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Il debito italiano e la crisi. Capiamone di più
La montagna del debito pubblico italiano mette a rischio fiducia dei mercati
21-11-2011, ore 11:05 -
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A QUANTO AMMONTA IL NOSTRO DEBITO, COSA E’ E CHI LO DETIENE – Alla fine del mese di giugno del 2011, il
debito pubblico italiano risultava ammontare complessivamente a 1901 miliardi di euro, secondo le stime diramate dalla Banca d’Italia. Tuttavia, alla fine di settembre, esso risultava essere sceso in valore assoluto di qualche miliardo, appena sotto la soglia dei 1900 miliardi. Se consideriamo che il nostro pil alla fine del 2011 dovrebbe ammontare intorno ai 1600 miliardi di euro, ciò significa che il rapporto tra il nostro debito e il pil sarà a fine anno di circa il 119%. Detto in altri termini, ciò significa che l’indebitamento pubblico è superiore all’intera ricchezza che l’Italia produce in un anno. Se, per ipotesi, per un anno rinunciassimo a tutta la ricchezza che abbiamo prodotto (profitti, interessi, salari, stipendi, pensioni, etc.), ciò non basterebbe a ripagare tutto quanto il debito accumulato.
Tuttavia, molti economisti considerano il rapporto debito pubblico Pil una misura inconsueta e distorta della visione del grado di indebitamento di un Paese, in quanto il debito è un valore di stock, mentre il pil è una variabile di flusso. In parole povere, tale rapporto avverrebbe tra un valore di tipo “patrimoniale” e uno di reddito, mentre sarebbe più appropriato rapportare il debito alla ricchezza patrimoniale netta detenuta da un Paese, costituita dal suo patrimonio pubblico e privato.
Da questo punto di vista, l’Italia avrebbe un rapporto invidiabile agli altri stati, grazie alla notevole ricchezza privata accumulata dalle famiglie e dalle imprese, pari a 5,5 volte il nostro pil, a cui si dovrebbe aggiungere la ricchezza dei beni pubblici, valutati intorno a 1,5 volte il pil.
In totale, avremmo una ricchezza complessiva pari a circa 7 volte il nostro pil, per un debito pari a 1,19 volte il pil annuo. Una situazione per nulla drammatica.
COSA E’ IL DEBITO PUBBLICO: VEDIAMOCI CHIARO
Soffermiamoci ora su cos’è il debito pubblico. Esso è dato dai debiti accumulati negli anni dallo stato, compresi gli enti locali. A loro volta, essi sono dati dalla differenza tra ciò che lo stato è riuscito a incassare e ciò che ha speso. Tale differenza si chiama deficit e la somma dei deficit è il debito pubblico.
Lo stato salda la differenza, indebitandosi, ossia emettendo titoli del debito, di varia durata (BoT, BTp, CcT, etc.). Ma chi sono i possessori dei titoli del debito? Stando ai dati di fine giugno, il 56,4% di loro risulta essere italiano, mentre il 43,6% è straniero. Andando, invece, a studiare la tipologia dei possessori, si scopre che solo il 12,7% di questi sono famiglie, mentre per il resto si tratta di investitori istituzionali e, in particolare, i soggetti istituzionali italiani possiedono una quota di debito uguale a quella posseduta dai soggetti istituzionali stranieri. La Banca d’Italia possiede il 3,6% del nostro debito, le banche commerciali italiane il 26,2%, assicurazioni e fondi italiani il 13,8%, banche straniere il 10,8%, fondi stranieri il 32,8%.
GLOSSARIO DELLA CRISI. PARLIAMO DI SPREAD E MERCATO SECONDARIO
In queste settimane drammatiche della crisi sui mercati finanziari e dei titoli di stato, si è soliti fare molta confusione su alcuni concetti base, che vanno chiariti. Lo
spread Btp Bund, ossia il differenziale di rendimento tra i titoli italiani e quelli tedeschi, per ciascuna scadenza uguale (i Bund tedeschi si prendono a riferimento, perchè fungono da benchmark per il mercato, essendo quelli con rendimento più basso e la valutazione migliore delle agenzie di rating), le cui oscillazioni seguiamo ogni giorno con attenzione, riguarda l’andamento del mercato secondario dei bond governativi. Si tratta, cioè, non dei rendimenti e dei differenziali dei titoli emessi all’asta dal Tesoro, bensì di quelli che si registrano sul mercato, in seguito alle contrattazioni “tra privati”. In sostanza, chi compra, ad esempio, un BTp a dieci anni, il giorno stesso può rivenderlo sul mercato “secondario” e lì, sulla base della legge della domanda e dell’offerta, esso renderà di più (titolo perde valore) o di meno (titolo acquista valore).
