fine del super-ciclo della commodities, le valute degli emergenti in caduta libera

tontolina

Forumer storico
Il risiko e gli unicorni delle Banche centrali ci schianteranno. Ma Kuroda ride

Di Mauro Bottarelli , il 28 agosto 2015 - 10 commenti



Sulle Borse mondiali splende il sole da quando il capo della Fed di New York ha deciso di levare la maschera e dire chiaro e tondo che a settembre l’unica cosa che si alzerà saranno i bicchieri per brindare allo scampato pericolo di un ritorno al minimo sindacale di normalità monetaria.

Peccato però che proprio ieri un qualcosa sembrava poter riportare l’argomento sul tavolo, vista la revisione del Pil Usa del secondo trimestre, salito dal 2,3% al 3,7%, superando il consensus medio di Wall Street a 3,2%!

Accidenti, con un dato così come si fa a non alzare i tassi tra venti giorni? Tranquilli, quella revisione è frutto solo di questo.

Ovvero, della crescita ulteriore delle scorte di magazzino, salite dai 124 miliardi della prima stima agli attuali 136,2 miliardi, un record assoluto! Che porta però con sé un effetto collaterale, ovvero il fatto che la prossima liquidazione di quelle scorte sarà addirittura epica. Anzi, da recessione. E se questo non bastasse,
ecco che ci corre incontro la Fed di Kansas City, visto che l’ultima volta che il suo sondaggio è stato così basso, gli Usa erano in recessione. E’ l’ottavo mese di fila che l’indice disattende le previsioni degli analisti, passando a -9 dal .7 di luglio: tra le sotto-componenti peggiori, roba da poco come nuovi ordinativi, prezzi ricevuti e shipment.

Quindi, tranquilli, non si alza, nonostante le revisioni che servono solo a tenere in voga la narrativa mediatica della grande ripresa Usa. E siccome le parole del buon Dudley hanno riportato sorrisi e buonumore, il prode samurai Kuroda ha voluto mettere il carico da novanta con un saggio della sua irresistibile simpatia nipponica. Eccolo: “Non sono preoccupato da una guerra valutaria, non c’è alcuna guerra valutaria in corso”. Questa tabella lo conferma.

E ancora, “Alcuni sul mercato sono troppo pessimisti rispetto all’economia cinese, mentre va ricordato che le Banche centrali non hanno come obiettivo i tassi di cambio”. Nemmeno Woody Allen, ragazzi! E poi, “Capisco le preoccupazioni espresse da alcune economie emergenti”. Un concetto abbastanza chiaro, quest’ultimo, basti dare un’occhiata a questi due grafici


per rendersi conto che, sì, è una situazione talmente brutta che anche uno come Kuroda può capirla.
Ma ecco la perla: “Non ci sono piani per ulteriore stimolo”. Boom!

Questo grafico ci mostra come il mercato non abbia preso benissimo la notizia. D’altronde, in un mondo che si nutre di debito, quando qualcuno avanza anche soltanto l’ipotesi di una riduzione del metadone monetario di Stato, parte il panico.
Panico, o almeno preoccupazione, che sembrerebbe confermato da questo grafico,

in base al quale scopriamo che il margin debt a Shanghai è sceso al minimo da sette mesi, pur restando sobriamente a quota +133% su base annua. E anche il fatto che nella terra dei bond ci sia tensione, non è un bel segnale, visto che ieri la Xiamen Haicang Investment ha cancellato un’emissione obbligazionaria da 1 miliardo di yuan “a causa della volatilità del mercato”. Ma tranquilli, c’è sempre il bicchiere mezzo pieno da guardare. In questo caso, una piscina più che un bicchiere, visto che la la Cina ieri ha fissato a 6,4085 il tasso di cambio sul dollaro

e prontamente ha anche iniettato 150 miliardi di yuan via repo a 7 giorni sul mercato, il livello maggiore dal novembre 2012.

