l'Austerità ha fallito

tontolina

Forumer storico
Il prezzo da pagare per la tragedia greca


07.07.15
Salvatore Perri




http://www.lavoce.info/archives/35990/il-prezzo-da-pagare-per-la-tragedia-greca/


L’austerità ha fallito, lo dice anche l’Fmi. E la dimostrazione è la Grecia. Ma se si arrivasse al default, i paesi europei sarebbero direttamente coinvolti. La scelta è ora fra piccoli sacrifici distribuiti fra tutti gli europei o un prezzo molto alto per il popolo greco oggi e per noi domani.

Tra austerità e default
Il referendum greco sull’accordo di salvataggio è solo l’ultimo di una serie di tentativi del governo Tsipras di evitare ulteriori misure di austerità al suo popolo. Se è una strada giusta o sbagliata, nessuno può saperlo. Alcune cose però si sanno ed è meglio dirle, prima che sia troppo tardi.
L’austerità ha fallito. Finché a dirlo era solo una parte dell’accademia considerata a torto o ragione “eterodossa”, il tema poteva essere fonte di discussione, ma quando uno studio in tal senso arriva direttamente dal Fondo monetario internazionale a firma Olivier Blanchard e Daniel Leigh, si può tranquillamente prenderla come una considerazione definitiva. Le “riforme” chieste alla Grecia hanno accentuato gli effetti della crisi, poiché una politica fatta di tagli alla spesa, senza un programma di riforme favorevoli alla ripresa, finisce per ridurre i consumi interni proprio delle fasce sociali che consumano una porzione maggiore del proprio reddito. Di conseguenza, la riduzione del prodotto interno lordo greco ha fatto aumentare il peso del debito in termini relativi, dinamica illustrata da Marianna Mazzucato e in atto anche per l’Italia, che nonostante la riforma pensionistica ha visto crescere costantemente il rapporto debito/Pil negli anni seguenti l’inizio della crisi.



Il default è un’opzione?


In queste ore in Grecia si avvertono i primi segni dell’eventuale insolvenza. Dalle file agli sportelli bancari, alla carenza di farmaci nonché di tutti i beni importati in genere. Le conseguenze di diventare un debitore insolvente sono gravi e immediate, a cominciare dall’impossibilità di avere nuove linee di credito, il che comporta immediatamente la difficoltà di approvvigionamento delle merci importate (tra le quali le materie prime, petrolio e gas). Successivamente, vista la crisi di liquidità, senza accordo, la Grecia dovrebbe necessariamente ricorrere a forme alternative di emissione valutaria creando, di fatto, un sistema a doppia circolazione, in cui la nuova dracma verrebbe usata solo all’interno, mentre gli euro sarebbero usati come bene rifugio (nella più classica applicazione della legge di Gresham, secondo cui la moneta “cattiva scaccia quella buona”).
Le conseguenze di un tale caos si estenderebbero a tutta l’Europa, attraverso i mancati pagamenti della Grecia ai paesi creditori, ma colpirebbero prioritariamente proprio le classi meno abbienti del popolo greco. Inoltre, ogni forma di evento “destabilizzante” provocherebbe una crisi di fiducia e minerebbe la stabilità dell’intera area, dando fiato agli attacchi dei fondi finanziari speculativi.


