Claire
ἰοίην
Gira questa foto di una sposa che prende servizio a scuola, come accade ai precari e alle precarie dell'insegnamento che ogni anno vivono lo stress infinito di attendere una chiamata alla quale si può solo rispondere dalla sera alla mattina, o dalla mattina alla stessa mattina, fa niente se vivi in Puglia e ti chiamano dalla Lombardia (perché magari hai fatto domanda lì dove c'è più possibilità di lavorare), fa niente se per quel giorno avevi in programma di sposarti o se stai facendo nascere un figlio.
Sono rimasta sinceramente intristita, moltissimo, dai commenti che ho letto sotto quella foto, che ai miei occhi rappresenta la follia di un sistema in cui per le persone non è prevista la minima dignità se per firmare un contratto di lavoro si usa il "prendere o lasciare all'istante", senza neanche la possibilità di avvalersi delle opportune tecnologie telematiche. Questa immagine di una donna in abito da sposa dentro un'aula scolastica è la precisa rappresentazione di un mondo del lavoro che ha perso la bussola, che ritiene normale ricattare i suoi professionisti senza il minimo rispetto per la loro vita e per la loro salute. Tanto è vero che se non mi sbaglio è stata la scuola stessa a pubblicarla per prima, come se fosse una nota di colore e originalità, e non qualcosa di cui scusarsi con la loro dipendente.
Questa è proprio l'essenza del precariato: vivere per lavorare, nell'ansia di non poterlo più fare da un momento all'altro, nell'incertezza e nella completa squalifica della dignità di ciò che si fa, ma soprattutto della persona che si è, con una vita intera che si ha diritto a vivere e vivere bene.
Eppure la stragrande maggioranza dei commenti che ho letto era di un cinismo spaventoso, irridevano lei perché si è sposata a inizio settembre quando "si sa che arrivano le chiamate, di che ti lamenti", o davano per scontato che per lavorare bisogna fare così, bisogna farsi umiliare e stressare.
Strisciante, il solito pregiudizio misogino: una donna deve scegliere se lavorare o sposarsi, se vuole lavoro e famiglia poi non si lamenti. Pregiudizio che, al contrario, rivedi anche in quelle donne che le hanno scritto "Brava che sei andata a firmare, per le donne il lavoro è importante", come se non fosse da sempre che le donne - eccezion fatta per le pochissime mogli di professione dell'alta borghesia – lavorano, e come se non fosse da sempre che si ritrovano a fare salti mortali per gestire cento e più impegni per i quali non ricevono alcun genere di valorizzazione sociale.
Il mondo del lavoro, accettando l'aberrazione del precariato, ha innanzitutto accettato di non costruirsi più sulla solidarietà ma sulla competizione, di non costruirsi più sul conflitto con il padrone ma sulla servitù alle sue regole, sebbene come in questo caso siano regole che hanno l'unica e sola funzione di umiliare e stressare chi lavora.
Il precariato, ché tanto si parla di autoritarismo, è una delle più viscide e violente forme di ricatto autoritario che il sistema capitalista, con la piena complicità dello Stato, ha trovato per tenere in scacco i suoi cittadini e cittadine. Ma senza solidarietà reciproca e diffusa non ne usciremo mai.
Sono rimasta sinceramente intristita, moltissimo, dai commenti che ho letto sotto quella foto, che ai miei occhi rappresenta la follia di un sistema in cui per le persone non è prevista la minima dignità se per firmare un contratto di lavoro si usa il "prendere o lasciare all'istante", senza neanche la possibilità di avvalersi delle opportune tecnologie telematiche. Questa immagine di una donna in abito da sposa dentro un'aula scolastica è la precisa rappresentazione di un mondo del lavoro che ha perso la bussola, che ritiene normale ricattare i suoi professionisti senza il minimo rispetto per la loro vita e per la loro salute. Tanto è vero che se non mi sbaglio è stata la scuola stessa a pubblicarla per prima, come se fosse una nota di colore e originalità, e non qualcosa di cui scusarsi con la loro dipendente.
Questa è proprio l'essenza del precariato: vivere per lavorare, nell'ansia di non poterlo più fare da un momento all'altro, nell'incertezza e nella completa squalifica della dignità di ciò che si fa, ma soprattutto della persona che si è, con una vita intera che si ha diritto a vivere e vivere bene.
Eppure la stragrande maggioranza dei commenti che ho letto era di un cinismo spaventoso, irridevano lei perché si è sposata a inizio settembre quando "si sa che arrivano le chiamate, di che ti lamenti", o davano per scontato che per lavorare bisogna fare così, bisogna farsi umiliare e stressare.
Strisciante, il solito pregiudizio misogino: una donna deve scegliere se lavorare o sposarsi, se vuole lavoro e famiglia poi non si lamenti. Pregiudizio che, al contrario, rivedi anche in quelle donne che le hanno scritto "Brava che sei andata a firmare, per le donne il lavoro è importante", come se non fosse da sempre che le donne - eccezion fatta per le pochissime mogli di professione dell'alta borghesia – lavorano, e come se non fosse da sempre che si ritrovano a fare salti mortali per gestire cento e più impegni per i quali non ricevono alcun genere di valorizzazione sociale.
Il mondo del lavoro, accettando l'aberrazione del precariato, ha innanzitutto accettato di non costruirsi più sulla solidarietà ma sulla competizione, di non costruirsi più sul conflitto con il padrone ma sulla servitù alle sue regole, sebbene come in questo caso siano regole che hanno l'unica e sola funzione di umiliare e stressare chi lavora.
Il precariato, ché tanto si parla di autoritarismo, è una delle più viscide e violente forme di ricatto autoritario che il sistema capitalista, con la piena complicità dello Stato, ha trovato per tenere in scacco i suoi cittadini e cittadine. Ma senza solidarietà reciproca e diffusa non ne usciremo mai.