Ecco spiegato il +5% di Shanghai ieri, interamente ottenuto negli ultimi 45 minuti di contrattazioni grazie agli acquisti di Stato, il quale non vuole rovinare la parata militare del 3 settembre prossimo con altri crolli azionari (quello di ieri sarebbe stato il quinto di fila)!
Ma c’è dell’altro e di molto interessante. Ovvero, che come pareva scontato la Cina ha venduto Treasuries Usa per racimolare i dollari necessari a supportare lo yuan nel mezzo della tempesta svalutativa. E lo ha fatto sia vendendo direttamente, che tramite i suoi proxy in Belgio e Svizzera e ha informato le autorità Usa della propria decisione, senza però svelare l’ammontare della vendita. Stando ai dati del Tesoro Usa,

si stima che la Cina controlli 1,48 trilioni di debito governativo statunitense, inclusi i 200 miliardi detenuti in Belgio attraverso Euroclear. Ma Societe Generale ieri ha azzardato una cifra, ovvero che nelle ultime due settimane Pechino avrebbe venduto assets di riserva per almeno 106 miliardi di dollari, stima basata sulla liquidità aggiuntiva che deriverà dal taglio dei tassi e dei requisiti di riserva decisi martedì scorso.
Ora, questo grafico

ci mostra in prospettiva come significherebbe per gli Usa una liquidazione delle riserve monetarie estere. Ovvero, se i Paesi emergenti e sviluppati, i quali detengono circa 5491 miliardi di dollari in riserve, riducessero lo stesse di un 10% annuo, questa cifra sarebbe pari al 3,07% del Pil Usa e porterebbe il rendimento del Treasury decennale a salire di qualcosa come 108 punti base! Insomma, per ogni 500 miliardi di riserve cinesi liquidazione c’è un corrispettivo da pagare per gli Usa che si sostanzia in potenziali 108 punti base sulla carta a 10 anni. E il problema è che a causa della fine del super-ciclo della commodities, le valute degli emergenti sono in caduta libera (ma non ditelo a Kuroda, si preoccupa altrimenti) e quindi non solo Pechino è in via di liquidazione di assets Usa. Sarà per questo che il buon Dudley mercoledì ha detto chiaro e tondo che la Fed a settembre non alzerà i tassi e si “spera” di poterlo fare entro l’anno?
Ovvio, perché se si fossero alzati i tassi, si sarebbe posta ulteriore pressione sui mercati emergenti, attivando ulteriori liquidazioni di bond Usa che avrebbero portato come conseguenza l’aumento dei rendimenti. E, quindi, il quasi certo cambio di politica da parte della Fed, cioé maggiore stimolo e magari il QE4. Vuoi vedere che l’unico modo che ha la Banca centrale statunitense di evitare liquidazioni di massa del proprio debito, con la sgradevole conseguenza della distruzione del mercato immobiliare interno, è proprio dar vita al quarto ciclo di “allentamento quantitativo”? Tu guarda a volte le combinazioni!
Anche perché, stando a misurazioni non ufficiali, la situazione cinese sarebbe ben peggiore di come sembra e, quindi, servirà un driver per la ripresa una volta che Pechino ammetterà di essere ufficialmente in stallo e a rischio di rispedire il mondo intero in recessione conclamata. Questo grafico su elaborazione di dati della Evercore ISI parla chiaro

e ci dice che alla faccia dei dati ufficiali del 7%, il Pil cinese è debole. Molto debole, visto che stando al misuratore Synthetic Growth Index (SGI) la crescita cinese a luglio su base annua era del -1,1%! Ovvero, in contrazione netta. Di più, la sotto-componente “Equipaggiamento” alla voce “Impianti ed equipaggiamento” è molto debole, sintomo di grande fatica per le imprese e segnalatrice della necessità di ulteriori passi a livello fiscale e monetario. In parole povere, siamo nei guai. Ma Kuroda ride.
Sono Mauro Bottarelli,
 
…E in questo bel contesto generale, ecco che un altro effetto collaterale delle politiche da mal-investment delle Banche centrali sta palesandosi sul mercato, ovvero il fatto che l’economia mondiale stia per grippare in uno stato di saturazione globale da sovra-offerta. Un qualcosa che nessuno, forse, si attendeva che accadesse ma che ora è dimostrato da questo grafico,

