarato il Premier cinese. Mi raccomando, ora tutti a strepitare per i diritti degli uiguri o la democrazia a Hong Kong sotto l’ambasciata di Pechino. Come da indicazione del Dipartimento di Stato.
 
La bomba a orologeria ricordata da Cina e Deutsche Bank
Pubblicazione: 10.06.2021 - Mauro Bottarelli
Un report di Deutsche Bank e la decisione cinese di imporre controlli su alcuni prezzi alimentari ricordano il danno, via inflazione, del Qe delle Banche centrali
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Jerome Powell, Presidente della Fed (Lapresse)
Tranquilli, il Qe perenne non crea inflazione. È soltanto un’impressione. Transitoria, oltretutto.
D’altronde, cosa volete che possano determinare qualche triliardo di dollari in massa monetaria M2 in libera uscita ai trend dei prezzi? Nulla.
Chi ha studiato e insegnato economia fino a oggi, d’altronde, era un cretino. Mica ci aveva pensato alla geniale intuizione – oltretutto, finalizzata proprio alla lotta contro le diseguglianze – di convogliare quel flusso di liquidità nei mercati azionari, affinché garantissero profitti miliardari alle corporations senza lo sgradevole effetto collaterale di un’esondazione nell’economia reale che facesse impennare il costo di pane e carne. Meno male che adesso ci sono i monetaristi della MMT, gli stregoni delle Banche centrali e gli autarchici fuori tempo massimo.

Sarà in nome del new normal, quindi, che da ieri la Cina ha deciso di imporre una politica di controllo statale dei prezzi di grano, mais e carne di maiale, al fine di mantenerli stabili rispetto al potere d’acquisto delle famiglie.
Eh già, Pechino non si fida dei novelli Keynes e dopo una lettura dell’indice dei prezzi alla produzione, PPI, al +9,0% ha deciso di intervenire. Forse perché, oltre ad aver battuto al rialzo anche le attese già poco ottimistiche del +8,5%, il dato finale si è tradotto nel più alto dal settembre 2008, ovvero da un momento della storia che dietro l’angolo preservava una sorpresa chiamata Lehman Brothers? O forse perché lo spread fra CPI e PPI è arrivato al massimo addirittura dal 1993, come mostra questo grafico?
https://www.ilsussidiario.net/news/...al-bilaterale-italia-usa-che-succede/2183031/
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L’ho detto in tempi non sospetti e lo ripeto oggi: per chi ha spacciato come risolutiva al mondo la ricetta – degna di un venditore di pozioni magiche da spettacolo itinerante nel Far West – dello stampare moneta come rimedio a tutte le sciagure, servirebbe una Norimberga. Perché i danni che stiamo per pagare saranno inestimabili. E attenzione, perché esattamente come per l’impulso creditizio, la Cina solitamente muove le sue dinamiche macro con 7-9 mesi di anticipo sull’Occidente: pensavamo che il 2022 sarebbe stato l’anno della grande ripresa post-pandemica?
Bene, prepariamoci al rischio tutt’altro che peregrino dell’arrivo della stagflazione.

Per carità, i geni attualmente al timone dell’economia ci diranno che l’ebollizione dei prezzi si combatte con i tassi addirittura in negativo e con un aumento degli acquisti obbligazionari, tanto per far contenta Wall Street. Magari, spingeranno addirittura Fed e Bce a seguire l’esempio giapponese, acquistando Etf e singoli titoli azionari.
Ormai vale tutto, il vaso di Pandora è stato scoperchiato.
Ma cari lettori, vi invito a riflettere: noi non siamo la Cina.
Formalmente, viviamo in una democrazia.
E se il mercato, ipocrita com’è, prezza positivamente un intervento da governo autoritario come quello di Pechino, tanto poi si pulisce la coscienza appendendo in salotto la bandiera tibetana, se per caso un’economia avanzata occidentale dovesse soltanto ventilare l’ipotesi di controllo su prezzi, allacciate le cinture. Sarebbe la sconfessione – nei fatti e non a parole – della presunta transitorietà dell’inflazione, mantra finora bevuto da indici e rendimenti per quieto vivere e ottimismo auto-alimentante. E, soprattutto, sarebbe la conferma più drammatica del fatto che il Qe non è un pasto gratis, né un medicinale senza controindicazioni: di fatto, un disastro.

