Macroeconomia La tragedia del dollaro

Fleursdumal

फूल की बुराई
Articolo preso da www.usemlab.com



La tragedia del dollaro



(10/12/03) Il problema dei due deficit americani (federale e delle partite correnti) congiunto al problema dell’inflazione degli aggregati monetari, ha provocato negli ultimi due anni una miserabile caduta del dollaro pari, in termini di Dollar Index, al 25%. La perdita nei confronti dell’euro, per l’infelice sorte di coloro che nella comunità europea detengono attività finanziarie denominate in dollari o esportano in America senza adeguate politiche di copertura del rischio, ammonta a ben il 30%.

Per chi non se ne fosse accorto queste sono le performance di Dow Jones, S&P 500, Nasdaq e T-bond negli ultimi due anni tenendo conto della caduta del dollaro misurata dal Dollar Index:

Gen02 Dic03 Var %

Dow Jones 10500 10000 -29%

S&P 500 1150 1070 -31%

Nasdaq 2000 2000 -25%

T-Bond 104 108 -12%

(per il T-Bond si sono considerate due ipotetiche cedole del 5.5%)

Due anni fa leggemmo un interessante articolo di cui purtroppo abbiamo perso traccia. Si trattava di una lettera aperta rivolta alle autorità monetarie giapponesi con un consiglio pratico, semplice, esplicito: vendere bond americani e con il ricavato comprare oro. Secondo l’autore, per i giapponesi questa strategia rappresentava la via di fuga più neutrale da una situazione che prometteva di trasformarsi in una trappola micidiale. Il rimpatrio di capitali in yen, infatti, avrebbe lanciato immediatamente quel processo di svalutazione del dollaro contro la valuta nazionale che oggi rappresenta il gran problema della Banca Centrale del Giappone.

Non solo, la fuga di capitali giapponesi verso l’oro avrebbe lanciato un rialzo del metallo giallo ben più consistente fornendo al mercato un importante campanello di allarme già mesi addietro. A causa di ciò la Fed, molto probabilmente, non sarebbe stata in grado di continuare la politica monetaria fortemente espansiva che in effetti è stata realizzata negli ultimi due anni e che oggi è la causa principale di ulteriori e ben più grossi squilibri economici, i cui effetti finali, appena intuibili, sono in realtà ancora lungi dal manifestarsi.

Sono passati due anni da quel consiglio e la minaccia temuta è diventata realtà. I giapponesi, così come il resto di coloro che detengono attività finanziarie denominate in dollari, sono stretti in una trappola dalla quale, forse, è diventato impossibile uscire. E più sono grossi i capitali in gioco più i danni sono consistenti. Due anni fa, con il dollaro ancora sui massimi, qualcuno di questi grossi player (come appunto la Banca Centrale del Giappone) poteva ancora cercare di evitare il tributo mondiale che gli americani avrebbero inevitabilmente prelevato agli stranieri. Tale minaccia del resto era stata annunciata e riassunta anche nel penultimo paragrafo della nostra analisi di fine 2001 (Un tributo mondiale).

Non solo le autorità giapponesi non hanno fatto niente per cercare di liberarsi dei titoli americani (e sfuggire così alla confisca legata alla svalutazione del dollaro) ma, al fine di evitare che negli ultimi due anni il dollaro si apprezzasse troppo rapidamente nei confronti dello yen, hanno continuato addirittura a comprare valuta americana, prima per cercare di difendere ripetutamente il tasso di cambio di 115 yen per dollaro e adesso, rotto quel livello, per difendere soglie via via sempre più basse. Probabilmente prima di capitolare spenderanno le ultime energie per cercare di difendere quota 100. Sempre che alla Banca del Giappone rimangano riserve sufficienti per questo ultimo sforzo. Stando a certi numeri (le riserve della banca del Giappone e il miliardo di dollari acquistati giornalmente nell’ultimo periodo) mancherebbe meno di un trimestre alla debacle. Se sul mercato dell’oro gli speculatori stanno appena assaggiando i primi ottimi profitti alle spese degli short istituzionali, su quello dello yen, sono arrivati quasi alla carcassa.



Grazie a queste dinamiche che si sono sviluppate negli ultimi anni e che coprono la realizzazione di un vasto progetto inflazionistico, Stati Uniti e Giappone (soprattutto, ma non solo) si sono uniti in un rapporto simbiotico. Lo stesso che finisce col legare una banca al proprio debitore al quale sono stati prestati ammontari che superano ogni parametro prudenziale. La situazione, se ricordiamo bene, è analoga a quella che portò alla grave crisi bancaria degli anni trenta: creditore bancario e debitore industriale uniti da un vincolo troppo stretto a tal punto che i problemi del secondo diventarono, inevitabilmente, anche problemi del primo. Oggi in maniera bizzarra la situazione si è rovesciata, il creditore è dato dal soggetto industriale mentre il debitore da quello bancario. Tuttavia la situazione è forse peggiore di quella di allora. Teoricamente infatti non c'è limite alle capacità di indebitamento (e quindi alla situazione complessiva di squilibrio raggiungibile prima del default) di un debitore bancario che ha anche il privilegio di stampare la moneta già riserva di tutto il sistema bancario mondiale. Di fatto però quel limite esiste e sarà determinato in ultima analisi dalle sorti del dollaro sui mercati valutari.