il quale ci mostra come i trilioni iniettati dagli Stati non hanno suscitato l’effetto shock di defibrillazione per la domanda e il commercio globale ma hanno solo aumentato l’offerta, in un contesto di rallentamento, non ultimo cinese. Ed ecco che sul finire della scorsa settimana, l’International Grains Council ha comunicato che lo stock globale di cereali quest’anno toccherà il livello più alto da 29 anni a questa parte, 447 milioni di tonnellate metriche! Ed ecco che i futures di grano e frumento al Chicago Board of Trade stanno crollando rispettivamente del 6,2% e 17% e si preparano al terzo anno di perdite di fila, dopo la produzione record dello scorso anno, 720 milioni di tonnellate. La sola Francia, principale produttore di grano dell’Ue, nel mese di agosto ha prodotto 41 milioni di tonnellate, più dell’outlook da 40,4 preparato dal ministero dell’Agricoltura d’Oltralpe..
Siamo nel mezzo di una recessione globale dovuta sostanzialmente da 3 fattori:
Eccesso di offerta di moltissimi beni e servizi
Deflazione tecnologica dovuta ad un passaggio epocale da un economia manifatturiera ad un economia basata sui servizi, servizi che riducono (efficientano) la domanda di beni manufatti.
Squilibri globali nei flussi di capitali, che escono da alcune economie chiave che ne hanno bisogno (paesi emergenti) e vanno in paesi che NON ne hanno bisogno (Svizzera ad esempio, paese che sta scoppiando di cash)
La Deflazione Tecnologica è un fatto storico ed epocale contro il quale i governi al massimo possono cercare di porre dei palliativi, è come una nuova rivoluzione industriale alla quale ci si deve adattare.
Fatta la tara a questo fattore. Rimane l’elefante nella stanza.
Ovvero il gigantesco eccesso di offerta di alcuni beni e servizi.
La parola chiave è alcuni.
Non tutti i beni e i servizi sono in deflazione, lo sono quelli che hanno ricevuto un eccesso di investimenti pompato dalle banche centrali attraverso due effetti perversi:
Eccesso di credito e liquidità.
Distruzione del Prezzo come segnale di mercato
Il punto centrale per me è il secondo.
Il motivo fondamentale per il quale esiste un eccesso di offerta di petrolio, granaglie, rame, ferro, immobili (attenzione al Canada sta vivendo il suo Lehman Moment) etc. è stato e rimane la distruzione del fattore prezzo come segnale di mercato per prendere decisioni sugli investimenti.
Oggi sappiamo, solo per fare l’esempio più famoso, che il prezzo del petrolio a 80-110$ è stato il frutto avvelenato di un pompaggio finanziario sul mercato dei futures. Moltissimi operatori di mercato hanno chiesto soldi al mercato e alle banche (si quelle in cui ci si tengono i soldi nel conto corrente…. avete presente?) perinvestire triliardi di dollari nel settore oil e gas. Sono nate nuove tecnologie di estrazione e di prospezione, (a proposito il successo di ENI è figlio di questa filiera, la domanda che dovremmo farci e se quel gas sarà venduto ad un prezzo adeguato ai costi).
Sono nate centinaia di compagnie piccole e medie che hanno fatto Business plan su un petrolio almeno a 65$ (mi ricordo gli insulti,dai soliti poveracci picchisti, che ha preso anche il sottoscritto quando ipotizzava la rottura al ribasso di quella soglia).
Quello che è peggio è che le banche e il mercato azionario hanno creduto a quei Business plan.
Poi crac. Petrolio sotto 40$ ora sotto ai 50$ e fallimenti a catene e “problemucci” per le banche (sempre quelle in cui ci si mette il conto corrente, per dire nel caso si pensi che la cosa non riguardi il cittadino comune).
Ma il frutto avvelenato delle Banche Centrali, ovvero la distruzione del prezzo come segnale di mercato, porta con se altre conseguenze nefaste.
La cattiva allocazione dei capitali non significa SOLO che troppi soldi sono andati in un settore. Significa ANCHE che troppe poche risorse sono andate in altri settori magari meno maturi e dalla redditività non ancora evidente.
La crisi economica globale, che si sta trasformando nella più grande crisi finanziaria di sistema della storia dell’umanità è stata genrata dal maledetto calcio al barattolo che i pianificatori centrali, politici eletti e banchieri non eletti hanno dato dal 2008 in poi.
Questa volta è diverso, è molto peggio, è globale, è sistemico e impone un cambio di paradigma.
Siate consapevoli, siate preparati.
p.s. lo stadio finale sarà la distruzione della fiducia nella moneta fiat, non si sfugge da questo destino, tenetelo presente.


