Il trattato con la Cina

tontolina

Forumer storico
Il trattato Cina-mangiatutto

Distratti dal Covid, i mass-media occidentali hanno clamorosamente snobbato la notizia. Eppure il trattato siglato il 15 novembre tra la Cina e altri 14 Paesi è un evento fondamentale, che per Pechino equivale a un nuovo passo sulla strada per la conquista dell’egemonia globale. Anzi, a ben vedere è forse il passo più importante degli ultimi dieci anni.
Ad Hanoi, 15 governi hanno firmato un accordo sul commercio che s’intitola «Regional comprehensive economic partnership» e ha creato una colossale area di libero scambio. I 15 sono
la Cina,
il Giappone,
l’Australia,
la Corea del Sud e
la Nuova Zelanda,
più i 10 Stati dell’Asean, l’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico che dal 1967 unisce Singapore, Vietnam, Thailandia, Filippine, Birmania, Malaysia, Indonesia, Laos, Cambogia e Brunei.
Il Rcep ha dimensioni colossali. In totale, i 15 Paesi contraenti hanno un Pil complessivo di 26.500 miliardi di dollari, cioè il 30% dell’economia globale, e il 29% dei consumatori, circa 2,2 miliardi di abitanti su 7,6.
Ed è un vero fatto storico: per la prima volta, infatti, mette d’accordo le tre potenze rivali dell’Asia orientale: Cina, Giappone e Corea del Sud non avevano mai collaborato tra loro. Il il Rcep entrerà ufficialmente in vigore entro il 2021, dopo che sarà stato ratificato dai Paesi membri: cancellerà il 65% delle tariffe all’import tra gli Stati firmatari, ma punta a eliminarne il 90% nei prossimi 10-20 anni.
Il Rcep supera anche i limiti agli accordi di libero scambio bilaterali oggi esistenti tra i Paesi dell’area. Cade per esempio la «regola d’origine» che nell’Asean pone limiti alla provenienza delle merci basandosi sui loro componenti: finora, un prodotto fatto in Laos con pezzi australiani (anche solo in parte) sarebbe stato soggetto a dazi negli altri Paesi dell’Asean. Con il Rcep, invece, questo non accadrà più e tutti i prodotti dei 15 Stati membri verranno trattati allo stesso modo, incentivando così le aziende dell’area a cercare fornitori all’interno della regione commerciale.
Tre temi, che di solito entrano nei grandi accordi commerciali internazionali, non sono stati affrontati nel Rcep: il rispetto dell’ambiente, i diritti dei lavoratori e i sussidi governativi alle imprese. A opporsi è stata soprattutto la Cina (dove non esiste sindacato, la sensibilità ambientale è poca, e i rapporti tra governo e imprese private sono resi anomali dalla forza del regime). L’assenza di regole su queste materie, comunque, renderà molto più facile l’applicazione del trattato.

La lunga marcia per arrivare all’accordo Rcep
Avviato da Cina e Giappone nel 2011, il negoziato commerciale vero e proprio è iniziato a fine 2012 e poi ha coinvolto i 10 Paesi dell’Asean. Alla trattativa sul Rcep, che in questi ultimi 8 anni s’è sviluppata con 30 successivi cicli negoziali, in un secondo momento si sono unite anche l’India, la Corea del Sud, l’Australia e la Nuova Zelanda.
Nel novembre 2019, probabilmente anche per le pressioni dell’amministrazione Trump, l’India si è ritirata dal Rcep lamentando non stesse affrontando gli aspetti relativi alla concorrenza sleale cinese. Il governo indiano era anche preoccupato per la sua agricoltura, che temeva sarebbe stata esposta alla libera concorrenza dei prodotti di altri Paesi negoziatori, soprattutto australiani e neozelandesi. L’uscita dell’India ha però trasformato il Rcep in un trattato ancor più squilibrato a favore della Cina, che per potenza economica sovrasta tutti gli altri contraenti.
Ora, dopo la firma del Rcep, temendo l’isolamento in Asia e preoccupata per il già elevato deficit commerciale con Pechino (57 miliardi di dollari nel 2019), il governo di Dehli sta tornando sui suoi passi e – malgrado il conflitto militare in corso con la Cina, che lo scorso giugno ha invaso per decine di chilometri la regione indiana del Ladak, nel Tibet – non ha escluso di firmare l’accordo in seconda battuta.
Se alla fine anche l’India dovesse entrare nel Rcep, il trattato arriverebbe a coprire il 40% del Pil globale (ai valori 2020 i 16 Paesi hanno un Pil di circa 35mila miliardi di dollari), e poco meno del 45% della popolazione (3,6 miliardi di abitanti su 7,7).