Chi sono i creditori della Grecia
Chi detiene il debito greco? La sua distribuzione, come ricostruita da Paolo Cardenà, vede come maggiori creditori le istituzioni internazionali: addirittura il 60 per cento è in mano proprio all’UE (attraverso i fondi Efsf di stabilità e del fondo “salva stati” Esm), mentre solo il 12 per cento sarebbe nelle mani dell’Fmi, in questo momento il più intransigente nei confronti della Grecia. Nell’articolo, si evidenzia come i paesi europei siano “realmente” coinvolti nell’eventuale default (Germania, Francia e Italia con 146 miliardi al gennaio 2015) e come questo trasferimento di proprietà del debito abbia avuto una dinamica veramente singolare: in pratica le banche private dei paesi europei hanno scaricato sugli stati, e sulla Bce, il peso del debito greco dal 2009 a oggi.
In altre parole, il salvataggio della Grecia, anziché salvare il paese, ha legato a filo doppio il destino dei greci a quello degli altri europei. Fosse fallita nel 2009, la Grecia avrebbe fatto fallire le banche europee, trasmettendo lo shock alle economie reali; oggi, un default di Atene costringerebbe Italia, Francia e Germania direttamente a manovre correttive di bilancio.
Scenari inquietanti
Cosa si può fare ora? Lo scenario è inquietante, le conseguenze a breve termine di un default greco potrebbero essere pesantissime e per questo un accordo deve essere trovato. Ma quale accordo? È impossibile prendere in considerazione l’ipotesi che siano gli stati europei a pagare, visto che per esempio l’equilibrio dei conti pubblici italiani già così è a rischio. Dunque, un piano di salvataggio dovrebbe partire da alcuni presupposti ineludibili:
1) La riduzione del debito, attraverso uno storno della quota degli interessi dovuti agli investitori internazionali, proprio quella che ha autoalimentato il debito negli ultimi anni (attraverso un accordo che veda come interlocutore l’Unione Europea e non la sola Grecia);
2) La Bce dovrebbe rilevare la quota detenuta dall’Fmi, anche questo con un accordo “al ribasso” dato che, per ammissione stessa dell’Fmi, le “riforme” imposte alla Grecia, in cambio dei prestiti, erano errate.
3) Un piano d’investimenti straordinari in Grecia, ma anche una riformulazione delle richieste, che consideri la necessità di protezione sociale per le classi meno abbienti (andando verso una convergenza dei parametri economici anziché esclusivamente dei vincoli finanziari) in cambio, ad esempio, delle riforme pensionistiche. Si ricordi che sono proprio Grecia e Italia i due paesi più carenti in questo senso.
È evidente che queste misure avrebbero un costo, anche in termini d’inflazione, visto che la Bce dovrebbe rompere il dogma del divieto di politiche espansive. Allo stesso tempo si dovrebbe archiviare definitivamente il mito dell’austerità espansiva, che si è rivelata inutile e dannosa come sottolineato più volte anche da Paul Krugman.
In conclusione, la scelta dell’Europa e della Grecia non è quella fra euro e dracma, tra Alexis Tsipras e Angela Merkel, tra democrazia e autocrazia, quanto fra piccoli sacrifici distribuiti fra tutti i paesi europei ed enormi sacrifici per il popolo greco oggi (e per noi domani).
 
Keynes sull’assurdità dei sacrifici: “La riduzione della spesa statale è una follia oltraggiosa
On 7 Aprile 2018 By DGionco
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Tratto dal blog Keynesblog
Keynes sull’assurdità dei sacrifici: “La riduzione della spesa statale è una follia oltraggiosa”



Una conversazione radiofonica tra Keynes e Sir Josiah Stamp sulla stupidità dei governi nazionali nell’imporre sacrifici. Il dialogo fu trasmesso dalla BBC il 4 gennaio 1933. Sebbene siano passati 80 anni da allora, questa intervista risulta di straordinaria attualità e dimostra come le idee sbagliate siano così dure a morire.

Keynes, adottando l’approccio macroeconomico, smonta una per una le tesi del partito dell’austerità, in particolare quella per cui lo Stato deve risparmiare (come farebbe una famiglia) per ripagare i propri debiti, ma anche l’idea tipicamente neoclassica che dalla crisi si possa uscire grazie all’azione individuale nel libero mercato. Se qualcuno se lo chiedesse, nell’anno in cui Keynes rilasciava questa intervista il debito pubblico britannico sfiorava il 180% sul Pil. Il testo è stato pubblicato da Manifestolibri (1996).

Stamp: … leggiamo continuamente sui giornali, credo restando noi stessi confusi, tutte queste controversie sullo spendere e sul risparmiare. A che conclusioni pensi che il pubblico sia giunto in merito? Ritieni che tutte queste discussioni abbiano fatto emergere dei punti particolari, rendendoli chiari, o è tutto così confuso come all’inizio?

Keynes: La mia impressione è che l’umore della gente stia cambiando. C’era un bel po’ di panico circa un anno fa. Ma non è forse vero che ora ci si sta rendendo conto abbastanza generalmente che la spesa di un uomo è il reddito di un altro uomo? Comunque, questa mi sembra essere la verità fondamentale, che non deve mai essere dimenticata. Ogni volta che qualcuno taglia la sua spesa, sia come individuo, sia come Consiglio Comunale o come Ministero, il mattino successivo sicuramente qualcuno troverà il suo reddito decurtato; e questa non è la fine della storia. Chi si sveglia scoprendo che il suo reddito è stato decurtato o di essere stato licenziato in conseguenza di quel particolare risparmio, è costretto a sua volta a tagliare la sua spesa, che lo voglia o meno.

