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La Fed non alza i tassi
Una prova di flessibilità
Mario Tettamanti
La Federal Reserve, in fatto di politica monetaria, segue un modello molto semplice in cui la differenza tra la crescita economica effettiva e la crescita potenziale, vale a dire quanto è in grado di produrre senza causare tensioni nel mercato del lavoro e nella capacità di generare business, gioca un ruolo centrale. Quando l’economia si muove sopra la crescita potenziale, le aziende e i lavoratori hanno più spazio per aumentare i prezzi e i salari. Quando l’economia si muove sotto la sua potenzialità, l’inflazione (da prezzi e da salari) tende a scendere. Ebbene, i recenti dati sulla crescita economica (Pil del secondo trimestre al 2,5%) e le considerazione contenute nell’ultimo Beige Book in cui si afferma a chiare lettere che l’attività economica ha risentito del ridimensionamento degli investimenti aziendali (la prima volta in tre anni) e del rallentamento dei consumi, che sono il 70% sulla crescita dell’economia, hanno convinto Ben Bernanke che l’attuale spinta inflazionistica (3,6%) non sia da attribuire alla forza dell’economia ma piuttosto al rialzo dei prezzi del petrolio.
Dunque, il messaggio che la Fed ha voluto lanciare ieri attraverso lo stallo sui tassi d’interesse, è che l’attuale aumento dei prezzi è un fenomeno temporaneo, determinato dal rincaro delle materie prime e soprattutto dal petrolio e che quindi deve essere valutato come un indice del passato e non necessariamente del futuro. Su queste basi di ragionamento la decisione della banca centrale americana che, per la prima volta negli ultimi due anni e dopo 17 rialzi consecutivi ha lasciato i tassi di base sul dollaro fermi al 5,25%, appare pienamente giustificata.
La decisione della Fed non è comunque avulsa da rischi: la congiunzione tra economia che frena e prezzi al rialzo è il «nightmare» degli economisti e dei banchieri centrali: l’economia che frena vorrebbe tassi più bassi, l’inflazione che spinge (pur attizzata da fattori esogeni come il prezzo del greggio) richiede invece tassi più alti. Da quanto si può osservare al momento appare chiaro che il rallentamento dell’economia e il rialzo dell’inflazione potrebbero concretizzarsi, seppur in forme e in dimensioni diverse, nella stagflazione degli anni Settanta. La responsabilità di questa pericolosa situazione va attribuita alle politiche monetarie espansionistiche degli ultimi anni. La grande liquidità in circolazione non si è ancora tradotta in un significativo aumento dei prezzi a causa della dinamica deflazionistica frutto della globalizzazione, ma ha innescato un pericoloso movimento dei prezzi dell’ immobiliare, delle attività finanziarie e delle materie prime. Bernanke sa quali sono i pericoli di questa situazione (vedi il rialzo del costo del lavoro annunciato ieri) ed è cosciente del fatto che potrebbe anche aver fatto la scelta sbagliata. Ma è sicuramente quella più indolore perché potrebbe essere corretta più in là, quando dall’economia giungeranno nuovi e più precisi segnali.
Se la Federal Reserve ha giustificati dubbi, non è invece così per i dirigenti della Banca Centrale Europea. Pericolosamente sicuri di sé sono infatti i «banchieri di Francoforte» che considerano adeguato (anzi, forte) il tasso di crescita dell’economia europea (+2,1% ) e pure forte la spinta inflazionista (2,5%). Da qui la decisione della scorsa settimana di alzare i tassi di altri 25 punti base e le osservazioni di esponenti della BCE che considerano che la stretta europea non sembra destinata ad esaurirsi, nonostante gli inviti alla cautela giunti dal Fondo Monetario Internazionale e da alcuni pensatori di tutto rispetto.
CdT
Una prova di flessibilità
Mario Tettamanti
La Federal Reserve, in fatto di politica monetaria, segue un modello molto semplice in cui la differenza tra la crescita economica effettiva e la crescita potenziale, vale a dire quanto è in grado di produrre senza causare tensioni nel mercato del lavoro e nella capacità di generare business, gioca un ruolo centrale. Quando l’economia si muove sopra la crescita potenziale, le aziende e i lavoratori hanno più spazio per aumentare i prezzi e i salari. Quando l’economia si muove sotto la sua potenzialità, l’inflazione (da prezzi e da salari) tende a scendere. Ebbene, i recenti dati sulla crescita economica (Pil del secondo trimestre al 2,5%) e le considerazione contenute nell’ultimo Beige Book in cui si afferma a chiare lettere che l’attività economica ha risentito del ridimensionamento degli investimenti aziendali (la prima volta in tre anni) e del rallentamento dei consumi, che sono il 70% sulla crescita dell’economia, hanno convinto Ben Bernanke che l’attuale spinta inflazionistica (3,6%) non sia da attribuire alla forza dell’economia ma piuttosto al rialzo dei prezzi del petrolio.
Dunque, il messaggio che la Fed ha voluto lanciare ieri attraverso lo stallo sui tassi d’interesse, è che l’attuale aumento dei prezzi è un fenomeno temporaneo, determinato dal rincaro delle materie prime e soprattutto dal petrolio e che quindi deve essere valutato come un indice del passato e non necessariamente del futuro. Su queste basi di ragionamento la decisione della banca centrale americana che, per la prima volta negli ultimi due anni e dopo 17 rialzi consecutivi ha lasciato i tassi di base sul dollaro fermi al 5,25%, appare pienamente giustificata.
La decisione della Fed non è comunque avulsa da rischi: la congiunzione tra economia che frena e prezzi al rialzo è il «nightmare» degli economisti e dei banchieri centrali: l’economia che frena vorrebbe tassi più bassi, l’inflazione che spinge (pur attizzata da fattori esogeni come il prezzo del greggio) richiede invece tassi più alti. Da quanto si può osservare al momento appare chiaro che il rallentamento dell’economia e il rialzo dell’inflazione potrebbero concretizzarsi, seppur in forme e in dimensioni diverse, nella stagflazione degli anni Settanta. La responsabilità di questa pericolosa situazione va attribuita alle politiche monetarie espansionistiche degli ultimi anni. La grande liquidità in circolazione non si è ancora tradotta in un significativo aumento dei prezzi a causa della dinamica deflazionistica frutto della globalizzazione, ma ha innescato un pericoloso movimento dei prezzi dell’ immobiliare, delle attività finanziarie e delle materie prime. Bernanke sa quali sono i pericoli di questa situazione (vedi il rialzo del costo del lavoro annunciato ieri) ed è cosciente del fatto che potrebbe anche aver fatto la scelta sbagliata. Ma è sicuramente quella più indolore perché potrebbe essere corretta più in là, quando dall’economia giungeranno nuovi e più precisi segnali.
Se la Federal Reserve ha giustificati dubbi, non è invece così per i dirigenti della Banca Centrale Europea. Pericolosamente sicuri di sé sono infatti i «banchieri di Francoforte» che considerano adeguato (anzi, forte) il tasso di crescita dell’economia europea (+2,1% ) e pure forte la spinta inflazionista (2,5%). Da qui la decisione della scorsa settimana di alzare i tassi di altri 25 punti base e le osservazioni di esponenti della BCE che considerano che la stretta europea non sembra destinata ad esaurirsi, nonostante gli inviti alla cautela giunti dal Fondo Monetario Internazionale e da alcuni pensatori di tutto rispetto.
CdT