FORTEBRACCIO
Forumer attivo
Derivati, così il Comune ha rilanciato rischiando sempre di più. 28 milioni di euro di commissioni occulte alla firma dei contratti, altri 16 svaniti con la prima rinegoziazione. Le ultime variazioni, a luglio e poi ottobre 2007, fatte da Letizia Moratti. Sempre peggiorative per l’amministrazione
Una serie di operazioni finanziariamente dissennate.
Così appare il “derivato” stipulato dal Comune di Milano nel giugno 2005 e rinegoziato più volte con le banche fino all’ottobre scorso, se si sottopongono i contratti firmati dall’amministrazione a una analisi tecnico-finanziaria.
Il valore di 28 milioni di euro svanito in un solo giorno, altri 16 milioni persi nella prima rinegoziazione, commissioni occulte per svariati milioni, continui peggioramenti delle condizioni per il Comune.
Tutto inizia nel giugno 2005. Il sindaco Gabriele Albertini, con il city manager Giorgio Porta e i ragionieri capo Elfo Butti e Angela Casiraghi, decide di ristrutturare i debiti che il Comune di Milano aveva nei confronti delle banche: 1,85 miliardi di euro.
L’operazione è compiuta da quattro banche (Depfa Bank, Ubs, Deutsche Bank, JpMorgan) che azzerano tutti i debiti del Comune verso gli altri istituti di credito e se li accollano loro, emettendo e collocando sul mercato un bond del valore di 1,7 miliardi di euro.
Le quattro banche chiedono che il loro intervento sia remunerato con una commissione dello 0,01 per cento. In tutto, fanno solo 170 mila euro: ottimo, per il Comune.?
No, non è possibile.
Infatti, insieme all’emissione del bond, le banche riescono a fare con il Comune un’altra operazione: stipulano un “derivato”, cioè un prodotto finanziario sofisticato in cui si scommette sull’andamento del mercato.
Con il bond, il Comune s’impegna a restituire fra 30 anni, nel 2035, la cifra avuta in prestito (1,7 miliardi), pagando ogni anno l’interesse (a tasso fisso: 4,019 per cento).
Ma con il “derivato” il Comune scambia (“swap”) il suo impegno con le banche: queste pagheranno quel 4,019 ai possessori del bond, qualunque cosa succeda.
E il Comune pagherà alle banche una cifra variabile, determinata dall’andamento del mercato (si chiama “euribor”, il tasso di mercato).
Niente di male: il tasso variabile può essere, in determinate situazioni, più vantaggioso del tasso fisso. Ma il contratto ha un “collar”, un corridoio in cui il tasso può oscillare, con un margine in alto (6,19 per cento) e uno in basso (3,48 per cento).
E qui i conti cominciano a non tornare più per il Comune, perché il margine superiore è troppo alto.
Invece del tranquillo 4,019 fisso, l’amministrazione s’imbarca nel rischio di guadagnare, nel migliore dei casi, solo lo 0,54, mentre nel peggiore dei casi la perdita è del 2,17.
È evidente l’asimmetria dell’azzardo. Quale giocatore l’avrebbe accettata senza batter ciglio?
Ma c’è una complicazione ulteriore. Perché i derivati hanno un valore.
Sono prodotti finanziari che vengono scambiati sul mercato e hanno quindi un prezzo che cambia nel tempo.
Le quattro banche lo danno al Comune a “zero cost”.
E il Comune ringrazia, contento.
Peccato che, messi nel computer i parametri forniti dalle banche stesse, si scopre che il valore di quel derivato, in quel giorno di giugno del 2005, valeva non 0, ma 28 milioni di euro.
Ecco le commissioni occulte: 7 milioni per ciascuna delle quattro banche.
Ma non finisce tutto quel giorno di giugno. Due mesi dopo, il 9 settembre 2005, il Comune rinegozia il derivato con due delle banche, per metà del debito.
Peggiorando la sua situazione. La tendenza del mercato è l’aumento dei tassi, dunque il Comune dovrebbe garantirsi abbassando la barriera superiore del collar (6,19) o almeno tenendola ferma.
Invece la alza: al 6,41.
E alza anche quella inferiore: dal 3,48 al 3,70.
Accetta insomma di pagare di più.
Per non sbagliare, accetta anche il rialzo del tasso, aggiungendo uno 0,22 per cento all’euribor: sono altri 16 milioni di euro che finiscono nelle casse delle banche.
Queste continuano a pagare il 4,019, mentre in cambio il Comune aumenta le sue perdite potenziali fino al 2,39 e riduce le possibilità di guadagno allo 0,032.
Le rinegoziazioni successive vanno tutte nella stessa direzione: più rischi per il Comune, da qui al 2035, e più soldi alle banche.
L’ultima, nell’ottobre 2007, è realizzata dalla giunta Moratti e compie addirittura un salto di qualità.
La situazione non è buona, come dice Celentano, anche per le banche: la crisi dei subprime le rende a rischio, il loro valore in Borsa si è ridotto del 50 per cento.
E il Comune cosa fa?
Invece di ridurre la complicazione e il rischio, accetta di aggiungere al già complicato menù che le banche gli hanno servito anche un “credit default swap”, un’ulteriore sofisticazione finanziaria, un prodotto puramente speculativo, che invece di garantire i rischi assunti dal Comune li moltiplica.