S.: Ciò significa che egli riduce il reddito di un secondo uomo, e che qualcun altro rimarrà senza lavoro.

K.: Sì, questo è il guaio. Una volta che la caduta è iniziata, è difficilissimo fermarla.

S.: Un momento. Osserviamo il risparmio di un Ministero o di un individuo, e consideriamo il suo effetto. Un paese o una città, proprio come un individuo, debbono vivere nei limiti delle loro risorse o si troverebbero in grave difficoltà se provassero a spingersi oltre. Molto presto intaccherebbero il loro patrimonio.

K.: Ci può essere solo un obiettivo nel risparmiare, ed è esattamente quello di sostituire una spesa con un altro e più saggio tipo di spesa.

S.: Sostituire! Questo mi fa comprendere il punto. Ad esempio, se il Governo o le autorità locali risparmiassero per ridurre le imposte o i saggi di interesse e permettessero agli individui di spendere di più; o se gli individui spendessero meno in consumi, per usare essi stessi il denaro nella costruzione di case o di fabbriche, o per prestarlo ad altri a tale scopo. Non servirebbe tutto ciò ad aggiustare le cose?

K.: Ma, caro Stamp, è questo che sta accadendo? Ho il sospetto che le autorità spesso risparmino senza ridurre i tassi di interesse o le imposte, e senza passare il potere di acquisto aggiuntivo agli individui. Ma anche quando il singolo riceve il potere di acquisto aggiuntivo, di solito sceglie la sicurezza o, quanto meno, pensa che sia virtuoso risparmiare e non spendere. Ma non sono veramente questi risparmi, tesi a far abbassare i saggi e le imposte, che sono al centro delle mie polemiche. Sono piuttosto quelle forme di risparmio che comportano un taglio della spesa, nei casi in cui quest’ultima dovrebbe essere naturalmente coperta con il debito. Perché in questi casi non c’è alcun vantaggio connesso col fatto che il contribuente avrà di più, a compensare la perdita di reddito dell’individuo che subisce il taglio.

S.: Allora, ciò che intendiamo realmente è che, salvo il caso in cui la mancata spesa pubblica venga bilanciata da una spesa personale aggiuntiva, ci sarà troppo risparmio. Dopo tutto, il normale risparmio è solo un differente tipo di spesa, trasmessa a qualche autorità pubblica o alle imprese, per produrre mattoni o macchinari. Il risparmio equivale a più mattoni, la spesa a più scarpe.

K.: Sì, questo è il problema in generale. A meno che qualcuno stia effettivamente usando il risparmio per i mattoni o per qualcosa di simile, le risorse produttive del paese vengono sprecate. Insomma il risparmio non è più un altro tipo di spesa. Ecco perché dico che la deliberata riduzione di investimenti utili, che dovrebbero normalmente essere attuati con il debito, mi sembra, nelle attuali circostanze, una follia e, addirittura, una politica oltraggiosa.

S.: La difficoltà sta nell’individuare ciò che tu chiami «investimenti utili normali».

K.: Al contrario. Il Ministro della Sanità, se sono ben informato, sta disapprovando praticamente tutte le normali richieste delle autorità locali di indebitarsi. Ho letto, per esempio, in un giornale – anche se non posso garantire i dati di persona – che un questionario spedito al Consiglio Nazionale delle Imprese Edili mostra che qualcosa come 30 milioni di sterline in lavori pubblici sono stati sospesi come risultato della campagna nazionale per il risparmio. La si dovrebbe chiamare «campagna nazionale per l’intensificazione della disoccupazione»!

S.: Per quale ragione si sono spinti fino a questo punto? Perché stanno facendo questo?

K.: Non posso immaginarlo. È probabilmente l’eredità di qualche decisione presa in un momento di panico molti mesi fa, che qualcuno ha dimenticato di invertire. Pensa a quello che significherebbe per lo stato d’animo della nazione, e in termini umani, se avessimo anche solo un quarto di milione di occupati in più. E non sono sicuro che le ripercussioni della spesa si fermerebbero a quella cifra.