L’errore di Trump che ha aperto la strada al Rcep
Fino al 2016 la Cina era stata frenata nelle sue mire egemoniche sui commerci asiatici dal Trans-Pacific partnership (Tpp), il negoziato commerciale e di cooperazione economica che nel novembre 2015 aveva sancito un’intesa commerciale tra gli Stati Uniti e altri 11 Paesi (Australia, Giappone, Nuova Zelanda, Singapore, Canada, Cile, Malaysia, Perù, Messico, Brunei e Vietnam).
Il Tpp era stato siglato nel novembre 2015, e gli Stati a quel punto avevano 2 anni per ratificarlo. Il trattato coinvolgeva il 40% del Pil globale (37.500 miliardi di dollari in base ai dati 2015), per 831 milioni di consumatori, quasi l’11% del totale.
Il negoziato sul Tpp era stato lanciato nel 2008 dal presidente George W. Bush (e poi confermato da Barack Obama) proprio per porre un argine commerciale alla Cina. Tant’è vero che negli ultimi anni Pechino aveva cercato – senza riuscirci – di strappare al Tpp almeno Vietnam e Filippine, offrendo loro in cambio vantaggi economici sui commerci e perfino di porre fine a decennali dispute territoriali.
Il Tpp è però decaduto per la svolta protezionistica decisa da Donald Trump, che nel gennaio 2017, appena insediato alla Casa Bianca, ha deciso il ritiro dal trattato, affossandolo: per entrare in vigore, infatti, il Tpp doveva ottenere la ratifica almeno dall’85% dei Paesi firmatari per peso economico, ma gli Stati Uniti da soli ne rappresentavano il 55-60% (il loro Pil nel 2016 era sui 20mila miliardi di dollari).
Ora che il Rcep è stato siglato, la decisione di Trump si dimostra per quel che è: e cioè un grave errore strategico. È stato infatti a partire dal crollo del Tpp, nel gennaio 2017, che la trattativa sul Rcep ha iniziato a correre su impulso cinese: negli ultimi 4 anni si sono svolti 20 dei 30 cicli negoziali.
Il Tpp interessava soprattutto all’Australia e al Giappone: il suo affossamento, e i danni subiti da questi due Paesi a causa della successiva guerra dei dazi dichiarata da Trump, hanno spinto i governi di Tokio e Canberra (e quelli degli altri 5 Stati membri del decaduto Tpp, cioè Vietnam, Nuova Zelanda, Singapore, Malaysia e Brunei) a cambiare strada e a concludere il negoziato per il Rcep.
Joe Biden ha già annunciato che intende rimediare all’errore, in qualche modo rivitalizzando il Tpp. Non gli sarà facile, perché nel Parlamento americano, oltre all’ala protezionista repubblicano, siede una forte rappresentanza di democratici contrari agli accordi commerciali.
Continua…
 
Ultima modifica:
La svolta sulla Cina della Germania che l’Europa non ha capito
Pubblicazione: 11.05.2021 - Mauro Bottarelli
La Germania ha capito le opportunità che offre il mercato asiatico. L’Europa appare invece desiderosa di schierarsi con gli Stati Uniti
Merkel Germania
Angela Merkel, cancelliera della Germania (LaPresse)

Per capire cosa accadrà il 10 giugno alla riunione spartiacque (l’ennesima) della Bce, la strategia del bilancino appare la migliore.
Occorre soppesare al milligrammo ogni accadimento, farne la tara. E poi, azzardare.
Perché la variabile Covid è tutt’altro che fuorigioco.
Pensate che le deliranti scene giunte nel weekend dalla Spagna non avranno ripercussioni da qui a un mese? Casualmente, a ridosso dell’appuntamento di Francoforte.
Direte voi, così si bruciano la stagione turistica? Certo. Ma forse si garantiscono un po’ di supporto Bce in più rispetto all’ipotesi di graduale ritiro già da settembre.
Occorre ragionare così, ormai.
E la conferma indiretta della deriva distopica in atto ci arriva da una notizia apparentemente scollegata: BionTech, la casa farmaceutica tedesca che ha prodotto il vaccino anti-Covid insieme a Pfizer, ha comunicato la sua intenzione di installare la produzione in un nuovo mega-stabilimento di Singapore che sarà pronto entro il 2023. Di più, la nuova sede diverrà anche quartier generale ragionale per il mercato asiatico.

