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IL RIMEDIO ALLA CRISI E’ NOTO. MA NON SI PUO’ DIRE.
Maurizio Blondet 3 maggio 2017 7
IL RIMEDIO ALLA CRISI E' NOTO. MA NON SI PUO' DIRE. - Blondet & Friends
“45 per cento degli americani spendono fino a metà del loro reddito per ripagare i debiti sulle loro carte di credito”, suona un titolo di Zero Hedge. Circa il 50 per cento di loro hanno un debito superiore a 25 mila dollari (esclusi i mutui), in media il debito per persona è sui 37 mila dollari, mentre il reddito personale mediano è sui 30 mila.
Il titolo è interessante. No, non per fare la morale ai consumatori Usa; l’intero mondo occidentale è schiavo del debito. Ma l’economia americana ha il vantaggio di mostrare in modo più limpido e lineare, senza infingimenti né dissimulazioni linguistiche, le patologie del capitalismo che chiamiamo “terminale”.
Qui vediamo benissimo quale è il motivo per cui siamo in recessione-depressione da un decennio (i media applaudono miserabili aumenti del Pil dell’1,6- 1,7 per cento; la BCE e la Fed parlano allora di “solida” crescita), e perché i consumi non aumentano nonostante le iniezioni alluvionali di denaro creato dal nulla, e nemmeno aumenta l’inflazione.
E’ chiaro. Il consumatore americano compra a man bassa indebitandosi: compra regolarmente l’auto di un modello superiore a quello che si può permettere; compra con le carte di credito molte altre merci superflue; ciò fa girare molto bene l’economia, che prospera. Fino al giorno in cui l’americano deve spendere metà del suo reddito per ripagare gli interessi sui debiti che ha contratto. Il suo potere d’acquisto è dimezzato; le banche e le finanziarie gli prelevano dal salario (se ne ha uno) dal 33% al 50% ogni mese.
L’americano ha tutta la buona volontà di continuare a spendere e spandere – anche se è indebitato, ancora spende il 40% del suo mensile in “spese discrezionali, intrattenimento, hobbies, viaggi”; il 24% di loro dichiara di essersi indebitato troppo a causa di “ spese frivole ed eccessive”; le finanziarie delle carte di credito sono ancor più volonterose a prestargli tutti i dollari che vuole (al 25% d’interesse), e le altre finanziarie gli offrono persino prestiti ripagabili in 7 anni per l’acquisto di auto usate; la Federal Reserve crea tutta la liquidità che esigono finanziarie, consumatori, Wall Street (indebitando lo Stato); ma niente.
L’economia non si muove, non “cresce”. Anzi, nelle ultime settimane, cala. Per esempio , le vendite della Apple sono cadute a meno -8% rispetto a un anno prima. Ad aprile, Ford, Fiat Chrysler, Honda hanno venduto ciascuna il 7% in meno di quel che avevano venduto l’aprile 2016, la General Motors -6, Hyundai -11. I piazzali si riempiono di invenduti.
Tutti i segni di prossimi crack e scoppi di bolle si moltiplicano.
Vendite di auto, rispetto alle previsioni…
Il motivo è lì, ben visibile: il potere d’acquisto dimezzato. Il reddito spendibile divorato dalla necessità di “servire” i debiti pregressi. Come sempre quando trionfa il capitalismo puro (cioè finanziario) arriva inevitabile questo momento: il momento in cui il creditore ha indebitato “troppo” e il debitore non si può indebitare oltre.
Allora comincia la recessione, poi la depressione.
Il fenomeno si chiama “deflazione”. Precisamente, deflazione da debiti.
Se l’inflazione è prodotta da un aumento della massa monetaria e dall’accelerazione della sua circolazione, ciò che fa rincarare i prezzi delle merci, la deflazione si rivela con il contrario: una contrazione della massa monetaria, e il suo congelamento.
E’ impressionante vedere come nelle ultime settimane, in Usa,la massa monetaria nel sistema stia diminuendo: poiché nel sistema il denaro è “debito” creato cioè dalle finanziarie quando indebitano la gente, vuol dire che la gente non si indebita più, che le imprese chiedono meno fidi e mutui.