S.: Sono piuttosto suscettibile per quanto riguarda gli interventi governativi. Comunque, prendersela con un Ministero, che lo meriti o no, è una cosa completamente diversa dall’incitare gli individui a spendere di più. Anche se una sollecitazione a questi ultimi potrebbe sembrare una cosa sciocca e pericolosa; sciocca a causa della riduzione dei loro redditi, che potrebbe rendere una spesa superiore insopportabile; pericolosa perché, se si inizia con l’incoraggiare le persone a essere imprudenti e a rinunciare alle loro abitudini di frugalità, non si sa dove si va a finire.

K.: Sono pienamente d’accordo. Non è l’individuo il responsabile, e non è quindi ragionevole attendersi che il rimedio venga dall’azione individuale. Ecco perché pongo così tanto l’accento sull’intervento delle pubbliche autorità. Sono loro che debbono avviare il processo. Non ci si deve aspettare che gli individui spendano di più, quando alcuni di loro stanno già indebitandosi. Non ci si può aspettare che gli imprenditori procedano a degli investimenti aggiuntivi, quando stanno già subendo perdite. È la comunità organizzata che deve trovare modi saggi per spendere e avviare il processo.

S.: Voglio affrontare la questione anche dall’altro lato. Al fine di conservare l’abitudine individuale alla parsimonia, non è necessario che le pubbliche autorità sentano la loro responsabilità in questa direzione? Se questa abitudine, così utile nella vita individuale, deve recare giovamento alla comunità, è essenziale che si trovino modi utili di usare il denaro risparmiato.

K.: Sì, questo è ciò che dico. E inoltre, quello della diminuzione dell’attività, e quindi del reddito nazionale, non è un modo incredibilmente miope in cui cercare di pareggiare il bilancio?

S.: Bene, lasciando da parte qualsiasi questione complessa riguardante il debito nazionale, mi sembra che tutto questo riguardi comunque il Ministro delle Finanze in due modi. Innanzi tutto, deve far fronte alle indennità di disoccupazione per gli uomini licenziati, e poi deve tener conto che il gettito delle imposte dipende dal reddito degli individui o dalle loro spese. Cosicché tutto ciò che riduce sia il reddito che le spese degli individui riduce il gettito delle imposte. E se si subisce una diminuzione dal lato delle entrate e un incremento dal lato delle uscite, si deve trovare un rimedio. Un bilancio squilibrato distrugge infatti il nostro credito, anche se c’è una differenza tra un periodo normale e uno anomalo.

K.: Ma Stamp, non si potrà mai equilibrare il bilancio attraverso misure che riducono il reddito nazionale. Il Ministro delle Finanze non farebbe altro che inseguire la sua stessa coda. La sola speranza di equilibrare il bilancio nel lungo periodo sta nel riportare le cose nuovamente alla normalità, ed evitare così l’enorme aggravio che deriva dalla disoccupazione. Per questo sostengo che, anche nel caso in cui si prende il bilancio come metro di giudizio, il criterio per giudicare se il risparmio sia utile o no è lo stato dell’occupazione. In una guerra, per esempio, tutti sono al lavoro, e talvolta anche attività importanti e necessarie non vengono svolte. Allora se si riduce un tipo di spesa, una spesa alternativa e più saggia la sostituirà.

S.: La stessa cosa accadrebbe se il governo stesse attuando un grande progetto edilizio e un programma di risanamento delle aree degradate.

K.: Sì, o di costruzione di altre ferrovie. O stesse bonificando altre terre, o ci fosse un’industria in rapida espansione a causa di nuove invenzioni, o qualsiasi altra ragione di questo tipo.

S.: Ma se, come accade oggi, una metà della forza-lavoro e degli impianti del paese sono inattivi, ciò indica che se un tipo di spesa viene ridotto, essa non sarà rimpiazzata da una spesa alternativa più saggia. Significa che niente prenderà il suo posto: nessuno sarà più ricco e tutti diverranno più poveri.

K.: Trovo che siamo d’accordo più di quanto pensassimo. Ma molte persone ritengono oggi che persino le spese praticabili costituiscano una vera sciocchezza. Quando il Consiglio della Contea decide la costruzione di case, il paese sarà più ricco anche se le case non garantiranno alcuna rendita. Se non si costruiscono quelle case, non avremo nulla da mostrare fatta eccezione per il maggior numero di uomini che ricevono un sussidio.
 
