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La maledizione di Re Mida
Petrolio, oro, diamanti: per i paesi del Sud del mondo spesso possedere ricchezze minerarie è una condanna peggiore che esserne privi. Perché la popolazione non ricava vantaggi dal loro sfruttamento, concentrato nelle mani di potenti corporations conniventi con governi corrotti. E ne subisce, invece, i danni ambientali.
Da Nairobi una campagna internazionale, rilanciata in Italia dalla Focsiv, chiede ora regole vincolanti per le industrie estrattive.
di Federica Cravero
Capita, e non di rado, che per attirare l'attenzione su un fenomeno si cerchi una via più pericolosa ma, si spera, mediaticamente vincente. Così il rapimento di alcuni tecnici italiani impiegati in Nigeria per conto dell'Agip avrebbe dovuto spingere giornali e politici ad affrontare il tema dell'estrazione di petrolio nella zona del Delta del Niger. Invece se n'è parlato, ma poco. Il rapimento si è concluso, i tecnici sono tornati a casa e la questione delle materie prime è stata archiviata.
Ricchezze che impoveriscono
Eppure il tema delle attività estrattive è uno dei più importanti sul piano internazionale: per le enormi ricchezze che muove, per gli equilibri politici che tocca, per le potenzialità di sviluppo delle economie locali (che in realtà quasi mai arrivano) e per le conseguenze, spesso dannose, sui popoli indigeni e sull'ambiente.
Come il Delta del Niger, molte altre zone del mondo vivono le conseguenze di ospitare sul proprio territorio una ricchezza che anziché migliorare la qualità di vita ingrassa ricchi investitori occidentali o conniventi poteri locali. Problemi simili si verificano negli altri paesi del Golfo di Guinea (Angola, Congo, Guinea Equatoriale e Costa d'Avorio), in Romania, Venezuela, Ecuador...
Un tentativo di alzare il velo sulla questione è stato fatto al World social forum di Nairobi, dal 20 al 25 gennaio 2007. Lì Focsiv, membro italiano del Cidse, la rete delle agenzie di sviluppo cattoliche di Europa e Nordamerica, ha lanciato un appello alla comunità internazionale perché cessi lo sfruttamento indiscriminato delle risorse minerarie dei paesi in via di sviluppo a opera di multinazionali e governi.
Il problema sta tutto qui: invece di ricchezza, le attività estrattive portano violenza e disagi sociali. Le multinazionali, mancando una legislazione internazionale che ne limiti l'operato, estraggono oro, diamanti, petrolio senza curarsi del disastroso impatto ambientale e sociale derivante. Come in Guatemala, dove nelle terre degli indios si è impiantato il progetto Marlin, una miniera d'oro a basso costo e alto reddito per i magnati statunitensi. Ma c'è chi non è stato a guardare: come Magalì Rey Rosa, leader di Madre Selva, associazione che si batte contro questo piano di sfruttamento nel nordest del paese, dove 10 mila ettari di terre sono state strappate ai maya per farne una gigantesca miniera a cielo aperto i cui profitti vanno nelle casse della Glamis Gold, multinazionale dell'oro con sede in Nevada. Il progetto è criminale già sulla carta: «Per ridurre i costi di estrazione, prevede di allontanare gli abitanti dalle terre e poi irrorare con enormi quantità di cianuro, la sostanza più economica per separare la roccia dal metallo» dice Magalì Rey Rosa. «L'equilibrio umano e sociale, ma anche ecologico, saranno intaccati per sempre». Non solo: poiché si tratta di un investimento in un paese ritenuto insicuro, la Glamis Gold riceverà un contributo dalla Banca mondiale.
Dove sfocia l'oro nero
La presa di posizione della Focsiv nella campagna internazionale testimonia un impegno forte dell'Italia per arginare il problema delle risorse estrattive. Ma proprio l'Italia è al centro di polemiche per il ruolo che l'Eni sta giocando in alcuni territori strategici del pianeta. «Dobbiamo chiedere alle compagnie italiane coinvolte in attività estrattive di far proprio questo appello e rispettare i diritti delle comunità locali per incentivare lo sviluppo e fermare ogni sfruttamento indiscriminato delle loro risorse», afferma Sergio Marelli, direttore generale Focsiv.