La deflazione da debiti. Questa malattia che la Germania (grande creditrice) ha preteso di curare imponendo austerità crudeli ai vassalli-debitori (si veda quel che hanno fatto ancor ieri ai greci), in Usa è curata con la larghezza della Fed e la facilità accentuata del credito. Nell’un caso e nell’altro, sono cure fallite.
Il motivo è lo stesso: il redito disponibile ai consumatori si è ridotto drasticamente. In America è più chiaro che in Europa, perché lì non vige la dottrina Schauble, “avete vissuto sopra i vostri mezzi, dunque siete puniti”, lì al contrario tutti sono incoraggiati a vivere sopra i propri mezzi.
Ma né l’una né l’altra terapia affronta il vero motivo.
Come mai? Vediamolo in un altro modo: la liquidità che il consumatore Usa deve distogliere dal suo potere d’acquisto, non sparisce nel nulla. Essa va ai creditori, alle banche, alle finanziarie, alle imprese che gestiscono carte di credito. Questi giganti – tali sono – si riempiono di “denaro” che hanno estratto ai cittadini, si locupletano di interessi e quote capitale – interessi del 25 % sulle carte di credito, mentre i giganti finanziari si riforniscono di denaro dalle banca centrale all’1 % – ma non lo rimettono in circolo.
Da qualche parte però lo impiegano, quel “denaro”. Dove lo mettono i creditori?
Le finanziarie possiedono le massime multinazionali
Alla domanda ha risposto uno studio di due economisti australiani, David Peetz e Georgina Murray della Griffith University nel Queensland.
Essi hanno studiato le 299 “più grandi imprese” del mondo, le più gigantesche multinazionali quotate nelle borse della Terra: a chi appartengono? Ossia: chi detiene il pacchetto di controllo? Perché tutti questi 299 titani sono, beninteso, imprese quotate; anche tu ed io, caro lettore, possiamo comprarne azioni, sui liberi “mercati” finanziari. Per questo, vige la convinzione che la proprietà di queste imprese sia diffusa e sparsa, come una pioggia di coriandoli, tra i risparmiatori, anche piccoli, del mondo. Non per niente queste compagnie sono chiamate , nel mondo anglosassone, “public companies”, che là significa il contrario di quel che significa da noi: non imprese statali, ma al contrario imprese private a proprietà molto diffusa, appartenenti dunque, dicono, al pubblico dei risparmiatori.
Una menzogna, hanno scoperto i due economisti; una menzogna sostenuta dai media (ovviamente) e dai trucchi linguistici come “public company”.
In realtà, 30 grandi finanziarie, banche e banche d’affari, detengono o controllano il 51,4 per cento del capitale delle 299 grandissime imprese mondiali. Un solo fondo speculativo, il Black Rock (con sede in Usa), detiene da sé solo il 6% di tutte le azioni delle 299 compagnie, mentre le famiglie (i risparmiatori) di tutto il mondo ne detengono il 3,3 per cento – una quota minima – ed anche le imprese industriali [che spesso investono la loro liquidità in portafogli azionari] detengono relativamente poco”.
Sono le finanziarie, non le industrie, a detenere la proprietà delle grandissime aziende. Dopo la Black Rock, le maggiori detentrici di azioni dei 299 titani mondiali sono AXA, (3.4%), JP Morgan Chase (3%) e Capital Group (2.5%): tre su 4 sono americane.
Non solo le cifre che detengono sono astronomiche – BlackRock quasi tre trilioni, ossia 2,9 mila miliardi di dollari, la francese AXA 1,7 Capital Group 1,6 trilioni…; non solo in molti casi un 6% basta come quota di controllo di certe imprese. Gli studiosi hanno scoperto che spesso, dietro gli azionisti”anonimi” o fiduciari che vengono celati da camere di compensazione come Euroclear e Clearstream, ci sono sempre le solite: i detentori reali non decidono loro come investire, ma si affidano – come a gestori di fondi d’investimento – a Black Rock, Capital Grooup, AXA, alle trenta grandi finanziarie.