Deflazione Tecnologica Su Steroidi Centrali - Rischio Calcolato | Rischio Calcolato
 
Grosso guaio al China Market (e non solo)

Scritto il 31 agosto 2015 alle 11:11 da Danilo DT

Nei post precedenti, ed in particolar modo in questo, ho segnalato l’importante legame intermarket esistente tra le materie prime, le valute emergenti e borse degli stessi emerging markets.
Una cosa che ho più volte sottolineato è la seguente: i paesi emergenti sono i principali produttori di molte materie prime, ma sono anche tra i più importanti consumatori delle stesse. Diventa quindi abbastanza semplice poter dire che se gli emergenti tracollano, allora i consumi delle commodity (ed i relativi prezzi) non potranno che scendere ulteriormente.
Ma in particolar modo è interessante guardare alla Cina, un mercato che rappresenta la SECONDA potenza economica globale dopo gli USA (e se NON consideriamo l’Unione Europea come entità unica) che in questi giorni ha vissuto momenti di grande difficoltà, ma anche qualche sporadico rimbalzo.
In massima sintesi eccovi un grafico che va a sintetizzare la follia di queste sedute di borsa a Shanghai con tanto di spiegazione delle varie fasi di mercato.

La follia cinese però non lascia immune il resto dell’area emergente asiatica in primis (Giappone compreso) ma anche i paesi core in un secondo tempo. Solo che questo fattore il mercato, al momento, lo sta “sottovalutando”.
Credete veramente che la Cina non vada a “cambiare” il quadro di mercato? Intanto guardatevi questo altro grafico. Illustra i consumi cinesi delle varie materie prime.
Credo non occorrano grandi commenti per poter di re che la Cina influenzerà eccome la crescita economica globale. E’ solo una questione di tempo e poi anche chi cerca di portare “acqua al suo mulino” non potrà fare a meno di ammettere questa verità.

Volete avere la conferma definitiva che tra le materie prime e crescita globale c’è un legame (intermarket) forte? Prendiamo quella che è la commodity più seguite per tastare il polso alla crescita economica globale, e che la Cina consuma per il 48% dicasi 48% della produzione annua: Dr. Copper, ovvero il RAME.
Andiamo a confrontare quindi la variazione del prezzo del rame con la variazione del tasso di crescita globale. Trovate delle corrispondenze? Occorre dire altro?
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STAY TUNED!
Danilo DT

 
La deflazione

[FONT=&quot]La deflazione è all'opera (II Parte)[/FONT][FONT=&quot][/FONT]
[FONT=&quot]di Charlie Minter - 24/08/2015[/FONT][FONT=&quot]

[/FONT]Per quanto concerne la deflazione, le materie prime si sono rivelate “il canarino nella miniera”.

Ricordate quando ne parlammo per la prima volta, nel 1999, quando nessuna aveva idea di cosa fosse la deflazione, e ci chiedeva se mai volessimo parlare di “inflazione”?

adesso quella preoccupazione risulta condivisa, con tutte le commodity che precipitano all’unisono.



Anche soltanto da quando l’Arabia Saudita ha annunciato lo scorso autunno che non avrebbe tagliato la produzione di petrolio per sostenerne le quotazioni, il prezzo del greggio è crollato.

Il concomitante rallentamento in Cina ha esacerbato questo ribasso, non solo per il petrolio ma anche per altre materie prime: zinco, stagno, rame, nickel, alluminio, metalli preziosi e diverse altri metalli stanno sfondando i supporti che da anni reggevano.

Al momento il CRB Raw Industrial Spot Index rappresenta egregiamente l’andamento di questi metalli come di alcune materie prime ad uso industriale. Da quando siamo partiti, mettendo in guardia circa la deflazione, il CRB ha sperimentato alti e bassi, con la Fed che ha iniettato massicce dosi di liquidità nel tentativo di evitare il peggio, mentre il debito veniva ridotto. Questo indice ha toccato un massimo nel 1998, quando la bolla della new economy doveva ancora esplodere, e scese fino al 2002. A quel punto intervenne la Fed, che abbassò i tassi all’1% nel 2003, lasciandoli lì per un anno. Ciò lanciò la bolla del mercato immobiliare, con Greenspan che incoraggiava banche e società finanziarie a concedere mutui subprime, benedicendo il rialzo delle quotazioni delle case. Il picco del mercato immobiliare nel 2010 coincise con il picco del CRB, che scese da 610 agli attuali 440 punti; ma la mia sensazione è che il calo continuerà fino al minimo del 2009 a 310 punti, se non più in basso.