Il rapimento dei tecnici Agip in Nigeria fa pensare che il nostro intervento non sia del tutto gradito. Ma a rapine e rapimenti non sono sfuggite neanche le altre compagnie straniere. Attacchi spesso rivendicati dal Movimento per l'emancipazione del Delta del Niger, un gruppo armato a difesa degli interessi dell'etnia Ijaw, che da anni accusa il governo di escluderla dai profitti del petrolio. Perciò è nato il Centre for social and corporate responsibility (Cscr), che dà voce alle comunità locali preoccupate dalla presenza delle società petrolifere, e diffonde una cultura di rispetto dei diritti umani. Boniface Dumpe, direttore del Cscr, è di etnia ogoni. Al World social forum ha raccontato quando, nei primi anni Novanta, 80 manifestanti che protestavano contro la Shell furono massacrati dai soldati. Un episodio come tanti, passati nel silenzio. «Il fatto che l'economia mondiale ruoti attorno al petrolio ha creato gravi problemi - sostiene Dumpe - Anzitutto leggi ingiuste, come il Land use act 1978 e il Petroleum act 1969 che danno le basi per l'espropriazione, la deprivazione, il sottosviluppo, la povertà e il conflitto, tutte conseguenze dell'estrazione di petrolio». Ma il problema è soprattutto sociale: «Occorre che nello Stato federale siano inclusi anche i rappresentanti dei gruppi etnici - dice Dumpe - e alle comunità sia consentita un'equa partecipazione ai profitti. Inoltre l'attività estrattiva deve essere costantemente monitorata da un ente indipendente. E per raggiungere lo sviluppo sostenibile, la Nigeria deve riappropriarsi al 100% del controllo sulle sue risorse naturali».
L'Atlante del petrolio
Il petrolio è anche una delle piaghe dell'Ecuador. Negli anni Settanta il governo rilasciò ad alcune multinazionali concessioni per fare ricerca ed estrazione di petrolio in un'area di oltre 1 milione di ettari nell'Amazzonia, uno dei territori più ricchi di specie animali e vegetali al mondo. Inutile dire quanto l'intervento dell'industria sia stato devastante in una zona dagli eco-sistemi così delicati: per la vegetazione, la fauna, e gli indios. E le comunità locali non hanno tratto alcun beneficio, mentre il debito del paese è aumentato di 22 volte da quando le corporations del petrolio hanno scoperto l'Eldorado ecuadoriano. E tra le aziende che si sono arricchite un posto di rilievo ce l'hanno le italiane Agip ed Eni.
A farsi carico della situazione è stata la biologa Esperanza Martínez Yánez - fondatrice dell'associazione Acción Ecológica, coordinatrice dell'Osservatorio socio-ambientale dell'Amazzonia e cofondatrice di Oil-watch, che è riuscita a tessere una rete di associazioni locali, con alleanze tra i gruppi della conca amazzonica e associazioni del Sud e del Nord del mondo. «Negli anni abbiamo raccolto denunce, registrato le fuoruscite di petrolio, sostenuto le comunità allontanate dalle loro terre per far posto ai pozzi, appoggiato le battaglie di villaggi inquinati e abbiamo tracciato una mappa per capire come l'estrazione del greggio ha mutato la geografia dell'Amazzonia», spiega Esperanza Martínez. Un lavoro minuzioso quello dell'Atlante del petrolio: ogni informazione deve essere ben documentata per non incorrere in contro-denunce e ritorsioni. «La Texaco, ora Chevron, ha pompato petrolio per 28 anni - dice la biologa - Dal '92, quando è scaduto il contratto, chiediamo che ripuliscano, visto che hanno usato la peggiore tecnologia disponibile per risparmiare. In generale è importante che le risorse energetiche passino nelle mani pubbliche: in Bolivia si è nazionalizzato il gas, in Venezuela si è proceduto attraverso il sistema fiscale, mentre in Ecuador si sono rivisti i contratti di concessione alle multinazionali, ma è ancora troppo forte il controllo delle élite al potere, preoccupate per le reazioni della popolazione».