Sarà per questo che Deutsche Bank ha visto i suoi migliori economisti – David Folkerts-Landau, Peter Hooper e Jim Reid – rompere gli indugi e scrivere un report dal titolo
Inflation: The defining macro story of this decade?
La tesi è tanto semplice, quanto allarmante: l’attuale sfida posta dalla dinamica globale dei prezzi in contesto espansionistico strutturale è la maggiore degli ultimi 40 anni, per il semplice motivo che si è deciso di credere che inflazione e sostenibilità del debito non solo fossero tematiche scollegate fra loro, ma che non rappresentassero proprio un problema.
La prima di fatto era scomparsa, il secondo un falso mito.
Il debito pubblico misura, di fatto, il grado di ricchezza di un Paese: ricordate questa idiozia, ci fu un periodo non troppo lontano in cui era di gran moda. Anche su questo sito, purtroppo. Non esistevano problemi, tutto si risolveva stampando e acquistando e la risposta geniale alle disfunzionalità croniche di un indebitamento record come quello italiano era l’aumento delle emissioni dello stesso, sfruttando il doping della Bce che schiacciava artificialmente quasi a zero il premio di rischio corrisposto dal Tesoro. Era un mondo fantastico. Peccato fosse frutto di un’allucinazione collettiva. Che oggi è terminata, bruscamente.
Ecco la conclusione dei tre economisti: «Potrebbe volerci un po’ di più, fino al 2023 forse. Ma alla fine l’inflazione strutturale emergerà. E anche se la pazienza che caratterizzerà nel frattempo l’operato espansionista della Banche centrali potrebbe risultare formalmente ammirabile, stante la finalità sottesa di spostare le priorità della Fed verso tematiche di scopo sociale, negare i livelli preoccupanti dell’inflazione a livello globale lascerà le economie del mondo sedute su una bomba a orologeria».
Ora, preparatevi: qualche genio dirà che sono i soliti tedeschi apocalittici, ossessionati dal fantasma di Weimar. Quante volte, d’altronde, abbiamo sentito quest’altra idiozia? Ma stavolta la questione si fa seria.

Guardate il livello di distorsione delle dinamiche occupazionali in atto negli Usa, a causa dell’abuso di programmi federali di sostegno che sono – de facto – i prodromi dell’helicopter money, come mostra il grafico e la sua sconfortante dinamica da eccesso di offerta?

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Guardate cosa sta accadendo con le criptovalute e i loro alti e bassi, tutti finalizzati a un effetto flip-flop che distragga i mercati da criticità vere come quelle denunciate da Deutsche Bank, nell’attesa di una nuova emergenza da stamperia post-Covid.
Guardate la Borsa, capace globalmente di sfondare un record al giorno, mentre le nazioni sprofondano nel debito sistemico. Ormai è tutto scollegato, tutto riconducibile a distorsioni e manipolazioni. Degno epilogo di un mondo che pensa di risolvere tutto schiacciando un tasto e stampando soldi dal nulla. Lo ripeto: Norimberga pubblica e impietosa, unica speranza prima che quella che appare già oggi la sfida macroeconomica più grande dal periodo Reagan-Volcker degli anni Ottanta si tramuti in un altro 1929 reloaded.
Come accadde nel 2008, quando tutti pensavano che cartolarizzare immondizia immobiliare mischiando i rating tramutasse per magia i bond ottenuti in assets AAA. E, peggio ancora, che per rimediare a quel disastro bastasse stampare e comprare. Ovvero, aumentare il debito.