Un altro aspetto che ha suggerito lo scenario deflazionistico è la velocità della moneta, calcolata come rapporto fra il reddito delle famiglie e M2, in calo dal 2000 in poi. Il dato si attestava a 180 volte 15 anni fa, è sceso a 159 nel 2003, per risalire a 168 nel 2007, prima di precipitare di nuovo a 144 nel 2009. Da allora è rimbalzato per un anno, prima di scivolare oggi a 127. La velocità della moneta misura il numero di volte che il denaro circola nell’economia per finanziare l’acquisto di beni e servizi. Ci aspettiamo che questo dato continui a calare, dal momento che famiglie ed imprese risultano più riluttanti a spendere, di quanto abbiano fatto nel passato.
Siamo sorpresi dalla tenuta palesata fino ad ora dal mercato azionario, malgrado la deflazione persistente, tuttavia siamo dell’avviso che il corrente trading range sarà sfondato verso il basso.
 
La deflazione finalmente fa la sua comparsa (I Parte)
di Charlie Minter - 07/09/2015
http://ww2.smarttrading.it/default.asp?idContenuto=7612


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Abbiamo concluso il precedente intervento, dedicato alla deflazione, descrivendo i livelli di supporto e di resistenza del mercato, e concludendo che la borsa abbatterà presto i supporti. Siamo sempre dell’idea che vi siano consistenti margini verso il basso. In questo intervento cercheremo di spiegare perché la deflazione ci accompagnerà per anni, e sarà un’esperienza mai vissuta dalle correnti generazioni. Questo perché le più importanti economie al mondo sono gravate dal debito, non diversamente da quanto si manifesta negli Stati Uniti.
Il motivo principale per cui crediamo che il mercato scivolerà, è perché la deflazione ha finalmente raggiunto tutto il pianeta, e l’unico tassello mancante al nostro quadro era un ribasso consistente degli indici azionari.

Per anni, siamo stati come intrappolati in un ciclo che definiremmo delle “svalutazioni competitive”: molti dei nostri partner commerciali stanno cercando di svalutare le rispettive divise onde esportare la propria deflazione.
La Cina si è aggiunta a questa tendenza, svalutando di recente la moneta del 4%, e Jack Lew ha dichiarato di recente che la Cina risponderà per la scarsa trasparenza con cui manipolano il cambio. Questo, dopo aver agganciato il renmimbi al dollaro per anni.

Siamo assolutamente sconcertati nel rilevare come il mercato finora non sia crollato, almeno fino ad ora. Il mercato di solito sconta tutti i problemi sul tavolo. Il collasso delle materie prime non è altro che “il canarino nella miniera”, che fornisce indicazioni anticipatrici circa cosa aspettarsi nel futuro: default del debito o collasso del sistema, oltre alla chiusura degli stabilimenti.

Alla fine lo S&P ha mollato, sfondando verso il basso il trading range: sia quello degli ultimi otto mesi, sia la linea di tendenza che congiungeva tutti i minimi dal 2011. Pensiamo che continuerà in questa direzione, sfondando anche il minimo dello scorso ottobre a 1820 punti, procedendo fino a 1500 punti: ad un 30% dai massimi.
Un altro motivo per cui crediamo che il minimo di quasi un anno fa non reggerà, è dovuto al fatto che quando lo S&P ha sfondato, lunedì 24 agosto scorso, il future è crollato fino a 1830 punti, mentre il cash è sceso “soltanto” fino a 1867 punti.
Dopo questi crolli, sospettiamo fortemente che il mercato rimbalzerà per risucchiare quanti più investitori possibile, indotti a credere che il ribasso sarà stato soltanto un incidente alimentato dai robot dell’HFT. Sospettiamo che lo S&P non salirà verso il vecchio supporto ora resistenza a 2040 punti. E nel frattempo, stiamo vivendo il trimestre peggiore dal terzo quarto del 2011.