La Repubblica, 6 dicembre 2007
Una serie di operazioni finanziariamente dissennate.
Così appare il “derivato” stipulato dal Comune di Milano nel giugno 2005 e rinegoziato più volte con le banche fino all’ottobre scorso, se si sottopongono i contratti firmati dall’amministrazione a una analisi tecnico-finanziaria.
Il valore di 28 milioni di euro svanito in un solo giorno, altri 16 milioni persi nella prima rinegoziazione, commissioni occulte per svariati milioni, continui peggioramenti delle condizioni per il Comune.
Tutto inizia nel giugno 2005. Il sindaco Gabriele Albertini, con il city manager Giorgio Porta e i ragionieri capo Elfo Butti e Angela Casiraghi, decide di ristrutturare i debiti che il Comune di Milano aveva nei confronti delle banche: 1,85 miliardi di euro.
L’operazione è compiuta da quattro banche (Depfa Bank, Ubs, Deutsche Bank, JpMorgan) che azzerano tutti i debiti del Comune verso gli altri istituti di credito e se li accollano loro, emettendo e collocando sul mercato un bond del valore di 1,7 miliardi di euro.
Le quattro banche chiedono che il loro intervento sia remunerato con una commissione dello 0,01 per cento. In tutto, fanno solo 170 mila euro: ottimo, per il Comune.?
No, non è possibile.
Infatti, insieme all’emissione del bond, le banche riescono a fare con il Comune un’altra operazione: stipulano un “derivato”, cioè un prodotto finanziario sofisticato in cui si scommette sull’andamento del mercato.
Con il bond, il Comune s’impegna a restituire fra 30 anni, nel 2035, la cifra avuta in prestito (1,7 miliardi), pagando ogni anno l’interesse (a tasso fisso: 4,019 per cento).
Ma con il “derivato” il Comune scambia (“swap”) il suo impegno con le banche: queste pagheranno quel 4,019 ai possessori del bond, qualunque cosa succeda.
E il Comune pagherà alle banche una cifra variabile, determinata dall’andamento del mercato (si chiama “euribor”, il tasso di mercato).
Niente di male: il tasso variabile può essere, in determinate situazioni, più vantaggioso del tasso fisso. Ma il contratto ha un “collar”, un corridoio in cui il tasso può oscillare, con un margine in alto (6,19 per cento) e uno in basso (3,48 per cento).
E qui i conti cominciano a non tornare più per il Comune, perché il margine superiore è troppo alto.
Invece del tranquillo 4,019 fisso, l’amministrazione s’imbarca nel rischio di guadagnare, nel migliore dei casi, solo lo 0,54, mentre nel peggiore dei casi la perdita è del 2,17.
È evidente l’asimmetria dell’azzardo. Quale giocatore l’avrebbe accettata senza batter ciglio?
Ma c’è una complicazione ulteriore. Perché i derivati hanno un valore.
Sono prodotti finanziari che vengono scambiati sul mercato e hanno quindi un prezzo che cambia nel tempo.
Le quattro banche lo danno al Comune a “zero cost”.
E il Comune ringrazia, contento.
Peccato che, messi nel computer i parametri forniti dalle banche stesse, si scopre che il valore di quel derivato, in quel giorno di giugno del 2005, valeva non 0, ma 28 milioni di euro.
Ecco le commissioni occulte: 7 milioni per ciascuna delle quattro banche.
Ma non finisce tutto quel giorno di giugno. Due mesi dopo, il 9 settembre 2005, il Comune rinegozia il derivato con due delle banche, per metà del debito.
Peggiorando la sua situazione. La tendenza del mercato è l’aumento dei tassi, dunque il Comune dovrebbe garantirsi abbassando la barriera superiore del collar (6,19) o almeno tenendola ferma.
Invece la alza: al 6,41.
E alza anche quella inferiore: dal 3,48 al 3,70.
Accetta insomma di pagare di più.
Per non sbagliare, accetta anche il rialzo del tasso, aggiungendo uno 0,22 per cento all’euribor: sono altri 16 milioni di euro che finiscono nelle casse delle banche.
Queste continuano a pagare il 4,019, mentre in cambio il Comune aumenta le sue perdite potenziali fino al 2,39 e riduce le possibilità di guadagno allo 0,032.
Le rinegoziazioni successive vanno tutte nella stessa direzione: più rischi per il Comune, da qui al 2035, e più soldi alle banche.
L’ultima, nell’ottobre 2007, è realizzata dalla giunta Moratti e compie addirittura un salto di qualità.
La situazione non è buona, come dice Celentano, anche per le banche: la crisi dei subprime le rende a rischio, il loro valore in Borsa si è ridotto del 50 per cento.
E il Comune cosa fa?
Invece di ridurre la complicazione e il rischio, accetta di aggiungere al già complicato menù che le banche gli hanno servito anche un “credit default swap”, un’ulteriore sofisticazione finanziaria, un prodotto puramente speculativo, che invece di garantire i rischi assunti dal Comune li moltiplica.
La Repubblica, 6 dicembre 2007