Succede così che nel 55% delle grandissime imprese, BlackRock sia fra i primi cinque azionisti; Capital Group lo è nel 45% delle imprese multinazionali. Nel 56% delle multinazionali, i cinque primi azionisti, che le controllano, hanno meno del 15%.
Ecco dunque dove vanno a finire i fiumi di denaro che le finanziarie estraggono ai debitori privati americani: nell’acquisto di azioni di multinazionali. “Una concentrazione mai vista nella storia”, dicono i due economisti. Bisogna dar ragione al vecchio Marx (insuperabile nella critica al capitalismo): il capitale lasciato libero produce colossali concentrazioni a danno di chi lavora e produce.
Il peggio è che queste proprietarie essendo (6 su 10) americane, portano nella gestione delle grandi imprese multinazionali, anche in quelle industriali, i criteri proprio della dogmatica liberista-finanziaria americana, della “filosofia” e “strategie” di Wall Street.
Queste istituzioni speculative non governano insediando nelle imprese di cui sono azioniste di controllo, direttori di loro fiducia; non si assumono alcuna responsabilità di settori di cui, in realtà, non sanno niente; governano “con l’uscita” (dicono i due economisti), ossia con la minaccia onnipresente di liberarsi delle azioni della grande impresa, “se non realizza profitti sufficienti”. Insomma essi minacciano di svalutare il patrimonio azionario delle grandissime imprese se non fanno quel che vogliono loro. E cosa vogliono? “Che creino valore per l’azionista”. Vogliono ricavare altri profitti finanziari dai loro profitti finanziari che hanno estratto dai debitori del mondo (mica solo i consumatori USA, pensate agli Stati, all’Italia a cui prestano ad interesse). Alle aziende impongono di massimizzare i profitti – per esempio con “aumenti di produttività”, che significa pagare meno salari, o sostituire i salariati con robot, “riduzione dei costi” (idem) e “espansione” – altrimenti,minacciano, “vendiamo la nostra quota”.
Non è più la logica dei capitalisti industriali, sottolineano i due autori: “perché il capitale industriale, in fin dei conti, è il capitale finanziario. Se è esistito un tempo in cui il mondo era dominato da grandi imprese detenute da qualche famiglia le cui fortune personali, le preferenze e (se vogliamo) le eccentricità modellavano il comportamento delle ditte, questo tempo è passato. Oggi le imprese obbediscono alla logica del capitale finanziario, la logica del denaro: e una logica non individuale, ma di classe”.
Who owns the world? Tracing half the corporate giants' shares to 30 owners
Ovviamente nulla di nuovo. I due hanno certamente in mente Henry Ford, quello che decise di pagare i suoi operai abbastanza bene perché potessero diventare acquirenti delle sue auto.
Invece a quale logica fredda, burocratica e impersonale obbediscono i proprietari finanziari delle imprese molto grandi? Diciamolo chiaro: alla logica dell’Usuraio. L’antica, inumana logica per cui Shylock, nel Mercante di Venezia, vuole dal debitore “il suo pezzo di carne”, preferibilmente “attorno al cuore”.
E’ l’Usuraio collettivo quello che parla con la voce di Jacques Attali, il manovratore di Macron: Siccome gli europei dopo i 65 anni costano più di quello che rendono, andrà istituita l’eutanasia di Stato. Un proposito da cui Henry Ford, il duro industriale, si sarebbe dissociato con orrore. Il capitalista industriale guardava ancora al genere umano come un fine; l’Usuraio, lo vede come un puro mezzo.