Ovviamente, i rendimenti del mercato secondario e quelli alle aste sono legati nel medio termine, come dimostrano anche i risultati degli ultimi collocamenti di titoli da parte del Tesoro. Ciò è dovuto al fatto che il secondario generalmente registra con maggiore immediatezza la maggiore fiducia o sfiducia dei mercati, ma col tempo il dato si trasmette anche al mercato primario. Inoltre, per una questione di arbitraggio, se i rendimenti dei titoli fossero molto diversi tra i due mercati, converrebbe comprare laddove il titoli vale meno e rende di più, con ciò tendendo ad annullare le divergenze.
IL PERCHE’ DELLA CRISI DI FIDUCIA E QUALI POSSIBILI RIMEDI
Da mesi, i titoli di stato italiani sono sotto attacco, dopo quelli della Grecia, di Portogallo e Spagna, causando ciò un aumento dei rendimenti sia sul mercato primario che sul secondario, come frutto di un forte disinvestimento da parte degli operatori del mercato. A cosa è dovuta tale sfiducia?
Il fatto è che con la crisi del 2008-2009, tutti i governi hanno mediamente aumentato la spesa pubblica e registrato un calo delle entrate, per effetto della recessione. Ciò ha creato un aumento dell’indebitamento complessivo, con una maggiore offerta di titoli sui mercati dei bond, mentre la domanda, nel migliore dei casi, è rimasta immutata. Questo dato ha indotto gli investitori a “scremare” più di prima i bond su cui investire, preferendo puntare per i propri investimenti in titoli considerati più sicuri, sulla base del minore indebitamento e di migliori fondamentali economici (crescita, rapporto debito/pil, deficit/pil).
Ora, l’Italia ha un rapporto tra debito e pil sostanzialmente simile da circa venti anni e, pertanto, il timore di un default non è affatto giustificato, perchè il nostro Paese ha già dimostrato di essere in grado di gestire una tale situazione. Ma quello che si chiedono i mercati è: per quanto tempo, un Paese che non cresce e che mostra una tendenza al declino da un punto di vista delle prospettive di crescita, occupazione e investimenti, potrà continuare a sostenere un debito così alto? Ciò, in particolare, osservando la tendenza italiana a non riformare mai i meccanismi di spesa e a non porre rimedio alle gravi inefficienze pubbliche, che sono alla base della generazione continua di nuovo debito.
Per questo, soprattutto le banche straniere hanno iniziato a vendere
titoli italiani, che si sono così deprezzati, rendendo di più. C’è poi la questione speculativa, ossia le banche (francesi e Goldman Sachs, in testa) hanno puntato a vendere i nostri bond, con la speranza che perdendo questi molto valore, potranno riacquistarli in seguito a prezzi molto più bassi, realizzando guadagni capitale notevoli e appropriandosi di una grossa fetta del debito italiano (per potere influenzare così di più il nostro governo?).
RAPPORTO DEBITO PUBBLICO PIL: DA COSA DIPENDE
Ad ogni modo, il rapporto tra debito e pil dipende da tre fattori essenziali: deficit fiscale, crescita del pil e inflazione. Tale rapporto cresce sulla base di questa equazione: deficit fiscale (in rapporto al livello di debito) – crescita del pil reale + tasso inflazione.
Non potendo puntare per ovvie ragioni sulla crescita dell’inflazione (oltre che deleterio, la politica monetaria è nelle mani della BCE), quindi, rinunciando alla cosiddetta monetizzazione del debito, le uniche due cose che il governo italiano dovrà fare per i prossimi anni saranno il contenimento del deficit di bilancio, con l’obiettivo di raggiungere il pareggio e l’adozione di politiche per la crescita.
Così facendo, come ci chiedono UE e BCE, l’Italia non genererebbe più alcun aumento del debito in valore sia assoluto che percentuale (il deficit sarebbe zero), e la maggiore crescita del pil ridurrebbe il peso dell’indebitamento in termini percentuali. Per questo, l’Europa ci chiede di puntare su misure di austerità fiscale da un lato e su liberalizzazioni, flessibilità del lavoro e riduzione delle burocrazie dall’altro. A parità di spesa pubblica, infatti, queste ultime misure consentono all’economia di meglio raggiungere il proprio potenziale, ossia di crescere di più.
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