La lotta del Ciad
Magalì Rey Rosa, Esperanza Martínez Yánez. Sono per lo più le donne che osano opporsi allo sfruttamento delle risorse estrattive. Donne come Delphine Djiraibe, avvocato del Ciad specialista in diritti umani e difesa dell'ambiente. Anche in Ciad la società civile si è mobilitata perché la Banca mondiale facesse una moratoria sul progetto dell'oleodotto da oltre 1.000 km che oggi collega i pozzi della regione di Doba con il Camerun, finché il governo del Ciad non avesse provveduto a istituire una cornice giuridica a tutela dei diritti umani e degli standard ecologici. L'oleodotto Ciad-Camerun, con i suoi 3,7 miliardi di dollari di investimento, è una delle più grandi infrastrutture africane. «La Banca mondiale voleva che il progetto fosse un modello di riduzione della povertà e di tutela ambientale - spiega Delphine Djiraibe - Gli stessi obiettivi che avevo indicato nella mia campagna, chiedendo che i profitti del progetto fossero redistribuiti per l'educazione, la salute, le infrastrutture e lo sviluppo del Ciad». Ma Delphine ha incontrato la dura opposizione del governo. La Banca mondiale ha finanziato il progetto ma, ascoltando l'appello dell'avvocato Djiraibe, per la prima volta ha insistito perché il governo del Ciad adottasse una legge di gestione fiscale e stabilisse un comitato di supervisione sull'uso dei profitti del petrolio. Una clausola rimasta lettera morta, dato che il paese è sull'orlo della guerra civile, e parte dei primi soldi ottenuti con l'oleodotto sono stati spesi dal presidente Idriss Deby per comprare armi: perché la presenza dell'oleodotto impone di rafforzare le misure di sicurezza. Nemmeno un soldo è stato speso per la salute e l'educazione.
L'oro che non luccica
Soprattutto l'oro, simbolo di potere e ricchezza, provoca distruzione e miseria per molte popolazioni. In Honduras le miniere auree sono aumentate dagli anni Novanta, quando il governo ha accordato molte concessioni per attrarre investimenti dopo l'uragano Mitch del '98, e la società civile ha dovuto lavorare sodo per una riforma legislativa a favore della popolazione.
L'estrazione dell'oro, oltre ai problemi sociali, è fonte di disastri ambientali per gli effetti delle sostanze (come il mercurio) usate per separare il metallo dalla pietra. Dal 40 al 70% dei minatori è intossicato dal mercurio, e la mortalità per cancro è significativamente più alta dopo 20 anni di esposizione, mentre la silicosi colpisce il 35-47% dei minatori. Inoltre, nelle miniere sia sotterranee che a cielo aperto, la polvere tossica delle attività estrattive è fonte di malattie per i lavoratori, ma anche per le comunità che abitano vicino.
L'inquinamento tocca anche alcuni paesi europei, come Romania e Bulgaria, il primo alle prese con la miniera di Baia Mare (dove l'esplosione in un bacino di decantazione ha gettato nel fiume 100 mila m³ di acque reflue contenenti fino a 120 tonnellate di cianuro e metalli pesanti) e di Rosia Montana, con un corollario di siti archeologici devastati e 2.000 persone sfollate. La Bulgaria invece deve fare i conti con l'impianto a cielo aperto di Ada Tepe, basato su una tecnologia al cianuro.
Ma c'è un'altra conseguenza, seppur indiretta, dell'attività mineraria: la diffusione di Hiv e Aids. Le industrie estrattive infatti attraggono migranti in cerca di lavoro, che stanno lontani da casa per lungo tempo incrementando i rapporti sessuali con partner occasionali, e facendo abuso di alcol e droghe. I migranti inoltre hanno minor accesso al servizio medico, anche perché spesso lavorano in nero. Ciò fa sì che anche le mogli a casa siano più soggette a contrarre il virus, una volta tornati i mariti. Il fenomeno è tanto rilevante da essere stato inserito nel South Africa white paper on minerals and mining del '98, che prevede interventi delle aziende per mitigare la diffusione di Aids.
Dicono le ong
Per tutti questi motivi l'appello del Cidse, rilanciato da Focsiv, si rivolge a tutti gli interlocutori coinvolti nell'estrazione di materie prime: ai governi dei paesi industrializzati e in via di sviluppo, alle imprese e alle istituzioni internazionali.
In particolare si chiedono politiche chiare e progetti di legge in linea con gli standard internazionali sui diritti umani e l'ambiente, monitoraggi sull'operato delle industrie estrattive, valutazioni indipendenti, pubbliche e comprensibili dalla gente del posto, sull'impatto ambientale e sociale, leggi che rendano le industrie responsabili per le attività che svolgono. Inoltre le comunità locali devono partecipare a tutti gli stadi del progetto estrattivo, dando il loro consenso alla concessione delle licenze o alla rinegoziazione dei contratti, senza subire intimidazioni. Alle imprese transnazionali, infine, si chiede di sottoscrivere l'Eiti (iniziativa per la trasparenza delle industrie estrattive), di assicurare la distribuzione equa dei profitti e garantire che la loro presenza non causi o inasprisca un conflitto. In caso di trasgressione dovrebbero essere previste aspre sanzioni, al momento assenti.