Stavolta, se qualcosa dovesse sfuggire dal controllo, preparatevi: sarà molto ma molto peggio del 2008. Chi dovrete ringraziare, lo sapete. Fin da ora.
Ci sono decine e decine di illuminanti articoli e interventi al riguardo, facilmente rintracciabili con un semplice e comune motore di ricerca. Ma penso che, da oggi in poi, certe spacconerie perderanno di intensità e frequenza. Alcuni dei principali fautori di quel periodo di cialtronaggine scellerata – più svelti e furbi degli altri nel fiutare l’aria, forse perché abituati a questa pratica per riuscire a restare a galla – non a caso hanno smesso da tempo di parlare di economia, formalmente loro materia di formazione e professione. E si sono gettati anima e corpo sulla virologia. O sulla politica estera. Penso (e spero) che in molti li seguiranno in questa conveniente conversione forzata.

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Ora è la Fed che spinge giù (l'euro/dollaro)
Si apre una nuova ipotesi ribassista sull'euro/dollaro dopo quella della settimana scorsa.
Questa volta però è la banca centrale americana a dare il via al movimento. Target a 1,1620/1,17 dollari

Milano Finanza Intelligence Unit
di Emerick de Narda
Milano Finanza - Numero 120 pag. 57 del 19/06/2021

Voilà, dopo le parole del governatore della Fed Jerome Powell, gli ingredienti per un potenziale short sull’euro/dollaro sono serviti su un piatto d’argento. Sì, perché da una parte c’è la Bce che tira verso il basso e dall’altra, c’è la Fed che spinge, ma sempre verso il basso. La parola chiave di questa situazione è decoupling temporale, inteso come disallineamento della fase economica europea rispetto a quella degli Stati Uniti. Gli americani sono più avanti, loro hanno già l’evidenza del fatto che dovranno rialzare i tassi per gestire l’inflazione e la domanda in realtà non è se, ma quando sarà necessario aumentare il costo del denaro? Dal l’iniziale 2024, si è già passati al 2023, anche tutti sanno che di questo passo ritmo già l’anno prossimo potrebbe esserci bisogno di rialzare i tassi.

I prezzi alla produzione nel mese di maggio sono cresciuti dello 0,8% su mese, rispetto al +0,6% del mese precedente e delle attese degli analisti.
Su base annua ancora peggio,
i prezzi hanno registrato un incremento del 6,6% sopra il consensus (+6,2%) ed in rafforzamento rispetto al +6,3% del mese precedente. L’altro campanello di allarme è arrivato dai prezzi al consumo «core», cioè quello depurato dalla componente dei prezzi dei beni alimentari ed energetici, che è cresciuto dello 0,7%, contro attese per un +0,5%, dopo il +0,9% del mese precedente. Insomma l’inflazione si sta muovendo a tenaglia, sia sui produttori che sui consumatori.

In Europa la musica è diversa, ma solo per ora.
I dati di maggio hanno mostrato un’inflazione più contenuta in termini assoluti, ma con variazioni percentuali mensili e annuali più significative rispetto a quelle statunitensi.
Quindi anche per la Bce è solo questione di tempo,

e prima o poi arriverà il momento di un principio di tapering.

Nel frattempo, perché non approfittare nuovamente del temporaneo disallineamento per imbastire un’altra posizione ribassista sull’euro/dollaro.
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La scorsa settimana, dopo le parole pronunciate dalla presidente Bce Lagarde sull’allentamento monetario ancora flessibile nel terzo trimestre, è partito un primo movimento ribassista sull’euro/dollaro dovuto all’indebolimento della moneta unica che ha portato al target di 1,19 dollari.
Per le prossime sedute, grazie questa volta al rafforzamento del dollaro impresso dalle Fed, ci potrebbe essere il secondo giro ribassista. Questa volta il target si trova a 1,17 dollari, in prossimità del supporto statico individuato grazie al minimo relativo del 31 marzo scorso, con possibile estensione fino a 1,1620 dollari dov’è c’è un doppio minimo registrato a settembre e novembre 2020. L’ipotesi ribassista è avvalorata anche dalla rottura ribassista della trend line che ha sostenuto il rialzo del cambio dai minimi del marzo 2020. L’operazione verrebbe annullata con un ritorno delle quotazioni sopra quota 1,20 dollari
 

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