Non siamo mai stati così poveri come da quando ci governa l’Usuraio
Voglio solo far notare che mai nella storia nessuna comunità umana (salvo forse certi esquimesi nel gelo artico) si è sentita tanto povera da non potersi permettere il lusso di mantenere i suoi anziani; nemmeno nelle carestie e nelle annate cattive, le società contadine si son sentite così prive di mezzi di sussistenza da guardare ai loro vecchi come “bocche inutili”. Ora, ciò invece diventa un programma delle società ricche, altamente produttive, anzi afflitte da eccessi di produzione: tagliate i costi sociali!, impongono le finanziarie. E’ con la voce perenne dell’Usuraio che Schauble, la Merkel, i tedeschi impongono alla Grecia un ulteriore taglio delle misere pensioni come condizione per “prestare” ad Atene altri 3,9 miliardi – miliardi beninteso che servono a pagare un poco (poco) degli interessi sul debito che la Grecia ha contratto, insomma mantenere la finzione della sua solvibilità, una finzione di cui gli Usurai hanno bisogno per tenere in marcia il loro treno.
L’Usuraio ha fatto del progetto europeo, che doveva sancire una fondamentale fratellanza , un arena di inimicizie, ostilità e sospetti, dove il Creditore ficca gli occhi nel piatto del paese debitore e lo rimprovera: tu mangi troppo, vivi al disopra dei tuoi mezzi! Mi togli i miei profitti mangiando e bevendo! (l’ha detto Weidmann, il capo della Bundesbank).
E’ l’eterno Usuraio internazionale quello che nel 2011 parlò per bocca di un governante della Finlandia: “Per dare nuovi prestiti alla Grecia, chiediamo in garanzia l’Acropoli, il Partenone, alcune isole …La Grecia possiede beni di Stato, antichità archeologiche, che valgono [lui ha fatto i conti in tasca, ndr.] 300 miliardi; li dia in garanzia”.
Ora, nessun europeo avrebbe detto una cosa simile senza vergognarsi. Nessun tedesco avrebbe osato un tempo calcolare il valore di mercato dell’Acropoli, memore della passione germanica per la grecità. Forse neppure un finlandese, i cui antenati, al tempo di Pericle, erano cannibali con l’osso al naso, e sino i più estranei alla cultura europea, ultimi arrivati.
Da qui si vede perfettamente come l’Usuraio, al potere, non si fermi di fronte ad alcuna ragione umana, fa avanzare un certo tipo di barbari a danno della cultura, e distrugga la civiltà. Vediamo qui quanto profondamente colse nel segno Ezra Pound nel suo celebre Canto:
Maurizio Blondet 3 maggio 2017 7
IL RIMEDIO ALLA CRISI E' NOTO. MA NON SI PUO' DIRE. - Blondet & Friends
“45 per cento degli americani spendono fino a metà del loro reddito per ripagare i debiti sulle loro carte di credito”, suona un titolo di Zero Hedge. Circa il 50 per cento di loro hanno un debito superiore a 25 mila dollari (esclusi i mutui), in media il debito per persona è sui 37 mila dollari, mentre il reddito personale mediano è sui 30 mila.
Il titolo è interessante. No, non per fare la morale ai consumatori Usa; l’intero mondo occidentale è schiavo del debito. Ma l’economia americana ha il vantaggio di mostrare in modo più limpido e lineare, senza infingimenti né dissimulazioni linguistiche, le patologie del capitalismo che chiamiamo “terminale”.
Qui vediamo benissimo quale è il motivo per cui siamo in recessione-depressione da un decennio (i media applaudono miserabili aumenti del Pil dell’1,6- 1,7 per cento; la BCE e la Fed parlano allora di “solida” crescita), e perché i consumi non aumentano nonostante le iniezioni alluvionali di denaro creato dal nulla, e nemmeno aumenta l’inflazione.
E’ chiaro. Il consumatore americano compra a man bassa indebitandosi: compra regolarmente l’auto di un modello superiore a quello che si può permettere; compra con le carte di credito molte altre merci superflue; ciò fa girare molto bene l’economia, che prospera. Fino al giorno in cui l’americano deve spendere metà del suo reddito per ripagare gli interessi sui debiti che ha contratto. Il suo potere d’acquisto è dimezzato; le banche e le finanziarie gli prelevano dal salario (se ne ha uno) dal 33% al 50% ogni mese.