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MACROECONOMIA e ORO: a caccia dei nuovi minimi ma la storia non si ripete

Scritto il 8 settembre 2015 alle 09:10 da Roy Reale

Se guardiamo al quadro di mercato, è evidente una debolezza strutturale di tutte le commodity. E questa debolezza colpisce anche l’oro, che anche per questioni di tasso inflazione non gode di grandi favori. Ma facciamo attenzione a basarci solo sul passato… [Guest Post]

Uno dei compiti dell’analista finanziario è quello di ricercare le tendenze di fondo che muovono gli andamenti dei mercati. Per farlo si avvale dello studio dei ricorsi storici, ciclici e statistici, cercando quindi di anticipare i trend di lungo periodo.
Supponiamo di trovarci oggi nel lontano 1981. In quell’anno le quotazioni dell’oro crollarono – letteralmente – dai picchi dell’anno precedente. Nel 1980, la FED di Paul Volcker aveva alzato i tassi d’interesse portandoli al 20%. Questo scatenò la recessione a livello mondiale ma i tassi d’inflazione furono gradualmente ridotti come da obiettivo della FED. Le quotazioni dell’oro subirono però una pesante battuta d’arresto e, ora come oggi, gli investitori si chiedevano “i prezzi dell’oro hanno toccato il fondo?”
Evidentemente se lo chiedevano anche i piani alti statunitensi. Attorno alla metà del 1981 il Presidente USA, Ronald Reagan, istituì la Gold Commission per investigare il da farsi ed essa respinse ogni possibilità di ritorno al regime monetario “Gold Standard” per gli USA.
In effetti le quotazioni dell’oro si erano mosse al rialzo di oltre il 2.000% dall’abbandono del Gold Standard Exchange da parte degli USA, nell’agosto del 1971 (le quotazioni decollarono da $35 per oncia a oltre 800,00 nel 1980, a causa del debito interno, dell’inflazione, della perdita di fiducia nel dollaro e da almeno 15 anni di espansione monetaria ininterrotta – dal 1960 al 1975 – a causa della guerra nel Vietnam). Sarebbe stato del tutto cieco e “antiamericano” bloccare nuovamente il rapporto di cambio tra oro e dollaro.
Le condizioni per uno storico rialzo dell’oro erano però terminate: i mercati avevano riacquisito fiducia nel dollaro americano dopo gli imponenti rialzi dei tassi della FED. Nei successivi 20 anni le quotazioni dell’oro rimasero “laterali”, all’interno di una tendenza di mercato indefinita, dopo aver toccato un minimo al ribasso del 65% rispetto ai picchi del 1980. Nonostante alcuni ribassi significativi dal 1986, il biglietto verde fu agevolato dagli ingenti flussi di capitali globali che confluivano sui mercati obbligazionari, sui mercati a termine USA – futures – delle commodities e sui mercati azionari (nonostante il crack dell’ottobre 1987), determinandone uno storico rafforzamento nei confronti di tutte le altre valute mondiali. Dal 1989 al 1991 si disgregava “L’impero del Male” (URSS e nazioni del Patto di Varsavia), cadeva il Muro di Berlino e iniziava la cosiddetta era “Unipolare” degli USA: l’Occidente era rimasto l’unico grande “player” globale, in grado di dettare l’agenda politica, geopolitica, militare, finanziaria ed economica del mondo. Le condizioni politiche, finanziarie ed economiche del ciclo storico che parte dal 1980 a inizio 2000, quindi, furono tutte favorevoli agli USA e al biglietto verde. L’economia americana usciva vincitrice dalla Guerra Fredda e si “finanziarizzava” in modo definitivo.
Iniziava l’era delle bolle azionarie nel settore Biotech ed informatico (bolla delle cosiddette dotcom) al Nasdaq di New York, bolle finanziarie che attiravano in USA capitali speculativi da tutto il pianeta rafforzando costantemente il biglietto verde; l’indice Dow Jones raggiungeva per la prima volta nella storia quota 10.000 e la Globalizzazione a guida USA si estendeva a tutto il pianeta. Fino ad arrivare ai giorni nostri.
Attualmente l’oro, dopo il picco di settembre 2011, ha perduto circa il 40% del suo valore (ma dal 2000 al 2011 aveva corso al rialzo di circa il 600%): se il metallo giallo dovesse replicare il ribasso del 65% registrato dal 1980 in poi, dovrebbe calare ancora del 25% rispetto al 2011.


