giuseppe.d'orta
Forumer storico
Luigi Spaventa, ex presidente Consob. Da Il Sole 24 Ore di giovedì 13 gennaio.
Caro Direttore, nel bel manifesto programmatico di martedì scorso si legge che «il Sole si ribella alla logica del declino». Giusto. Ma, per ribellarsi, occorre prendere atto che quel declino c'è e combatterne le cause. Le diagnosi abbondano, complementari e condivisibili quando non siano caricatura (l'euro, la Cina): debolezza e ritardi del sistema industriale, con tanti piccoli che non crescono e pochi grandi su piedi di argilla; poca istruzione e pochissima ricerca, pubblica e privata; carenza delle infrastrutture immateriali, giuridiche e amministrative, che garantiscano e al tempo stesso regolino la libera attività economica.
Giustamente, lei va più a fondo: libertà economica appannata; mercato che troppo spesso è «terreno di scorrettezza e di avidità»; senso della legalità in caduta; povertà di istituzioni di garanzia e mancanza di «una cultura politica diffusa che ne apprezzi l'importanza»; conflitti d'interessi; una classe dirigente che «sceglie l'opacità e i mercati protetti, anziché accettare la sfida della trasparenze e dell'internazionalizzazione». Questi nodi vengono al pettine oggi, con l'impeto mondiale dell'innovazione e dei commerci, ma la loro origine è antica.
Si chieda, caro Direttore, se in questo Paese vi sia mai stata una rivoluzione borghese diffusa: quella di ceti nuovi e produttivi, che, nel nome del profitto di impresa, combattessero le corporazioni, recidessero i vincoli di assetti antichi, si ribellassero alle rendite; e con ciò, senza neppure volerlo, costringessero lo Stato a essere forte per regolare i loro eccessi.
Nonostante luci non rare ed episodi rilevanti di vitalità, occorre forse riconoscere che la storia ci consegna un'immagine mediocre della nostra borghesia: sovente, invece di intraprendere, ha cercato protezione alla sua debolezza; sovente, si è rivolta per questo non allo Stato con la esse maiuscola, ma alla politica con la p minuscola; in necessaria simbiosi, ha perciò sopportato che corporazioni e categorie continuassero a godere dei loro privilegi. Per passare dalle generalità a qualche particolare: domandiamoci quale uso fu fatto degli ingenti indennizzi per la (mal concepita) nazionalizzazione pagati alle società elettriche; notiamo oggi che i grandi capitali preferiscono l'investimento in settori non esposti alla concorrenza; constatiamo che quella sorta di "accumulazione primitiva" venuta a un certo punto alla luce in qualche provincia italiana viene impiegata nella finanza e nel controllo delle banche.
Ecco, ribellarsi alla "logica del declino" significa anche interrogarsi sulla "logica" più profonda a essa sottesa. Significa nel concreto combattere tutte, ma proprio tutte, le battaglie di una rivoluzione mai compiuta: un'economia libera e competitiva e uno Stato forte e garante della legalità sostanziale (e non di quella mutevole a seconda dei comodi) sono complemento e non antitesi. Saranno battaglie difficili: il nemico da battere non è l'onorevole Bertinotti; le mine da disinnescare sono nel campo amico.
Caro Direttore, nel bel manifesto programmatico di martedì scorso si legge che «il Sole si ribella alla logica del declino». Giusto. Ma, per ribellarsi, occorre prendere atto che quel declino c'è e combatterne le cause. Le diagnosi abbondano, complementari e condivisibili quando non siano caricatura (l'euro, la Cina): debolezza e ritardi del sistema industriale, con tanti piccoli che non crescono e pochi grandi su piedi di argilla; poca istruzione e pochissima ricerca, pubblica e privata; carenza delle infrastrutture immateriali, giuridiche e amministrative, che garantiscano e al tempo stesso regolino la libera attività economica.
Giustamente, lei va più a fondo: libertà economica appannata; mercato che troppo spesso è «terreno di scorrettezza e di avidità»; senso della legalità in caduta; povertà di istituzioni di garanzia e mancanza di «una cultura politica diffusa che ne apprezzi l'importanza»; conflitti d'interessi; una classe dirigente che «sceglie l'opacità e i mercati protetti, anziché accettare la sfida della trasparenze e dell'internazionalizzazione». Questi nodi vengono al pettine oggi, con l'impeto mondiale dell'innovazione e dei commerci, ma la loro origine è antica.
Si chieda, caro Direttore, se in questo Paese vi sia mai stata una rivoluzione borghese diffusa: quella di ceti nuovi e produttivi, che, nel nome del profitto di impresa, combattessero le corporazioni, recidessero i vincoli di assetti antichi, si ribellassero alle rendite; e con ciò, senza neppure volerlo, costringessero lo Stato a essere forte per regolare i loro eccessi.
Nonostante luci non rare ed episodi rilevanti di vitalità, occorre forse riconoscere che la storia ci consegna un'immagine mediocre della nostra borghesia: sovente, invece di intraprendere, ha cercato protezione alla sua debolezza; sovente, si è rivolta per questo non allo Stato con la esse maiuscola, ma alla politica con la p minuscola; in necessaria simbiosi, ha perciò sopportato che corporazioni e categorie continuassero a godere dei loro privilegi. Per passare dalle generalità a qualche particolare: domandiamoci quale uso fu fatto degli ingenti indennizzi per la (mal concepita) nazionalizzazione pagati alle società elettriche; notiamo oggi che i grandi capitali preferiscono l'investimento in settori non esposti alla concorrenza; constatiamo che quella sorta di "accumulazione primitiva" venuta a un certo punto alla luce in qualche provincia italiana viene impiegata nella finanza e nel controllo delle banche.
Ecco, ribellarsi alla "logica del declino" significa anche interrogarsi sulla "logica" più profonda a essa sottesa. Significa nel concreto combattere tutte, ma proprio tutte, le battaglie di una rivoluzione mai compiuta: un'economia libera e competitiva e uno Stato forte e garante della legalità sostanziale (e non di quella mutevole a seconda dei comodi) sono complemento e non antitesi. Saranno battaglie difficili: il nemico da battere non è l'onorevole Bertinotti; le mine da disinnescare sono nel campo amico.