E qui sono due le notizie.
-Primo, se si opera su tempi così dilatati e con cifre di investimento simili – oltretutto in modalità di delocalizzazione tale da sfidare le criticità sulla catena di fornitura emerse proprio durante la pandemia – è perché si è convinti che il gioco valga la candela: tradotto, la pandemia è già oggi endemia. E BionTech ci mette il carico da novanta.
-Seconda, e più importante notazione, tenendo ben presente la collocazione geografica di Singapore, ce la offre questo grafico, dal quale si evince come la quota di export tedesco destinato alla Cina sia in continua espansione a danno di quella verso Francia e Stati Uniti.
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La decisione di Angela Merkel di accelerare il memorandum di intesa commerciale fra Cina e Ue lo scorso dicembre, capace di mandare su tutte le furie Washington, aveva un senso strategico. E di visione.
Il business comincia solo ora in campo farmaceutico, la conferma arriva da Bloomberg: stando a studi già in fase di sviluppo, i vaccini basati su mRNA potrebbero un domani risultare fondamentali nella lotta contro le principali forme di patologie oncologiche. E chi sarebbe in pole position rispetto a questa rivoluzionaria frontiera della ricerca? BionTech e Moderna.

Capito perché i tedeschi si spostano in Asia con tale magnitudo di investimento? Scelta di campo, perché se si vuole competere in seno a Big Pharma, l’Europa risulta troppo piccola come campo da gioco e gli Stati Uniti giocano in base a regole tutte loro, come dimostrato dal fallito blitz buonista di Joe Biden sui brevetti.
L’Asia opera in base a un principio mercantilista molto meno ipocrita: tutti devono guadagnarci, Cina in testa. È così dai tempi di Marco Polo. Una volta che lo sai e lo accetti, vivi certamente più sereno rispetto a certe false alleanze che si tramutano in coltellate alle spalle alla prima occasione.

E sapete cosa sta accadendo ancora in Asia? Il gigante alimentare filippino Monde Nissin sta discutendo proprio con il fondo sovrano di Singapore, GIC, e con il colosso assicurativo di Hong Kong, AIA, rispetto alla sua IPO, destinata a diventare il più grande collocamento di sempre nell’area, l’Aramco con gli occhi a mandorla. Ma non basta. Il proprietario del gigante filippino della logistica, LBC Express, starebbe valutando la cessione di una quota di partecipazione: un business di fondamentale importanza, praticamente una delle chiavi per aprire le porte d’accesso al mondo 2.0.

Non a caso, mentre i tg hanno le telecamere puntate sulla Spianata della Moschee, Israele ha firmato un accordo di libero scambio commerciale con la Corea del Sud. Insomma, la frontiera è l’Asia. Soprattutto nel mondo post-pandemico ed endemico.
E trattare con l’Asia, piaccia o meno, significa fare i conti con la Cina.
La Germania lo ha capito e si è adeguata, poiché pragmatismo impone che si debba guardare in faccia la realtà.
Quello di Pechino è certamente un regime autoritario e con un’economia basata ancora su rigido controllo statale (lo spericolato Jack Ma ne sa qualcosa), vero.
Ma gli Stati Uniti post-Lehman cosa rappresentano, invece?
Il basare qualsiasi scelta di politica economia, finanziaria e monetaria sulle necessità manipolatorie e di profitto di Wall Street e su una Fed che è divenuta l’unico potere reale, rappresenta qualcosa di molto differente dal concetto di Soe cinese o dall’onnipotenza della Pboc?
Se Ford o Boeing (non la drogheria all’angolo o la tintoria dei Jefferson) per restare in piedi devono prima razziare le linee di credito con le banche per timore che vengano congelate (credit crunch) e poi aspettare che la Federal Reserve cambi i criteri di classificazione del rating per operazioni di finanziamento, al fine di depotenziare i downgrades in cui sono incorse nel frattempo, dove sarebbe il libero mercato? E quale differenza ci sarebbe rispetto alle aziende cinesi che non falliscono per legge, essendo più o meno tutte a controllo statale?

Smettiamola di raccontarci panzane sul liberismo selvaggio e la libertà di intrapresa: l’America è una nazione basata sull’indebitamente strutturale e il deficit sistemico, esattamente come la Cina pre-Xi. L’operatività di Prime Brokers e Primary Dealers del debito non rappresenta forse il corrispettivo in grisaglia da 10.000 dollari dello shadow banking cinese, un colossale schema Ponzi che – infatti – ogni 5 anni richiede una crisi globale e l’intervento alluvionale di un Qe per evitare il collasso dell’intera impalcatura di sistema?
Piaccia o meno, è così.
Ed è l’America stessa a saperlo, visto che per quanto possa abbaiare, le sue sanzioni le applica contro Russia e Venezuela, ma quando si tratta di Cina e Iran, il più delle volte si limita a mostrare i denti. E poi abbozza.
La ragione?
Ce la mostra quest’altro grafico, dal quale si evince come Pechino abbia di fatto chiuso in angolo gli Usa, tanto da aver operato uno shift strategico nelle detenzioni di debito statunitense proprio nel pieno della pandemia: a febbraio del 2020, Pechino “custodiva” Bills a breve termine per 3 miliardi di dollari di controvalore, oggi per 76 miliardi. Il tutto, come mostra la biforcazione del grafico, a scapito delle detenzioni di titoli di Stato americani a lungo termine, quei Treasuries che sono (stati) di fatto il benchmark globale per il costo del denaro e le politiche sui tassi.
Ora non più, stante una Fed che cambia criteri valutativi in base alle necessità di Wall Street e accetta tranquillamente l’attuale overshoot inflazionistico, trincerandosi dietro al numero di occupati come nuovo indicatore di salute dell’economia e quindi di ricalibratura della politica monetaria.

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D’altronde, se Washington continua a minacciare con sanzioni, per quale motivo la Safe (State Administration of Foreign Exchange) cinese dovrebbe mettersi in pancia debito a lungo termine che potrebbe essere congelato o confiscato dal Tesoro Usa? Insomma, Washington bluffa. E Pechino risponde. Avendo il coltello dalla parte del manico.

Occorre quindi svendersi alla Cina, tradendo i rapporti atlantici? No.
Occorre però cominciare a guardare alla Cina e all’Asia più in generale come a un’opportunità (enorme) alternativa e paritetica, poiché sono i fatti a confermarlo. Altrimenti, continuiamo pure a basare la nostra crescita su business sclerotizzati con partner che utilizzano l’Europa come vaso comunicante dei propri eccessi, salvo mantenere mano libera nell’ampliare i propri orizzonti in base a opportunità e interessi di parte.

Trattare con la Cina significa doversi sedere a un tavolo dove, in partenza, le condizioni di dialogo non sono quelle esistenti tra pari? Forse è vero.
Trovatemi però un esempio di accordo fra Ue e Usa dal dopo-Lehman in poi che non abbia visto soccombere gli interessi europei, nel breve o nel lungo periodo.
Il motto sui mercati, si sa, è uno solo: Don’t fight the Fed, non combattere la Federal Reserve. Certo, se sei la piccola Europa non ti conviene. Ma se cerchi alleanze, magari con chi quella stessa Fed la tiene per il bavero di un doppio ricatto basato su detenzione di debito e leva dell’impulso creditizio globale, magari dall’altra parte dell’Oceano tornano su più miti consigli.

L’Asia è un cantiere a cielo aperto, un fermento continuo di business e investimento. E lo è proprio oggi, perché il mondo tenta di ripartire dal lockdown globale per entrare in una nuova fase di convivenza con il virus e con nuovi assetti ed equilibri geopolitici, economici e finanziari.
La Germania lo ha capito, ha messo la freccia e svoltato verso Est. Noi, cosa facciamo? Ci gingilliamo con pregiudizi e stereotipi?
 

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