Pertanto, sebbene i fondamentali dell’economia non sono favorevoli a un rialzo dell’oro nell’immediato –
il complesso delle materie prime è ai minimi da 13 anni;
il prezzo del petrolio WTI oscilla costantemente sui $40,00 al barile;
l’economia della Cina è in deciso rallentamento e l’inflazione ufficiale è sotto controllo –
è molto probabile che la storia non si ripeta:
il debito pubblico e privato mondiale non è mai stato così elevato in un periodo di relativa pace e il debito pubblico americano è detonato dalla crisi del 2008 oltre 18 mila miliardi di dollari rispetto ai 907 miliardi del 1980.
Insomma: non sono più presenti le condizioni geopolitiche, finanziarie ed economiche riscontrate all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, ovvero un paio di decenni di movimenti laterali dei prezzi dell’oro.

Negli Usa aumentano le vendite annue di monete d’oro e d’argento da investimento

Nonostante un calo mensile in Agosto, la Zecca degli Stati Uniti ha registrato un solido fatturato in monete d’oro vendute l’ottavo mese dell’anno. Secondo gli ultimi dati presenti sul suo sito internet, in agosto sono state vendute 101.500 once di monete auree “American Eagle Bullion”, in calo del 40% rispetto al mese di luglio; tuttavia, le vendite annue sono in crescita del 306% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Anche le monete auree “American Buffalo”, con 20.000 once vendute in agosto (in calo rispetto alle 32.000 once di luglio), mantengono una buona performance (in agosto 2014 ne erano state vendute 8.000 once).
Durante il mese di agosto i prezzi dell’oro sono aumentati del 4% su base mensile, con un massimo registrato nei contratti a termine (futures) per dicembre, che hanno toccato i $1.169,80 per oncia in data 24 agosto. A luglio, invece i prezzi dell’oro avevano toccato un minimo a sei anni, a $1.085,50 per oncia.
Sempre in agosto, i prezzi dell’argento sono diminuiti dell’1,39% su base mensile (i prezzi dell’argento sono risultati molto più volatili di quelli dell’oro, in agosto), con i prezzi nei contratti a termine per dicembre che hanno toccato i $13,91 per oncia (per poi salire fino a un massimo di $15,77). La Zecca degli Stati Uniti ha registrato un totale di vendite di monete in argento, in agosto, pari a 4 milioni 935 mila once, contro le 2 milioni 88 mila once registrate nello stesso mese dell’anno precedente.


ROY REALE

 
GLENCORE EMERGING DEBT: ESPLOSIONE DEFLATTIVA!


Scritto il 30 settembre 2015 alle 10:30 da icebergfinanza


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Torniamo per un attimo indietro allo scorso anno rileggendo alcuni dei punti fondamentali di uno degli articoli più letti della storia di Icebergfinanza…
DEFLAZIONE DA DEBITI: COSA POTREBBE ACCADERE …