Abbiamo già parlato della insostenibilità della attuale fase espansiva dell'economia americana e mondiale, discutendo in lungo e in largo degli squilibri economici in essere. Più recententemente lo abbiamo fatto esaminando la crescita qualitativa del GDP americano, nonché considerando l’attuale realizzazione di un particolare caso di socialismo impossibile applicato al Central Banking. Tuttavia, parafrasando una illuminante proposizione di Bill Bonner del The Daily Reckoning si potrebbe spiegare il medesimo concetto attraverso una semplice esposizione della situazione corrente: gli americani credono di prosperare rifinanziando il mutuo sulla casa e ricorrendo alla carta di credito, solo in tal modo infatti sono in grado di comprare in abbondanza le merci prodotte da cinesi e giapponesi… mentre cinesi e giapponesi credono di prosperare facendo crescere le loro economie grazie alla abbondante produzione di beni che poi rivendono a credito a un soggetto non più in grado di restituire il prestito (perlomeno non negli stessi termini reali).

E’ il tragico paradosso della più grande bolla del credito di tutti i tempi, all'esaurirsi della quale quasi tutti avranno molto da perdere, e pochi qualcosa da guadagnare. Se non a causa di una catastrofe economica legata al collasso del sistema monetario basato sul dollaro, che speriamo si possa in qualche modo evitare, comunque a causa di un impoverimento relativo, considerato con riferimento alla situazione economica che si sarebbe sviluppata in assenza dello stimolo fornito dall’espansione creditizia. (Avremo sicuramente modo di tornare in futuro su questo concetto di impoverimento relativo, ben approfondito nell'Azione Umana da Ludwig Von Mises).

Quello che i fautori delle politiche economiche inflazioniste fanno passare sotto il nome di progresso finanziario, rappresenta in realtà l'emersione concreta di un danno economico su vasta scala che coinvolge la maggioranza degli attori economici. Per renderci conto di come l’inflazione creditizia, quella rappresentata cioè dall’espansione dei larghi aggregati monetari, abbia rappresentato anche nell’ultimo anno un tratto comune per tutti i maggiori paesi industrializzati (tranne il Giappone, il cui rovescio della medaglia è dato dal massiccio investimento in titoli di stato americani) si veda la seguente tabella riportata da Jim Puplava di Financial Sense:

Variazioni della M3 anno su anno:

Australia 13.2%

Britain 7.4%

Canada 5.7%

Denmark 9.1%

Japan 1.5%

Sweden 6.0%

Switzerland 9.8%

United States 6.0%

Euro area 8.0%

Per una comprensione delle false minacce deflazionistiche fin qua fomentate dalla Fed e dal vasto circolo di inflazionisti, in modo da poter raccogliere vasti consensi a supporto delle loro infelici politiche economiche, si veda la traduzione del saggio di Hulsman "Undici Miti sulla Deflazione". Proprio ieri abbiamo pubblicato la traduzione delle due parti che a suo tempo erano rimaste incompiute.

Si consideri invece ciò che scrisse Mises a proposito delle politiche inflazionistiche (pagina 432 della versione inglese dell’Azione Umana):

“La preferenza mostrata dalle masse, dagli autori e dai politici, alla ricerca di consenso e approvazione, va all’inflazione (degli aggregati creditizi, NdT). Con riguardo a questi tentativi dobbiamo mettere in rilevo tre punti:

1. Politiche inflazioniste o espansioniste finiscono col realizzare consumi eccessivi da una parte e cattivi investimenti dall’altra. Sperperano cioè capitale e danneggiano il futuro stato di soddisfazione dei propri bisogni.

2. Il processo inflazionistico non rimuove la necessità di aggiustare i processi produttivi e di riallocare le risorse. Semplicemente pospone il problema e lo rende ancora più problematico.

3. L’inflazione non può essere impiegata come una politica permanente perché, in tal caso, finisce inevitabilmente col risolversi nel collasso del sistema monetario”.

I punti uno e due sono già stati largamente attuati, siamo già da tempo impegnati nella realizzazione del terzo punto, e visti i commenti rilasciati oggi dalle autorità della Fed, lo stato delle cose rimane sempre orientato verso questa direzione. Per quanto ancora, nessuno lo può sapere. Ma il limite come dicevamo sopra esiste e Mises lo illustrò già oltre cinquanta anni fa. La tragedia del dollaro che si sta consumando sui mercati finanziari rappresenta forse solo l’inizio di questa spirale finale. Ciò che ci auguriamo è che non sfoci in qualche disastro ben peggiore di una semplice grande bancarotta collettiva.

Lo Staff
 
per essere molto semplici e meno cerebrali si potrebbe portare ad esempio
l'economia italiana basata sulla svalutazione costante della Lira

non ha mai risolto un problema ma semmai ha impoverito sempre di più i risprmiatori
 

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