Africa: la conquista cinoamericana
Usa e Cina alla conquista dell'Africa. È questa la nuova scena che si prospetta sullo scacchiere mondiale: un neocolonialismo energetico che coinvolge le due potenze a caccia di risorse in territori fino a pochi anni fa inesplorati. E per l'Agenzia internazionale dell'energia (Iea), assumeranno sempre più valore le riserve petrolifere marine, specie quelle off shore concentrate nel "Triangolo d'oro" che include anche le coste occidentali dell'Africa.
La dimostrazione del nuovo interesse sono stati il viaggio del presidente George W. Bush nel 2003 in Senegal, Nigeria, Uganda e Sudafrica e la visita di Colin Powell (la prima di un segretario di Stato Usa) in Angola e Gabon l'anno prima. Chiaro il messaggio: l'Africa è un terreno appetibile e vanno consolidati i legami militari in chiave antiterroristica per difendere, in realtà, le risorse petrolifere dell'area.
Crescente interesse anche della Cina, che con il suo boom economico necessita sempre più di risorse petrolifere, ed è il secondo utilizzatore mondiale dopo gli Usa. Le relazioni cinesi con il continente nero risalgono agli anni 70, quando Pechino sostenne la lotta dei neonati Stati africani contro le potenze coloniali europee, favorendo la diffusione degli ideali comunisti presso le giovani élite di colore. Ma finito il bipolarismo l'interesse ideologico ha ceduto il posto a quello economico. Zhou Wenzhong, vice ministro degli Esteri, ha sostenuto che la Cina vuole perseguire i propri obiettivi petroliferi in Africa separando gli affari dalla politica. Perciò ha già avviato - malgrado la riprovazione internazionale per i rapporti con Al Qaeda e l'emergenza umanitaria in Darfur - intensi rapporti con il Sudan, di cui importa metà del greggio prodotto. Lo stesso capita in Zimbabwe, inviso agli Usa. Sono solo le prime mosse di quella che si prospetta come una lunga e ostica partita a Risiko. E sullo sfondo la vita di milioni di poveri.
L'Ue e i rifiuti estrattivi
Il 19 luglio 1985, a Stava (Trento), un bacino di decantazione per sterili di fluorite crollò, rilasciando 200 mila m³ di inquinanti, che provocarono la morte di 268 persone. Ma altri incidenti gravi si verificarono in Galles nel '66, in Spagna nel '98 e in Romania due anni dopo. Così la Commissione europea ha emesso una normativa ad hoc per i rifiuti da attività estrattiva, necessaria anche per lo scarso controllo dei paesi membri. Secondo l'Agenzia europea per l'ambiente, i rifiuti da attività estrattive sono oltre 400 milioni di tonnellate, circa il 29% del totale dei rifiuti prodotti ogni anno nell'Ue. Una delle maggiori preoccupazioni è l'allargamento dell'Ue ai paesi dell'Est, dove si concentra un alto numero di siti estrattivi privi di adeguate tutele ambientali.
I rifiuti si formano in seguito alla rimozione dello strato superiore del terreno, il topsoil, depositato in loco per poi venir usato per ricoprire l'area con interventi di rivegetazione. Una parte di questi rifiuti è inerte, ma un'altra parte viene contaminata delle sostanze usate nella lavorazione. Il problema ambientale più serio è legato al drenaggio acido. Quando materiali ricchi di solfuri contenuti nella roccia e negli sterili sono esposti a ossigeno e acqua reagiscono formando acidi solforici, persistenti e difficili da combattere, che a contatto con l'acqua la rendono non potabile.
L'appello di Nairobi
"Noi, membri delle organizzazioni di società civile - si legge nell'appello siglato al World social forum di Nairobi - crediamo che le risorse naturali di un paese appartengano ai suoi cittadini e vadano usate nel miglior interesse della popolazione. Queste risorse naturali sono un dono di Dio e devono essere messe a disposizione di tutti gli esseri umani e delle future generazioni. Siamo preoccupati del fatto che le popolazioni che vivono nelle aree in cui vengono sfruttate le risorse naturali, come il petrolio, il gas, le miniere e le foreste, invece di trarre beneficio da questo vedono aumentare giorno per giorno la loro povertà. Questo sfruttamento porta a conseguenze devastanti quali mancanza di cibo, guerre, persistenti violazioni dei diritti umani, degrado ambientale e corruzione, che colpiscono soprattutto le donne. La corsa per le limitate risorse naturali minaccia la sicurezza umana in tutto il mondo".
