JOACKIN
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L’anonimo edificio color ruggine al numero 85 di Broad Street, nella parte bassa di Manhattan, non sembra un posto che valga la pena di fermarsi a guardare, ed è proprio quello che piace a coloro che ci lavorano. Gli uomini e le donne che in un piovoso mattino vi sbarcano nella tipica tenuta di Wall Street – abiti scuri, ventiquattrore e BlackBerrys – sono molto riservati. Vanno rapidamente dalle Lincoln nere all’edifico attraversando praticamente il nulla: nessuna targa sulla facciata o indicazione nel vestibolo, nulla che permetta di collegare il sorvegliante armato all’esterno con l’attività svolta all’interno. C’è un buon motivo per tutta questa segretezza: il numero 85 di Broad Street, New York, NY 10004, è dove ci sono i soldi, tutti i soldi.
È il miglior posto per produrre denaro che il capitalismo globale sia mai riuscito a immaginare e, dicono molti, è una forza politica più potente di qualsiasi governo. La gente che lavora oltre le porte vetrate fa più soldi di molti stati. I beni ammontano complessivamente a 1 trilione di dollari, le entrate annuali sono dell’ordine di decine di miliardi, i profitti, vari miliardi, vengono generosamente ridistribuiti all’interno.
In quest’anno di crisi lo stipendio medio di ciascuno dei 30.000 dipendenti dovrebbe raggiungere la cifra record di 700.000 dollari, con picchi di varie decine di milioni (centinaia di migliaia di volte più di un inserviente della stessa impresa). E quando avranno finito di diventare “schifosamente ricchi a 40 anni”, i funzionari non si ritroverebbero in brache di tela nemmeno se l’attività dovesse andare a carte quarantotto; verrebbero paracadutati in uno dei prestigiosi posti politici negli USA o all’estero, facendo nascere il sospetto che “governino il mondo”. Il numero 85 di Broad Street è la sede della Goldman Sachs.
La più famosa banca d’investimenti si nasconde dietro la piena di denaro che genera e fa piombare su Manhattan, sulla City di Londra su e buona parte delle altre capitali finanziarie in tutto il mondo. Ma adesso i maghi occulti dell’impero bancario sono obbligati a esporsi alla fredda luce del giorno. Pubblico, politici e stampa ritengono che la crisi creditizia sia la conseguenza delle spericolate attività di trading delle banche e in primo luogo della Goldman, quella di più successo tra le sopravvissute. Politici e commentatori fanno a gara per denunciare la Goldman con termini sempre più pesanti: “ladri tra i ladri”, “vandali economici”, “capitalisti di rapina”. Vince Cable, portavoce del Lib Dem Treasury, confronta i recenti eccezionali risultati della banca (un profitto di 3,2 miliardi di dollari solo nel quarto trimestre) e i previsti bonus con la situazione lavorativa e le entrate della gente comune nel 2009.
Negli USA la situazione è ancora peggiore. La rivista Rolling Stone ha pubblicato un articolo che descrive la Goldman come “un’enorme sanguisuga che succhia incessantemente sangue se solo sente odore di soldi”. Nel suo ultimo documentario (Capitalism: A Love Story), Michael Moore si presenta al numero 85 di Broad Street con un furgone portavalori, tira fuori un sacco contrassegnato da un enorme dollaro, si volge verso l’edificio e urla: “Siamo qui per riprenderci i soldi dei cittadini americani!”.
Di colpo la reputazione della Goldman è diventata ancora più tossica degli swap e degli altri incomprensibili strumenti finanziari, e questo danneggia gravemente qualcosa che la banca considera al di sopra di tutto: gli affari. La Goldman, principale obiettivo della rabbia popolare e dei politici, e potenziale prima vittima di nuove regole draconiane, ha quindi deciso a malincuore che è arrivato il momento di parlare e combattere. Ed ecco perché, in una luminosa mattinata autunnale in cui tutto sembra possibile – anche un invito a pranzo con i padroni dell’universo – mi sono ritrovato a passare dinanzi alla guardia che aveva bloccato Michael Moore e ad entrare nell’edificio senza nome.
“Ah! Ci ha sorpreso a complottare in tempo reale”, dice Lloyd Blankfein, staccandosi da un gruppo di alti dirigenti che stanno discutendo il suo viaggio a Washington del giorno precedente. Blankfein, 55 anni, presidente e CEO della Goldman, abito scuro e vivace cravatta di Hermès ornata con piccole biciclette rosse, e ha tra le mani un’enorme tazza di caffè. Forse è la caffeina, o forse la cravatta (un regalo d’anniversario di sua figlia), certo è che è in forma perfetta per uno che tutti sembrano odiare. “Qui è come un safari”, scherza, “e lei è venuto a osservare gli animali”.
Blankfein potrebbe essere il Dio Sole di Wall Street, ma con l’attuale tempesta economica non ci tiene a farlo sapere, e qualsiasi segno di status symbol o, orrore!, ostentazione viene cancellato dalla sua vita, almeno pubblicamente. Prendiamo ad esempio il suo ufficio al 30° piano: le sedie sono le stesse di quando diventò CEO tra anni orsono, non c’è traccia dei tappeti tessuti a mano da 87.000 dollari o dei cestini per rifiuti da 5.000 dollari che fanno parte della tradizione di Wall Street, nessun segno di esuberanza irragionevole. Solo caffè, che arriva freddo. Il giusto tono per il lavoro in corso. Il grande mago di Wall Street si sta preparando per la più difficile vendita della sua vita: è qui per esaltare il buon vecchio capitalismo, le banche d’investimento, e la Goldman Sachs.