Come può andare a finire?
Ma veniamo quindi alle possibili soluzioni nascoste tra le pieghe della storia e dell’analisi empirica.
Incominciamo per prima dall’analisi empirica e precisamente da uno studio uscito qualche anno fa ad opera della McKinsey dal titolo “Debt and deleveraging: The global credit bubble and its economic consequences”, il quale analizza 45 episodi storici di deleveraging accaduti in alcuni settori delle 10 principali economie occidentali e 4 relative ai Paesi emergenti.
Il risultato è che in 23 episodi la crisi si risolse con una crescita futura del debito inferiore a quella del Pil, attraverso un calo del debito in termini nominali, in 12 episodi vi fu un aumento nominale della crescita attraverso la creazione di inflazione, la quale riduce il rapporto debito/crescita economica, in 7 episodi la contrazione del debito avvenne ad opera di fallimenti generalizzati pubblici e privati e solo in tre casi l’economia mostrò un livello di crescita in grado di far diminuire il rapporto debito/PIL.
Purtroppo, al momento attuale l’evidenza sembra far propendere tutto verso la terza ipotesi, ovvero la contrazione del debito attraverso fallimenti generalizzati o ristrutturazione del debito. Opzione confermata anche da Reinhart e Rogoff, due dei massimi esperti di crisi di debito al mondo, capaci di analizzare ben 800 anni di storia.
“Purtroppo, al momento attuale l’evidenza sembra far propendere tutto verso la terza ipotesi, ovvero la contrazione del debito attraverso fallimenti generalizzati o ristrutturazione del debito”
Partiamo da qui da Glencore, la verdura fresca che tutti oggi vendono…
MILANO – Netta risalita a Londra per il titolo Glencore: il colosso delle materie prime nel corso dei primi scambi si è spinto fino a 139,5 pence in scia dell’annuncio che il debito sarà ridotto sotto 20 miliardi di dollari entro la fine del prossimo anno, con una netta sforbiciata dai 29,55 miliardi al 30 giugno scorso. In precedenza il target era stato fissato a 27 miliardi. La società svizzera che, come riporta Bloomberg, la settima scorsa ha subito la maggior perdita settimanale da quando è stata quotata nel 2011, ha in programma di vendere nuove azioni per circa 2,5 miliardi di dollari e asset per altrettanti 2 miliardi. Ha inoltre deciso di sospendere il pagamento di dividendi fino a prossima comunicazione. Secondo quanto precisa una nota della stessa Glencore, l’intenzione è quella di tagliare il debito di circa 10,2 miliardi di dollari.
Questa era la situazione debitoria di Glencore lo scorso anno…
Partiamo da qui per spiegare al lettore di cosa stiamo parlando, ovvero come comprendere quando una società sta facendo il passo più lungo della gamba.
DEBT RATIO: Rapporto tra indebitamento e totale attivi della società, ovvero valore dei beni attivi iscritti a bilancio. Il valore ideale non dovrebbe superare di molto lo 0,5 ovvero il 50 % e in effetti secondo i dati qui sopra nel 2014 eravamo al 0,518. Ora siamo a …
The company has a total debt-to-equity ratio of 104 per cent, more than double its rivals at Rio Tinto Group and BHP Billiton.
…ovvero il livello del debito supera il valore degli attivi!


!
Rispetto ai rivali Rio Tinto e BHP l’indebitamento di Glencore è stratosferico
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Glencore Shares Plunge as Debt Fears Rattle Investors

Ieri il titolo è esploso al rialzo grazie alla notizia che il debito verrà ridotto, anche se sarà interessante osservare quanto Glencore riuscirà a ricavare dai sui asset in mezzo a questa esplosione deflattiva.
Chiaro il concetto? E’ difficile comprendere che più il debito aumenta e più il potenziale di crescita futuro diminuisce?

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Thanks to STREETTALK LIVE
Anche il rapporto tra debito e patrimonio/mezzi propri dovrebbe essere preferibilmente sotto 1




Ora andiamo a leggere un’altra notizia che conferma le nostre tesi esposte nell’ outlook 2015 MACHIAVELLI 2015: ESPLOSIONE DEFLATTIVA …
E’ tardi ora lanciare moniti. è tardi ora mettere in guardia dal settore corporate, high yield e junk bond in un mare di liquidità che ha anestetizzato la percezione del rischio
Fmi lancia monito, negli emergenti boom debiti aziendali a …

Fmi lancia monito, negli emergenti boom debiti aziendali a 18.000 miliardi di dollari Quei mercati devono prepararsi a un aumento dei fallimenti aziendali e, laddove necessario, a riformare i regimi di insolvenza aziendale

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Stare alla larga dal settore energy e dai mercati emergenti è stata la migliore intuizione del 2015 per il nostro Machiavelli. Ora attenzione ottobre si avvicina e laggiù in lontananza sembra delinearsi l’orizzonte per il 2016, un titolo lo abbiamo già in mente, probabilmente un’altra esplosione, questa volta quantitativa, ma c’è tempo, limitiamoci a seguire gli eventi.
A proposito certo si stanno tutti preparando ad alzare i tassi, inflazione ovunque all’orizzonte…
L’India spiazza i mercati e taglia i tassi di mezzo punto

A settembre inflazione negativa sia in Spagna che in Germania

Loro la chiamano inflazione negativa anche se è un MENO UNO VIRGOLA QUATTRO, ma dovete comprenderli ignorano la storia.





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