Da www.volontariperlosviluppo.it
Petrolio, oro, diamanti: per i paesi del Sud del mondo spesso possedere ricchezze minerarie è una condanna peggiore che esserne privi. Perché la popolazione non ricava vantaggi dal loro sfruttamento, concentrato nelle mani di potenti corporations conniventi con governi corrotti. E ne subisce, invece, i danni ambientali.
Da Nairobi una campagna internazionale, rilanciata in Italia dalla Focsiv, chiede ora regole vincolanti per le industrie estrattive.
di Federica Cravero
Capita, e non di rado, che per attirare l'attenzione su un fenomeno si cerchi una via più pericolosa ma, si spera, mediaticamente vincente. Così il rapimento di alcuni tecnici italiani impiegati in Nigeria per conto dell'Agip avrebbe dovuto spingere giornali e politici ad affrontare il tema dell'estrazione di petrolio nella zona del Delta del Niger. Invece se n'è parlato, ma poco. Il rapimento si è concluso, i tecnici sono tornati a casa e la questione delle materie prime è stata archiviata.
Ricchezze che impoveriscono
Eppure il tema delle attività estrattive è uno dei più importanti sul piano internazionale: per le enormi ricchezze che muove, per gli equilibri politici che tocca, per le potenzialità di sviluppo delle economie locali (che in realtà quasi mai arrivano) e per le conseguenze, spesso dannose, sui popoli indigeni e sull'ambiente.
Come il Delta del Niger, molte altre zone del mondo vivono le conseguenze di ospitare sul proprio territorio una ricchezza che anziché migliorare la qualità di vita ingrassa ricchi investitori occidentali o conniventi poteri locali. Problemi simili si verificano negli altri paesi del Golfo di Guinea (Angola, Congo, Guinea Equatoriale e Costa d'Avorio), in Romania, Venezuela, Ecuador...
Un tentativo di alzare il velo sulla questione è stato fatto al World social forum di Nairobi, dal 20 al 25 gennaio 2007. Lì Focsiv, membro italiano del Cidse, la rete delle agenzie di sviluppo cattoliche di Europa e Nordamerica, ha lanciato un appello alla comunità internazionale perché cessi lo sfruttamento indiscriminato delle risorse minerarie dei paesi in via di sviluppo a opera di multinazionali e governi.
Il problema sta tutto qui: invece di ricchezza, le attività estrattive portano violenza e disagi sociali. Le multinazionali, mancando una legislazione internazionale che ne limiti l'operato, estraggono oro, diamanti, petrolio senza curarsi del disastroso impatto ambientale e sociale derivante. Come in Guatemala, dove nelle terre degli indios si è impiantato il progetto Marlin, una miniera d'oro a basso costo e alto reddito per i magnati statunitensi. Ma c'è chi non è stato a guardare: come Magalì Rey Rosa, leader di Madre Selva, associazione che si batte contro questo piano di sfruttamento nel nordest del paese, dove 10 mila ettari di terre sono state strappate ai maya per farne una gigantesca miniera a cielo aperto i cui profitti vanno nelle casse della Glamis Gold, multinazionale dell'oro con sede in Nevada. Il progetto è criminale già sulla carta: «Per ridurre i costi di estrazione, prevede di allontanare gli abitanti dalle terre e poi irrorare con enormi quantità di cianuro, la sostanza più economica per separare la roccia dal metallo» dice Magalì Rey Rosa. «L'equilibrio umano e sociale, ma anche ecologico, saranno intaccati per sempre». Non solo: poiché si tratta di un investimento in un paese ritenuto insicuro, la Glamis Gold riceverà un contributo dalla Banca mondiale.
Dove sfocia l'oro nero
La presa di posizione della Focsiv nella campagna internazionale testimonia un impegno forte dell'Italia per arginare il problema delle risorse estrattive. Ma proprio l'Italia è al centro di polemiche per il ruolo che l'Eni sta giocando in alcuni territori strategici del pianeta. «Dobbiamo chiedere alle compagnie italiane coinvolte in attività estrattive di far proprio questo appello e rispettare i diritti delle comunità locali per incentivare lo sviluppo e fermare ogni sfruttamento indiscriminato delle loro risorse», afferma Sergio Marelli, direttore generale Focsiv.
Il rapimento dei tecnici Agip in Nigeria fa pensare che il nostro intervento non sia del tutto gradito. Ma a rapine e rapimenti non sono sfuggite neanche le altre compagnie straniere. Attacchi spesso rivendicati dal Movimento per l'emancipazione del Delta del Niger, un gruppo armato a difesa degli interessi dell'etnia Ijaw, che da anni accusa il governo di escluderla dai profitti del petrolio. Perciò è nato il Centre for social and corporate responsibility (Cscr), che dà voce alle comunità locali preoccupate dalla presenza delle società petrolifere, e diffonde una cultura di rispetto dei diritti umani. Boniface Dumpe, direttore del Cscr, è di etnia ogoni. Al World social forum ha raccontato quando, nei primi anni Novanta, 80 manifestanti che protestavano contro la Shell furono massacrati dai soldati. Un episodio come tanti, passati nel silenzio. «Il fatto che l'economia mondiale ruoti attorno al petrolio ha creato gravi problemi - sostiene Dumpe - Anzitutto leggi ingiuste, come il Land use act 1978 e il Petroleum act 1969 che danno le basi per l'espropriazione, la deprivazione, il sottosviluppo, la povertà e il conflitto, tutte conseguenze dell'estrazione di petrolio». Ma il problema è soprattutto sociale: «Occorre che nello Stato federale siano inclusi anche i rappresentanti dei gruppi etnici - dice Dumpe - e alle comunità sia consentita un'equa partecipazione ai profitti. Inoltre l'attività estrattiva deve essere costantemente monitorata da un ente indipendente. E per raggiungere lo sviluppo sostenibile, la Nigeria deve riappropriarsi al 100% del controllo sulle sue risorse naturali».
L'Atlante del petrolio
Il petrolio è anche una delle piaghe dell'Ecuador. Negli anni Settanta il governo rilasciò ad alcune multinazionali concessioni per fare ricerca ed estrazione di petrolio in un'area di oltre 1 milione di ettari nell'Amazzonia, uno dei territori più ricchi di specie animali e vegetali al mondo. Inutile dire quanto l'intervento dell'industria sia stato devastante in una zona dagli eco-sistemi così delicati: per la vegetazione, la fauna, e gli indios. E le comunità locali non hanno tratto alcun beneficio, mentre il debito del paese è aumentato di 22 volte da quando le corporations del petrolio hanno scoperto l'Eldorado ecuadoriano. E tra le aziende che si sono arricchite un posto di rilievo ce l'hanno le italiane Agip ed Eni.
A farsi carico della situazione è stata la biologa Esperanza Martínez Yánez - fondatrice dell'associazione Acción Ecológica, coordinatrice dell'Osservatorio socio-ambientale dell'Amazzonia e cofondatrice di Oil-watch, che è riuscita a tessere una rete di associazioni locali, con alleanze tra i gruppi della conca amazzonica e associazioni del Sud e del Nord del mondo. «Negli anni abbiamo raccolto denunce, registrato le fuoruscite di petrolio, sostenuto le comunità allontanate dalle loro terre per far posto ai pozzi, appoggiato le battaglie di villaggi inquinati e abbiamo tracciato una mappa per capire come l'estrazione del greggio ha mutato la geografia dell'Amazzonia», spiega Esperanza Martínez. Un lavoro minuzioso quello dell'Atlante del petrolio: ogni informazione deve essere ben documentata per non incorrere in contro-denunce e ritorsioni. «La Texaco, ora Chevron, ha pompato petrolio per 28 anni - dice la biologa - Dal '92, quando è scaduto il contratto, chiediamo che ripuliscano, visto che hanno usato la peggiore tecnologia disponibile per risparmiare. In generale è importante che le risorse energetiche passino nelle mani pubbliche: in Bolivia si è nazionalizzato il gas, in Venezuela si è proceduto attraverso il sistema fiscale, mentre in Ecuador si sono rivisti i contratti di concessione alle multinazionali, ma è ancora troppo forte il controllo delle élite al potere, preoccupate per le reazioni della popolazione».
La lotta del Ciad
Magalì Rey Rosa, Esperanza Martínez Yánez. Sono per lo più le donne che osano opporsi allo sfruttamento delle risorse estrattive. Donne come Delphine Djiraibe, avvocato del Ciad specialista in diritti umani e difesa dell'ambiente. Anche in Ciad la società civile si è mobilitata perché la Banca mondiale facesse una moratoria sul progetto dell'oleodotto da oltre 1.000 km che oggi collega i pozzi della regione di Doba con il Camerun, finché il governo del Ciad non avesse provveduto a istituire una cornice giuridica a tutela dei diritti umani e degli standard ecologici. L'oleodotto Ciad-Camerun, con i suoi 3,7 miliardi di dollari di investimento, è una delle più grandi infrastrutture africane. «La Banca mondiale voleva che il progetto fosse un modello di riduzione della povertà e di tutela ambientale - spiega Delphine Djiraibe - Gli stessi obiettivi che avevo indicato nella mia campagna, chiedendo che i profitti del progetto fossero redistribuiti per l'educazione, la salute, le infrastrutture e lo sviluppo del Ciad». Ma Delphine ha incontrato la dura opposizione del governo. La Banca mondiale ha finanziato il progetto ma, ascoltando l'appello dell'avvocato Djiraibe, per la prima volta ha insistito perché il governo del Ciad adottasse una legge di gestione fiscale e stabilisse un comitato di supervisione sull'uso dei profitti del petrolio. Una clausola rimasta lettera morta, dato che il paese è sull'orlo della guerra civile, e parte dei primi soldi ottenuti con l'oleodotto sono stati spesi dal presidente Idriss Deby per comprare armi: perché la presenza dell'oleodotto impone di rafforzare le misure di sicurezza. Nemmeno un soldo è stato speso per la salute e l'educazione.
L'oro che non luccica
Soprattutto l'oro, simbolo di potere e ricchezza, provoca distruzione e miseria per molte popolazioni. In Honduras le miniere auree sono aumentate dagli anni Novanta, quando il governo ha accordato molte concessioni per attrarre investimenti dopo l'uragano Mitch del '98, e la società civile ha dovuto lavorare sodo per una riforma legislativa a favore della popolazione.
L'estrazione dell'oro, oltre ai problemi sociali, è fonte di disastri ambientali per gli effetti delle sostanze (come il mercurio) usate per separare il metallo dalla pietra. Dal 40 al 70% dei minatori è intossicato dal mercurio, e la mortalità per cancro è significativamente più alta dopo 20 anni di esposizione, mentre la silicosi colpisce il 35-47% dei minatori. Inoltre, nelle miniere sia sotterranee che a cielo aperto, la polvere tossica delle attività estrattive è fonte di malattie per i lavoratori, ma anche per le comunità che abitano vicino.
L'inquinamento tocca anche alcuni paesi europei, come Romania e Bulgaria, il primo alle prese con la miniera di Baia Mare (dove l'esplosione in un bacino di decantazione ha gettato nel fiume 100 mila m³ di acque reflue contenenti fino a 120 tonnellate di cianuro e metalli pesanti) e di Rosia Montana, con un corollario di siti archeologici devastati e 2.000 persone sfollate. La Bulgaria invece deve fare i conti con l'impianto a cielo aperto di Ada Tepe, basato su una tecnologia al cianuro.
Ma c'è un'altra conseguenza, seppur indiretta, dell'attività mineraria: la diffusione di Hiv e Aids. Le industrie estrattive infatti attraggono migranti in cerca di lavoro, che stanno lontani da casa per lungo tempo incrementando i rapporti sessuali con partner occasionali, e facendo abuso di alcol e droghe. I migranti inoltre hanno minor accesso al servizio medico, anche perché spesso lavorano in nero. Ciò fa sì che anche le mogli a casa siano più soggette a contrarre il virus, una volta tornati i mariti. Il fenomeno è tanto rilevante da essere stato inserito nel South Africa white paper on minerals and mining del '98, che prevede interventi delle aziende per mitigare la diffusione di Aids.
Dicono le ong
Per tutti questi motivi l'appello del Cidse, rilanciato da Focsiv, si rivolge a tutti gli interlocutori coinvolti nell'estrazione di materie prime: ai governi dei paesi industrializzati e in via di sviluppo, alle imprese e alle istituzioni internazionali.
In particolare si chiedono politiche chiare e progetti di legge in linea con gli standard internazionali sui diritti umani e l'ambiente, monitoraggi sull'operato delle industrie estrattive, valutazioni indipendenti, pubbliche e comprensibili dalla gente del posto, sull'impatto ambientale e sociale, leggi che rendano le industrie responsabili per le attività che svolgono. Inoltre le comunità locali devono partecipare a tutti gli stadi del progetto estrattivo, dando il loro consenso alla concessione delle licenze o alla rinegoziazione dei contratti, senza subire intimidazioni. Alle imprese transnazionali, infine, si chiede di sottoscrivere l'Eiti (iniziativa per la trasparenza delle industrie estrattive), di assicurare la distribuzione equa dei profitti e garantire che la loro presenza non causi o inasprisca un conflitto. In caso di trasgressione dovrebbero essere previste aspre sanzioni, al momento assenti.
Africa: la conquista cinoamericana
Usa e Cina alla conquista dell'Africa. È questa la nuova scena che si prospetta sullo scacchiere mondiale: un neocolonialismo energetico che coinvolge le due potenze a caccia di risorse in territori fino a pochi anni fa inesplorati. E per l'Agenzia internazionale dell'energia (Iea), assumeranno sempre più valore le riserve petrolifere marine, specie quelle off shore concentrate nel "Triangolo d'oro" che include anche le coste occidentali dell'Africa.
La dimostrazione del nuovo interesse sono stati il viaggio del presidente George W. Bush nel 2003 in Senegal, Nigeria, Uganda e Sudafrica e la visita di Colin Powell (la prima di un segretario di Stato Usa) in Angola e Gabon l'anno prima. Chiaro il messaggio: l'Africa è un terreno appetibile e vanno consolidati i legami militari in chiave antiterroristica per difendere, in realtà, le risorse petrolifere dell'area.
Crescente interesse anche della Cina, che con il suo boom economico necessita sempre più di risorse petrolifere, ed è il secondo utilizzatore mondiale dopo gli Usa. Le relazioni cinesi con il continente nero risalgono agli anni 70, quando Pechino sostenne la lotta dei neonati Stati africani contro le potenze coloniali europee, favorendo la diffusione degli ideali comunisti presso le giovani élite di colore. Ma finito il bipolarismo l'interesse ideologico ha ceduto il posto a quello economico. Zhou Wenzhong, vice ministro degli Esteri, ha sostenuto che la Cina vuole perseguire i propri obiettivi petroliferi in Africa separando gli affari dalla politica. Perciò ha già avviato - malgrado la riprovazione internazionale per i rapporti con Al Qaeda e l'emergenza umanitaria in Darfur - intensi rapporti con il Sudan, di cui importa metà del greggio prodotto. Lo stesso capita in Zimbabwe, inviso agli Usa. Sono solo le prime mosse di quella che si prospetta come una lunga e ostica partita a Risiko. E sullo sfondo la vita di milioni di poveri.
L'Ue e i rifiuti estrattivi
Il 19 luglio 1985, a Stava (Trento), un bacino di decantazione per sterili di fluorite crollò, rilasciando 200 mila m³ di inquinanti, che provocarono la morte di 268 persone. Ma altri incidenti gravi si verificarono in Galles nel '66, in Spagna nel '98 e in Romania due anni dopo. Così la Commissione europea ha emesso una normativa ad hoc per i rifiuti da attività estrattiva, necessaria anche per lo scarso controllo dei paesi membri. Secondo l'Agenzia europea per l'ambiente, i rifiuti da attività estrattive sono oltre 400 milioni di tonnellate, circa il 29% del totale dei rifiuti prodotti ogni anno nell'Ue. Una delle maggiori preoccupazioni è l'allargamento dell'Ue ai paesi dell'Est, dove si concentra un alto numero di siti estrattivi privi di adeguate tutele ambientali.
I rifiuti si formano in seguito alla rimozione dello strato superiore del terreno, il topsoil, depositato in loco per poi venir usato per ricoprire l'area con interventi di rivegetazione. Una parte di questi rifiuti è inerte, ma un'altra parte viene contaminata delle sostanze usate nella lavorazione. Il problema ambientale più serio è legato al drenaggio acido. Quando materiali ricchi di solfuri contenuti nella roccia e negli sterili sono esposti a ossigeno e acqua reagiscono formando acidi solforici, persistenti e difficili da combattere, che a contatto con l'acqua la rendono non potabile.
L'appello di Nairobi
"Noi, membri delle organizzazioni di società civile - si legge nell'appello siglato al World social forum di Nairobi - crediamo che le risorse naturali di un paese appartengano ai suoi cittadini e vadano usate nel miglior interesse della popolazione. Queste risorse naturali sono un dono di Dio e devono essere messe a disposizione di tutti gli esseri umani e delle future generazioni. Siamo preoccupati del fatto che le popolazioni che vivono nelle aree in cui vengono sfruttate le risorse naturali, come il petrolio, il gas, le miniere e le foreste, invece di trarre beneficio da questo vedono aumentare giorno per giorno la loro povertà. Questo sfruttamento porta a conseguenze devastanti quali mancanza di cibo, guerre, persistenti violazioni dei diritti umani, degrado ambientale e corruzione, che colpiscono soprattutto le donne. La corsa per le limitate risorse naturali minaccia la sicurezza umana in tutto il mondo".
Da www.volontariperlosviluppo.it