L’americano ha tutta la buona volontà di continuare a spendere e spandere – anche se è indebitato, ancora spende il 40% del suo mensile in “spese discrezionali, intrattenimento, hobbies, viaggi”; il 24% di loro dichiara di essersi indebitato troppo a causa di “ spese frivole ed eccessive”; le finanziarie delle carte di credito sono ancor più volonterose a prestargli tutti i dollari che vuole (al 25% d’interesse), e le altre finanziarie gli offrono persino prestiti ripagabili in 7 anni per l’acquisto di auto usate; la Federal Reserve crea tutta la liquidità che esigono finanziarie, consumatori, Wall Street (indebitando lo Stato); ma niente.
L’economia non si muove, non “cresce”. Anzi, nelle ultime settimane, cala. Per esempio , le vendite della Apple sono cadute a meno -8% rispetto a un anno prima. Ad aprile, Ford, Fiat Chrysler, Honda hanno venduto ciascuna il 7% in meno di quel che avevano venduto l’aprile 2016, la General Motors -6, Hyundai -11. I piazzali si riempiono di invenduti.
Tutti i segni di prossimi crack e scoppi di bolle si moltiplicano.
Vendite di auto, rispetto alle previsioni…
Il motivo è lì, ben visibile: il potere d’acquisto dimezzato. Il reddito spendibile divorato dalla necessità di “servire” i debiti pregressi. Come sempre quando trionfa il capitalismo puro (cioè finanziario) arriva inevitabile questo momento: il momento in cui il creditore ha indebitato “troppo” e il debitore non si può indebitare oltre.
Allora comincia la recessione, poi la depressione.
Il fenomeno si chiama “deflazione”. Precisamente, deflazione da debiti.
Se l’inflazione è prodotta da un aumento della massa monetaria e dall’accelerazione della sua circolazione, ciò che fa rincarare i prezzi delle merci, la deflazione si rivela con il contrario: una contrazione della massa monetaria, e il suo congelamento.
E’ impressionante vedere come nelle ultime settimane, in Usa,la massa monetaria nel sistema stia diminuendo: poiché nel sistema il denaro è “debito” creato cioè dalle finanziarie quando indebitano la gente, vuol dire che la gente non si indebita più, che le imprese chiedono meno fidi e mutui.
La deflazione da debiti. Questa malattia che la Germania (grande creditrice) ha preteso di curare imponendo austerità crudeli ai vassalli-debitori (si veda quel che hanno fatto ancor ieri ai greci), in Usa è curata con la larghezza della Fed e la facilità accentuata del credito. Nell’un caso e nell’altro, sono cure fallite.
Il motivo è lo stesso: il redito disponibile ai consumatori si è ridotto drasticamente. In America è più chiaro che in Europa, perché lì non vige la dottrina Schauble, “avete vissuto sopra i vostri mezzi, dunque siete puniti”, lì al contrario tutti sono incoraggiati a vivere sopra i propri mezzi.
Ma né l’una né l’altra terapia affronta il vero motivo.
Come mai? Vediamolo in un altro modo: la liquidità che il consumatore Usa deve distogliere dal suo potere d’acquisto, non sparisce nel nulla. Essa va ai creditori, alle banche, alle finanziarie, alle imprese che gestiscono carte di credito. Questi giganti – tali sono – si riempiono di “denaro” che hanno estratto ai cittadini, si locupletano di interessi e quote capitale – interessi del 25 % sulle carte di credito, mentre i giganti finanziari si riforniscono di denaro dalle banca centrale all’1 % – ma non lo rimettono in circolo.
Da qualche parte però lo impiegano, quel “denaro”. Dove lo mettono i creditori?
Le finanziarie possiedono le massime multinazionali
Alla domanda ha risposto uno studio di due economisti australiani, David Peetz e Georgina Murray della Griffith University nel Queensland.
Essi hanno studiato le 299 “più grandi imprese” del mondo, le più gigantesche multinazionali quotate nelle borse della Terra: a chi appartengono? Ossia: chi detiene il pacchetto di controllo? Perché tutti questi 299 titani sono, beninteso, imprese quotate; anche tu ed io, caro lettore, possiamo comprarne azioni, sui liberi “mercati” finanziari. Per questo, vige la convinzione che la proprietà di queste imprese sia diffusa e sparsa, come una pioggia di coriandoli, tra i risparmiatori, anche piccoli, del mondo. Non per niente queste compagnie sono chiamate , nel mondo anglosassone, “public companies”, che là significa il contrario di quel che significa da noi: non imprese statali, ma al contrario imprese private a proprietà molto diffusa, appartenenti dunque, dicono, al pubblico dei risparmiatori.
