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Il ruolo dei Fondi pensione
Volessimo individuare i veri protagonisti delle borse degli anni ’90 non avremmo dubbi: i fondi pensione “il principale elemento di stabilizzazione dei mercati azionari americani degli ultimi decenni” ( M Deaglio Economia senza cittadini? Lazard 2002)
Secondo uno studio della Merrill Lynch, società con prestigio ultimamente un po’ appannato, nel 1999, il patrimonio dei Fondi pensione rispetto al PIL e la quota investita, da questi, in azioni, era quella indicata nella tabella 1.
Dalla tabella emerge come ci siano paesi nei quali i Fondi pensione detengono quasi il 50% della capitalizzazione di borsa: è il caso della Svizzera, degli Stati Uniti, dell’Olanda. Addirittura si avvicinano al 75% nel Regno Unito.
E’ chiaro che il crollo delle borse ha assestato ai sistemi pensionistici costruiti sui rendimenti azionari un colpo micidiale.
Non solo, escono male anche come controllori del sistema.
Era stato dato per acquisito che i Fondi pensione potessero svolgere una sorta di controllo sui conti delle grandi pubblic company soprattutto americane. Un controllo contro gli azzardi, i colpi troppo rischiosi ma considerato da molti poco lungimirante, essendo i fondi più sensibili agli utili immediati anziché ai piani a lunga scadenza, richiedenti, magari, cospicui investimenti.
E invece è andata a finire che anche le agguerrite squadre dei Fondi, piazzate in non poche grandi imprese, si sono fatte prendere per il naso.
Secondo Peter Clapman, presidente del Fondo Tiaa-Cref, il fondo degli insegnanti americani con 280 miliardi di dollari di patrimonio in gestione e all’attivo non poche battaglie per la trasparenza delle imprese, “la colpa è della scarsa coesione delle forze di mercato”. Clapman aggiunge che in America ci sono, oltre a Enron e Worldcom, “troppe mele marce” e che “i problemi emersi in America esistono anche in Europa, anzi forse sono ancora più gravi” ( il sole 24 ore 5 luglio 2002)
I Fondi pensione statunitensi
I fondi tipo Tiaa-Cref hanno di sicuro limitato le loro perdite, facendo parte dei fondi pensionistici a rendimento garantito (Defined benefit), che interessano 23 milioni di lavoratori americani e gestiscono un patrimonio di 2.000 miliardi di dollari.
Attraversano difficoltà crescenti, invece, i 401 (k), fondi inventati alla metà degli anni ’70, di solito gestiti dalle imprese stesse, in non pochi casi con criteri speculativi (Defined contribution). Il capitale gestito da questi fondi è enorme, 2.500 miliardi di dollari nel 2000, e interessano oltre 50 milioni di lavoratori (The Economist may 5 2001).
Siccome la pensione è in rapporto al totale del capitale maturato al momento di andare in pensione, il crollo delle borse ha ridotto quel capitale in misura rilevante e, di conseguenza, ha ridotto anche la pensione attesa.
Tutti hanno parlato dei fondi pensione delle imprese che hanno fatto bancarotta, come la Enron e la Worldcom, che hanno trascinato nella bancarotta anche i fondi pensione dei loro dipendenti.
Il problema è che nella crisi delle borse sono stati coinvolte le pensioni dei lavoratori delle maggiori imprese americane: nella tabella 2 abbiamo riportato la quota dei fondi pensione tipo 401 (k) di alcune grandi imprese, investita in azioni della stessa società. Per capire il dramma di milioni di lavoratori americani basta andare a vedere la variazione del valore delle azioni, negli ultimi due anni, di queste imprese.
Più in generale, secondo fonti attendibili, i fondi pensionistici aziendali americani hanno fatto registrare un deficit di 26 miliardi di dollari nel 2000 e di 111 miliardi nel 2001. Coprire quei buchi significherà, per molte imprese, un taglio consistente degli utili con inevitabile penalizzazione dei dividendi agli azionisti (Il sole 24 ore del 28-7-02).
I Fondi pensione garantiti
Due casi di grandi imprese per spiegare meglio il fenomeno.
La General Motors gestisce un fondo pensione che capitalizza 67 miliardi di dollari, al quale sono affidate le pensioni di 647 mila dipendenti, mentre il corrispondente fondo della Ford capitalizza 36 miliardi di dollari.
Questi fondi hanno dovuto sobbarcarsi decenni di ristrutturazioni, licenziamenti, pensionamenti e prepensionamenti.
Le due case automobilistiche se vogliono coprire il buco causato dal crollo della borsa, dovranno tirar fuori, a fine anno, quasi il 20% del capitale dei loro fondi. Lo faranno di sicuro perché nel futuro più o meno immediato dovranno continuare a ristrutturare.
La terza big, la Dailmer-Chrysler, non sta meglio, ma ha dalla sua i vantaggi derivati dalla fusione del 1998.
Cosa significa questo intervento è presto detto: una spesa aggiuntiva di 1.000 dollari per ogni auto prodotta, spesa che non devono sostenere le varie società giapponesi nei loro stabilimenti aperti da poco negli Stati Uniti grazie ad un personale ancora lontano dalla pensione.
Il problema ha detto il presidente della Ford “non riguarda solo le case automobilistiche ma tutte le Corporate americane”. Non tutte. Non riguarda, ad esempio, quelle non sindacalizzate, nelle quali non esiste alcun fondo, o quelle dove esiste un 401 (k) ma non sarà rifinanziato, né quelle come la Enron per evidenti ragioni (Il sole 24 ore del 21 luglio 2002)