FINANZA/ Gli errori su euro e austerità che continuano a far danni
21.10.2019 - Giovanni Passali
Le distanze tra ricchi e poveri stanno aumentando, non solo in Italia. È la prova dei danni dell’austerità e del sistema euro

FINANZA/ Gli errori su euro e austerità che continuano a far danni



Theo Waigel è stato un politico tedesco, ministro delle Finanze per ben tre governi dell’eterno cancelliere della Germania Helmut Kohl, il predecessore di Angela Merkel. Viene considerato il padre dell’euro, avendone proposto il nome nel 1995. Proprio lui, nel 2016, in un’intervista ha dichiarato serenamente che “se la Germania oggi uscisse dall’unione monetaria, allora avremmo immediatamente, il giorno dopo, un apprezzamento tra il 20 e il 30 per cento del marco tedesco che tornerebbe nuovamente in circolazione. Chiunque si può immaginare che cosa significherebbe per il nostro export, per il nostro mercato del lavoro, o per il nostro bilancio federale”. Significherebbe avere una situazione economica tedesca improvvisamente catapultata ai livelli della Grecia. E significherebbe il fallimento di tante banche tedesche.

E poi ha aggiunto: “Con un’uscita dall’euro e un taglio netto dei debiti la crisi interna italiana finirebbe di colpo. La nostra invece inizierebbe proprio allora. Una gran parte del settore bancario europeo si troverebbe a collassare immediatamente. Il debito pubblico tedesco aumenterebbe massicciamente perché si dovrebbe ricapitalizzare il settore bancario e investire ancora centinaia di miliardi per le perdite dovute al sistema dei pagamenti target 2 intraeuropei”.

Con una uscita dall’euro, e quindi con il recupero della sovranità monetaria, si possono tagliare i debiti. Lo Stato non avrà bisogno di chiedere soldi al mercato, per finanziare il welfare, l’istruzione, la ricerca o ammodernare le proprie forze di polizia o le forze armate. Potrà stamparsi il denaro necessario. Così, secondo le dichiarazioni di Waigel, la nostra crisi finisce di colpo poiché sul fronte interno si potrebbero finalmente abbassare le tasse e avvicinarsi alla piena occupazione, mentre sul fronte esterno le nostre esportazioni potrebbero rimanere uguali come volumi, ma incrementerebbero come profitti per la svalutazione della moneta.

Ovviamente, per gli stessi motivi, l’uscita dall’euro per la Germania sarebbe un disastro, proprio a causa della prevedibile rivalutazione del marco e della susseguente difficoltà a esportare. E sul fronte interno, stante l’attuale ideologica posizione di non spendere e non investire, il mercato rimarrebbe anemico com’è. Inoltre, tutti gli asset bancari stranieri (investimenti all’estero) subirebbero una svalutazione (a causa della rivalutazione del marco) e le banche, già oggi vicine al collasso, si avvierebbero al default.

Quegli economisti, soprattutto nostrani, che paventano il disastro nel caso l’Italia esca dall’euro, non riescono a immaginarsi un utilizzo della sovranità monetaria: sono così calati nell’attuale sistema che non riescono a immaginarsi un mondo dove lo Stato spende ma non chiede moneta. Parlano di “stampa di moneta a più non posso” di “far correre le rotative della Zecca” e di “produrre una galoppante inflazione”. Ma sul fatto che dalla nascita, cioè dal 2001, la Bce ha stampato moneta in eccesso preparando così la crisi attuale, su questo non hanno nulla da dire. Una cecità ideologica quasi invidiabile.

Ma occorre dire che anche Waigel non la racconta tutta.
In realtà, non si tratta di un sistema “paesi del nord” contro “paesi del sud”.
L'Euro è un sistema che, molto più semplicemente, arricchisce chi ha denaro e impoverisce chi non lo ha. L’arricchimento dei paesi del nord e l’impoverimento di quelli del sud Europa è solo una macro evidenza di questo meccanismo, che nasce in una situazione di partenza dove quelli del nord sono partiti avvantaggianti in termini di risorse finanziarie.