Una menzogna, hanno scoperto i due economisti; una menzogna sostenuta dai media (ovviamente) e dai trucchi linguistici come “public company”.
In realtà, 30 grandi finanziarie, banche e banche d’affari, detengono o controllano il 51,4 per cento del capitale delle 299 grandissime imprese mondiali. Un solo fondo speculativo, il Black Rock (con sede in Usa), detiene da sé solo il 6% di tutte le azioni delle 299 compagnie, mentre le famiglie (i risparmiatori) di tutto il mondo ne detengono il 3,3 per cento – una quota minima – ed anche le imprese industriali [che spesso investono la loro liquidità in portafogli azionari] detengono relativamente poco”.
Sono le finanziarie, non le industrie, a detenere la proprietà delle grandissime aziende. Dopo la Black Rock, le maggiori detentrici di azioni dei 299 titani mondiali sono AXA, (3.4%), JP Morgan Chase (3%) e Capital Group (2.5%): tre su 4 sono americane.
Non solo le cifre che detengono sono astronomiche – BlackRock quasi tre trilioni, ossia 2,9 mila miliardi di dollari, la francese AXA 1,7 Capital Group 1,6 trilioni…; non solo in molti casi un 6% basta come quota di controllo di certe imprese. Gli studiosi hanno scoperto che spesso, dietro gli azionisti”anonimi” o fiduciari che vengono celati da camere di compensazione come Euroclear e Clearstream, ci sono sempre le solite: i detentori reali non decidono loro come investire, ma si affidano – come a gestori di fondi d’investimento – a Black Rock, Capital Grooup, AXA, alle trenta grandi finanziarie.
Succede così che nel 55% delle grandissime imprese, BlackRock sia fra i primi cinque azionisti; Capital Group lo è nel 45% delle imprese multinazionali. Nel 56% delle multinazionali, i cinque primi azionisti, che le controllano, hanno meno del 15%.
Ecco dunque dove vanno a finire i fiumi di denaro che le finanziarie estraggono ai debitori privati americani: nell’acquisto di azioni di multinazionali. “Una concentrazione mai vista nella storia”, dicono i due economisti. Bisogna dar ragione al vecchio Marx (insuperabile nella critica al capitalismo): il capitale lasciato libero produce colossali concentrazioni a danno di chi lavora e produce.
Il peggio è che queste proprietarie essendo (6 su 10) americane, portano nella gestione delle grandi imprese multinazionali, anche in quelle industriali, i criteri proprio della dogmatica liberista-finanziaria americana, della “filosofia” e “strategie” di Wall Street.
Queste istituzioni speculative non governano insediando nelle imprese di cui sono azioniste di controllo, direttori di loro fiducia; non si assumono alcuna responsabilità di settori di cui, in realtà, non sanno niente; governano “con l’uscita” (dicono i due economisti), ossia con la minaccia onnipresente di liberarsi delle azioni della grande impresa, “se non realizza profitti sufficienti”. Insomma essi minacciano di svalutare il patrimonio azionario delle grandissime imprese se non fanno quel che vogliono loro. E cosa vogliono? “Che creino valore per l’azionista”. Vogliono ricavare altri profitti finanziari dai loro profitti finanziari che hanno estratto dai debitori del mondo (mica solo i consumatori USA, pensate agli Stati, all’Italia a cui prestano ad interesse). Alle aziende impongono di massimizzare i profitti – per esempio con “aumenti di produttività”, che significa pagare meno salari, o sostituire i salariati con robot, “riduzione dei costi” (idem) e “espansione” – altrimenti,minacciano, “vendiamo la nostra quota”.
