Macroeconomia Usa-Europa La crisi che verrà è legata alla deflazione salariale

Sharnin 2

Forumer storico
La crisi che verrà è legata alla deflazione salariale
Joseph Halevi

Quali prospettive si aprono per il sistema eonomico negli Stati Uniti e nei paesi ed aree più significative? Tutti vogliono il rilancio della domanda, stavolta reale, nessuno però contempla l'abbandono della deflazione salariale. A Washington il Senato aveva bocciato i sussidi alle aziende automobilistiche Usa perchè queste si erano accordate con i sindacati per la riduzione dei salari ai livelli delle filiali delle aziende giapponesi e coreane a partire dal 2011 invece che dal 2009! La valanga di soldi catapultata, di fatto gratuitamente, verso le banche dal 2007 non ha rilanciato il credito. I soldi finiscono in titoli garantiti e in conti presso le banche centrali. Il perchè è ovvio: la bolla creditizia è scoppiata per via della sparizione dei valori dei titoli collaterali usati sia come garanzia che come indici di lucro futuro. Dietro di essi vi erano famiglie e persone insolventi, senza redditi sufficienti. Alla base di tale insufficienza sta la deflazione salariale.
La facile concessione di crediti ha simultaneamente agito da palliativo e da amplificatore della deflazione salariale, permettendo di mantenere un livello di spesa non raggiungibile con il solo salario, mentre il conseguente indebitamento riduce ulteriormente il salario reale attraverso il peso del servizio del debito. Negli Stati Uniti gli aiuti finanziari decisi pochi giorni fa in favore degli hedge fund hanno come obiettivo il rilancio del credito alle famiglie, le quali, nell'attuale recessione, non hanno alcuna speranza in una ripresa dei salari. Ma ciò significa riproporre esattamente lo stesso meccanismo in condizioni ove le famiglie hanno minori disponibilità. Le prospettive di ripresa negli Usa sono alquanto problematiche. Dipenderanno dalla dimensione e natura della spesa pubblica. Questa sarà determinata solo parzialmente da Obama, ma dalle esigenze che verranno accampate dalle nuove concentrazioni capitalistiche. Il salvataggio pubblico di banche ed affini e le operazioni di fusione patrocinate dal governo, hanno creato dei mastodonti finanziari deboli economicamente, in quanto ancora pieni di cartacce derivate senza appurabile valore, ma influentissimi nelle decisioni economiche del governo per via dellea loro dimensione.

Il resto del mondo nell'ultimo venticinquennio ha poggiato sugli Usa per chiudere il proprio circuito macroeconomico diventando così creditore netto verso Washington. Nell'eurozona la deflazione salariale è diventata sia il perno del compromesso tra i vari capitalismi continentali che lo strumento per la lotta neomercantilistica all'interno dell'Ue. La deflazione dei salari soddisfa gli interessi microeconomici di tutte le imprese che vedono il salario come un costo. Contemporaneamente ciascun paese mira ad una deflazione salariale maggiore della media per esportare in Europa. La dinamica europea dipende però dalle esportazioni nette extraeuropee e dalla spesa pubblica visto che gli investimenti sono a loro volta molto dipendenti dalle esportazioni e da spese esogene alle decisioni di impresa. La crisi della Germania, colpita dalla crisi Usa, acuisce, bloccando la dinamica intraeuropea, la calamità macroeonomica costituita dalla deflazione salariale. Inoltre la rivalutazione dell'euro rispetto al dollaro allontana la possibilità di trovare la via d'uscita nei mercati extraeuropei. In Giappone la ripresa economica è stata tirata dalla crescita e l'espansione globale delle proprie multinazionali nipponiche ha permesso il rimpatrio di grandi profitti. Il tasso di espansione della Cina calerà notevolmente colpendo le esportazioni nipponiche. La Cina manterrà però la sua posizione di esportatrice netta, sempre più a scapito del Giappone. E'possibile dunque che si apra una nuova fase in cui la posizione dei conti esteri nipponici sarà assai problematica. L'eventualità del fenomeno deve essere collegata anche alle perdite subite dalle multinazionali nipponiche per via della crisi negli Usa ed in Europa. Ne discende un probabile calo nel rimpatrio dei profitti. Il Giappone può quindi entrare in un periodo di recessione con perdite nella bilancia dei pagamenti. Prolungata nel tempo, tale situazione potrebbe determinare un cambiamento profondo negli assetti capitalistici del paese con delocalizzazioni anche massicce verso la Cina.
Terminiamo la rassegna con la Cina, che aumenterà il proprio peso nell'economia mondiale senza però sfuggire alla crisi. Il governo di Pechino cercherà di arginarla per non bloccare lo sviluppo. Ma le zone più esposte alle esportazioni specialmente nei prodotti la cui produzione mondiale è altamente localizzata in Cina, verranno ulteriormente colpite. Continueranno anche le delocalizzazioni verso la Cina come nell'ipotesi summenzionata del Giappone. Attualmente, secondo le corrispondenze dagli Usa della Bbc, locali aziende di macchine utensili in crisi, si stanno spostando in Cina per usufruire dei minori costi salariali ed esportare la loro produzione verso gli Usa. Nella sostanza la Cina subirà l'effetto negativo del calo della domanda nei paesi maturi, mantre continuerà a funzionare da zona di produzione a basso costo salariale per molti settori dell'economia mondiale.
 
L'abisso di insolvenza che Barack non vede
Joseph Halevi

Col passare del tempo il moltiplicarsi degli annunci e delle decisioni circa programmi di urgenza per arginare la crisi non ne rallentano la forza inerziale mentre si acuisce la confusione circa gli orientamenti da prendere.
Negli Stati uniti tale confusione sta diventando un ginepraio finanziario-istituzionale. Il risultato è che la sfiducia e l'incertezza si radicano sempre di più soprattutto nel sistema bancario. Ne consegue che le banche, pur ricevendo grandi ondate di soldi, non rilanciano i prestiti che, anzi, sono resi più problematici dalla crisi delle vendite effettive di beni prodotti.
La situazione si è aggravata al punto che, tramite Martin Wolf, il Financial Times dell' 11 febbraio ha lanciato un grido di allarme che suona più come un urlo di disperazione. Il quotidiano britannico riporta l'attenzione sulla solvibilità delle banche americane. Il che è di per sé significativo. Infatti fintanto che le famiglie saranno costrette ad affrontare da sole la deflazione da debito, quindi a non comperare per pagare i debiti, cui si aggiunge il non comperare per via della perdita del posto di lavoro, la crisi si approfondirà indipendentemente dalla posizione contabile della banche. E' molto improbabile che il giornale londinese non lo sappia. Il grido lanciato dal Financial Times ha quindi un valore istituzionale: di paura di un blocco totale del rapporto tra Stato e finanza che vanificherebbe ogni pur limitato effetto positivo degli interventi effettuati e programmati.
Il contesto è quello in cui le valutazioni circa le perdite che originano dalle cartolarizzazioni statunitensi superano, secondo il Fondo Monetario Internazionale, i 2200 miliardi di dollari avvicinandosi ai 3000 e passa miliardi stimati da Nouriel Roubini che ancora un anno fa veniva preso per piromane. Questo vuol dire che il sistema bancario Usa è nei fatti insolvente in quanto le passività sarebbero in questo modo superiori alle attività. Bisogna inoltre aggiungere che le passività non sono una quantità data di cartacce ma si evolvono con la situazione economica «reale». Al deteriorarsi di questa, altre carte considerate come buone diventano marce e si aggiungono alle passività.
Ora fin dall' esplodere della crisi alla luce del sole nell'agosto del 2007 il problema è stato affrontato come se si trattasse di una questione di illiquidità temporanea, da risolvere dando soldi alle banche. Questo modo di vedere le cose, osserva il Financial Times, non è radicalmente cambiato con l'ascesa di Obama alla presidenza. Il suo piano pubblico si propone di acquistare cartacce tossiche e iniettare soldi nelle banche non oltre i 350 miliardi di dollari ancora disponibili nel programma già varato in autunno. Tuttavia se il problema è l'insolvenza ci vorranno molti più soldi e l'operazione creerebbe ulteriori danni gravi in quanto regalerebbe denaro ad istituzioni fallimentari e sovvenzionerebbe i dentori delle cartacce.
Da dove origina, si chiede Wolf, il passo falso di Obama? Dal fatto, risponde, che il neo presidente si è posto tre vincoli del tutto arbitrari: nessuna nazionalizzazione, nessuna perdita per i detentori di obbligazioni, nessun finanziamento aggiuntivo da parte del Congresso. Queste auto-limitazioni non corrispondono alla gravità delle crisi ma denotano timidezza. A mio avviso le osservazioni del quotidiano londinese sono valide e se ne desume che il problema della crisi è molto ma molto lontano dall'essere abbordato. E se ciò vale per gli Stati uniti, lasciamo perdere l'Europa.
 
Un piano che riconosce i limiti di riformabilità degli Usa
di Joseph Halevi

Dal discorso del presidente eletto Barack Obama all'università George Mason, in Virginia, appare esplicitamente come egli sia molto più consapevole - rispetto agli altri politici - della dimensione della crisi economica e della sua natura epocale. Implicitamente emerge anche come Obama abbia sentore dell'enorme difficoltà di riformare gli Stati Uniti.

Si possono accettare senza esitazione tutte le proposte da lui elencate. Esse non sono tuttavia sufficienti, ma non soltanto per le ragioni puramente quantitative articolate da Paul Krugman sul New York Times dell'8 gennaio. Date le stime del Congressional Budget Office - che prevede, nel prosssimo biennio, una caduta del Pil per 2,8 miliardi di dollari - Krugman osserva che i 775 miliardi di stimolo fiscale menzionati da Obama produrranno, keynesianamente, un effetto «moltiplicatore» pari a poco meno di 1200 miliardi. Una somma molto lontana, nei suoi effetti occupazionali, rispetto alla perdita stimata. Viene anche fatto osservare che solo il 60% del programma di Obama è costituito da spese pubbliche aggiuntive; il restante 40% proviene dalla riduzione delle tasse. Gli effetti espansivi di quest'ultima misura sono molto dubbi, soprattutto se gli sgravi fiscali saranno indirizzati alle imprese: i nuovi investimenti dipendono infatti più dalla domanda, che da sconti sulle tasse.
Tutte cose giuste, insomma, sia dal lato di Obama che da quello - critico - di Krugman. A mio avviso entrambe sono alquanto irrilevanti, se non collocate in un quadro di riforma cruciale del capitalismo Usa. Di questo Obama sembre essere consapevole, focalizzando la sua critica sulle banche, oggi viste come il male fondamentale. Così facendo, però, egli isola il «male» dalla sua dimensione sistemica, malgrado dica che la crisi non è il «normale» risultato del ciclo economico. Il comportamente del settore finanziario non è nato dal nulla. E' stato prodotto da meccanismi economici e istituzionali volti a tenere in piedi la dinamica economica malgrado la stagnazione latente. Negli ultimi trent'anni tale stagnazione si è manifestata attraverso il calo dei salari reali e nell'incapacità del complesso militare-industriale di colmare il vuoto di domanda effettiva. Un vuoto che è stato riempito dall'indebitamento, a sua volta reso possibile dalle politiche di «denaro facile» adottate dalla Federal Reserve e del credito da parte delle banche private.
Cambiare un'economia che fino a ieri si è fondata sul sistema militare-industriale da un lato e finanziario indebitorio dell'altro - con tutti gli squilibri nei conti mondiali che ne sono scaturiti - è un lavoro di Sisifo, che implica una riforma radicale del ruolo dello stato federale, dei singoli stati dell'Unione, e del sistema legislativo. Staremo a vedere. Tuttavia vale la pena ricordare il naufragio della pur moderata proposta riformatrice del sistema sanitario avanzato da Hilary Clinton. Cozzò contro ideologie e interessi costituiti di ospedali privati, corporazioni mediche, società di assicurazione, società produttrici di macchinari medici, ecc. Tutti soggetti che beneficiano dell'alto costo delle cure mediche negli Usa. (Interessi che qui si stanno costituendo, cfr asse Formigoni-Lombardo)
E questa era solo una riforma parziale, incentrata sul ruolo della «famiglia».
Visti da lontano, gli Usa - per non essere un fattore di crisi sull'economia mondiale - abbisognano di una serie di riforme come l'indebolimento del complesso militare-industriale (assai improbabile), la riforma del sistema bancario, di quello sanitario e dell'istruzione pubblica.
La deposizione al Congresso effettuata nel 2007 da Elizabeth Warren, docente presso la facoltà di legge dell'Università di Harvard, mostra lucidamente la connessione tra la spesa sanitaria e per l'istruzione e la crisi finanziaria delle famiglie, sempre più obbligate a ricorrere all'indebitamento per farvi fronte. Questo è però un problema istituzionale che pesa direttamente sui rapporti sociali, di classe, e non è risolvibile attraverso un normale «moltiplicatore» keynesiano. La Warren ha infatti provato come tutte le spese concernenti i beni correnti siano fortemente calate negli ultimi tre decenni.
Tutto il peso delle spese aggiuntive ricade su servizi sanitari, istruzione e assicurazioni. Il meccanismo è infernale e internazionale.
Le spese per beni correnti sono calate in proporzione al reddito per unità familiare grazie ai prezzi più bassi - frutto della deindustrializzazione e delle importazioni (prevalentemente dal'Asia e dall'America Latina). Questo stesso processo sta alla base della caduta dei salari e quindi del ricorso all'indebitamento. Esso è anche causa degli squilibri mondiali. Good luck Obama.
 

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