In ogni caso, lo stesso meccanismo (impoverimento dei poveri e arricchimento dei ricchi) è visibile anche all’interno delle singole nazioni. La differenza in Italia tra nord e sud e l’ampliamento di questa differenza in questi vent’anni è forse l’esempio più evidente, accentuato dal fatto che per la semplice disposizione geografica le regioni del nord hanno intensi scambi economici, per esempio, con la Germania, mentre le regioni del sud sono completamente assenti in questi scambi commerciali.

E lo stesso accade in Germania. Secondo un recente rapporto dell’Istituto Ricerca Economica e Sociale WSI, in questi dieci anni di crescita impetuosa per la Germania la disuguaglianza dei redditi ha raggiunto un nuovo massimo storico. Il motivo principale è quasi ovvio: le persone ad alto reddito hanno tratto maggiore beneficio dai profitti aziendali e dai rialzi delle azioni in Borsa. Ovvio, perché le famiglie povere non hanno investimenti azionari.

L’analisi per fasce di ricchezza mostra un quadro desolante, già riscontrato da Pareto circa cento anni fa: l’1% dei tedeschi più ricchi ha quasi il 20% del patrimonio netto nazionale, il 10% ha il 56%. Dopo cento anni, il libero mercato senza regole combina gli stessi disastri sociali.

Questo è il motivo per cui ora la Germania si prepara a violare le regole europee e a fare investimenti, con la scusa della crisi ambientale. Ma, a parte il fatto che con quella scusa rischia di fare gli investimenti sbagliati, ormai è tardi: se si investe oggi i risultati in termini economici si vedranno tra alcuni anni, o anche più in là. Nel frattempo la crisi finanziaria rischia di travolgere tutto. Ma almeno in Germania iniziano a essere consapevoli del problema. In Italia invece abbiamo al governo gli ultimi talebani difensori di un sistema ormai fallito, quello dell’austerità dello Stato e dell’aumento delle tasse.
 
DOLLARO E CRESCITA MONDIALE: QUANTO QUESTI FATTORI SONO LEGATI FRA DI LORO

Un interessante pezzo di Mishtalk ci fornisce anche una visione un po’ alternativa circa le cause, ma anche gli effetti, dell’attuale rallentamento economico rispetto all’offerta monetaria della valuta USA.

Prima di tutto consideriamo che,per quanto indebolito nella sua posizione, il dollaro è ancora dominante a livello mondiale: basta vedere lo sviluppo del credito in USD rispetto a quello in Yen and in euro, almeno sino ad un paio di anni fa :


quindi il dollaro è ancora re sia nei commerci internazionali sia nella concessione del credito non bancario, ma in questa situazione la liquidità in dollari si è fortemente ridotta negli scorsi anni.


Se la base monetaria in dollari è cresciuta enormemente dal 2009 al 2014, più di quanto fosse cresciuta nei 48 anni precedenti, nello stesso tempo però , a partire dal 2015, con la fine del QE e la ripresa di una posizione più restrittiva, vi è stato un calo della base monetaria sensibile.

Purtroppo questa base monetaria è anche quella utilizzata nella regolazione del commercio internazionale da un lato, ed anche nella gestione di una fetta importante dell’attività di credito mondiale. La stretta monetaria quindi ha avuto un effetto di rallentamento nella crescita, ma la trasmissione è stata differita, non immediata:
Meno dollari in circolazione, minori finanziamenti, denaro più caro anche per pagare l’import export, uguale rallentamento dell’economia. Un rallentamento non immediato, perchè la cinghia di trasmissione è “Lenta” e richiede tempo.

La FED ha iniziato ad avere un atteggiamento più espansivo quando questo effetto è diventato sensibile, ma la sua politica espansiva potrebbe affrontare un problema strutturale:
infatti la produttività del debito in dollari è calata rispetto al periodo precedente:


Un dollaro di debito viene ad avere un ritorno economico ora molto più basso rispetto a quello che aveva avuto nel periodo 2007-2009, e come vedete il calo di rendimento dell’investimento è in molti casi molto sensibile, come con il 38,2% della Cina. In media il calo è stato dell11,1%. Quindi un dollaro in più di debito finanziato con la massa monetaria non viene più a rendere come durante la crisi finanziaria, e questo per un insieme di fattori demografici, macroeconomici e tecnologici. Quindi l’iniezione di liquidità della FED non potrà avere lo stesso effetto di stimolo che ebbe ne 2007-09, e di questo bisognerà tenerne conto.
 

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