Non è più la logica dei capitalisti industriali, sottolineano i due autori: “perché il capitale industriale, in fin dei conti, è il capitale finanziario. Se è esistito un tempo in cui il mondo era dominato da grandi imprese detenute da qualche famiglia le cui fortune personali, le preferenze e (se vogliamo) le eccentricità modellavano il comportamento delle ditte, questo tempo è passato. Oggi le imprese obbediscono alla logica del capitale finanziario, la logica del denaro: e una logica non individuale, ma di classe”.
Who owns the world? Tracing half the corporate giants' shares to 30 owners
Ovviamente nulla di nuovo. I due hanno certamente in mente Henry Ford, quello che decise di pagare i suoi operai abbastanza bene perché potessero diventare acquirenti delle sue auto.
Invece a quale logica fredda, burocratica e impersonale obbediscono i proprietari finanziari delle imprese molto grandi? Diciamolo chiaro: alla logica dell’Usuraio. L’antica, inumana logica per cui Shylock, nel Mercante di Venezia, vuole dal debitore “il suo pezzo di carne”, preferibilmente “attorno al cuore”.
E’ l’Usuraio collettivo quello che parla con la voce di Jacques Attali, il manovratore di Macron: Siccome gli europei dopo i 65 anni costano più di quello che rendono, andrà istituita l’eutanasia di Stato. Un proposito da cui Henry Ford, il duro industriale, si sarebbe dissociato con orrore. Il capitalista industriale guardava ancora al genere umano come un fine; l’Usuraio, lo vede come un puro mezzo.
Non siamo mai stati così poveri come da quando ci governa l’Usuraio
Voglio solo far notare che mai nella storia nessuna comunità umana (salvo forse certi esquimesi nel gelo artico) si è sentita tanto povera da non potersi permettere il lusso di mantenere i suoi anziani; nemmeno nelle carestie e nelle annate cattive, le società contadine si son sentite così prive di mezzi di sussistenza da guardare ai loro vecchi come “bocche inutili”. Ora, ciò invece diventa un programma delle società ricche, altamente produttive, anzi afflitte da eccessi di produzione: tagliate i costi sociali!, impongono le finanziarie. E’ con la voce perenne dell’Usuraio che Schauble, la Merkel, i tedeschi impongono alla Grecia un ulteriore taglio delle misere pensioni come condizione per “prestare” ad Atene altri 3,9 miliardi – miliardi beninteso che servono a pagare un poco (poco) degli interessi sul debito che la Grecia ha contratto, insomma mantenere la finzione della sua solvibilità, una finzione di cui gli Usurai hanno bisogno per tenere in marcia il loro treno.
L’Usuraio ha fatto del progetto europeo, che doveva sancire una fondamentale fratellanza , un arena di inimicizie, ostilità e sospetti, dove il Creditore ficca gli occhi nel piatto del paese debitore e lo rimprovera: tu mangi troppo, vivi al disopra dei tuoi mezzi! Mi togli i miei profitti mangiando e bevendo! (l’ha detto Weidmann, il capo della Bundesbank).
E’ l’eterno Usuraio internazionale quello che nel 2011 parlò per bocca di un governante della Finlandia: “Per dare nuovi prestiti alla Grecia, chiediamo in garanzia l’Acropoli, il Partenone, alcune isole …La Grecia possiede beni di Stato, antichità archeologiche, che valgono [lui ha fatto i conti in tasca, ndr.] 300 miliardi; li dia in garanzia”.
Ora, nessun europeo avrebbe detto una cosa simile senza vergognarsi. Nessun tedesco avrebbe osato un tempo calcolare il valore di mercato dell’Acropoli, memore della passione germanica per la grecità. Forse neppure un finlandese, i cui antenati, al tempo di Pericle, erano cannibali con l’osso al naso, e sino i più estranei alla cultura europea, ultimi arrivati.
Da qui si vede perfettamente come l’Usuraio, al potere, non si fermi di fronte ad alcuna ragione umana, fa avanzare un certo tipo di barbari a danno della cultura, e distrugga la civiltà. Vediamo qui quanto profondamente colse nel segno Ezra Pound nel suo celebre Canto: