L'importanza di essere Russia

HARBIN: LA NUOVA CINA DIVORA LA VECCHIA RUSSIA


Russia Viaggio al confine con l'ex impero sovietico, nella Manciuria che da povera è diventata simbolo di un'economia in aggressiva espansione.
Milioni di abitanti, di luci, di auto: è partito l’assalto al grande Nord

DI GIULIETTO CHIESA

HARBIN. Sulle banconote da cento yuan della Repubblica Popolare Cinese campeggia Mao Tsetung. Otto di questi biglietti, all'incirca, da tempo immemorabile (per i criteri della new economy) fanno un dollaro americano. E, nonostante tutti gli sforzi di Bush perché lo yuan venga rivalutato almeno del 25%, l'impressione è che continueranno a fare un dollaro ancora a lungo. Visto da Harbin, quassù, al nord della Manciuria, ai confini con tutto l'Estremo Oriente ex sovietico e ora russo, il «problema Cina» appare ancora più immenso e ingovernabile di quanto non potrebbe sembrare da Bruxelles o da New York.
Una metropoli, Harbin, a noi sconosciuta, ma solo per colpa nostra, di otto, forse dieci milioni di abitanti - le cifre che ti vengono date variano molto - a 500 chilometri dalla frontiera con la Russia, cioè con le più grandi risorse minerarie del pianeta; che si affaccia sul Mar del Giappone; che confina con la Corea del Nord e la Mongolia esterna, attorno a cui gravita una popolazione più grande di quella dell'Italia.

Un immenso, sterminato cantiere che sforna grattacieli di banche e istituzioni, imprese multinazionali, di civile abitazione, a ritmi che nessun Paese europeo - nessun Paese del mondo - ha mai visto in tutta la storia del capitalismo.

Non è difficile prevedere che, tra non molto, questa sarà un'area strategica di importanza planetaria. La sera, girando lungo le moderne circonvallazioni sopraelevate, in mezzo a un traffico convulso ma pazzescamente veloce, la città - nuova di zecca come un giocattolo tecnologico - s'illumina come una fiera di paese. Una fiera inimmaginabile, in cui ogni edificio ha il suo arredo luminoso individuale, distinto da quelli vicini. Ciascuno il suo stile, i suoi colori. Il tutto a sommarsi con lo sfarzo della pubblicità luminosa tipo Las Vegas che inonda le vie principali ai piani più bassi.

Se la Cina è a corto di energia, ad Harbin non si vede. Anche loro a danzare sul Titanic, come se il petrolio non fosse a 60 dollari il barile. E non è una festa o una ricorrenza, meno che mai politica. Semplicemente la municipalità ha chiesto a tutti i proprietari d'immobili - pubblici e privati - di contribuire alla bellezza comune. Tutti i giorni dell'anno, quelli dell'estate afosa e tremenda, con i suoi 40 gradi, e quelli dell'inverno gelato a meno trenta.

La città è giovane, per il metro europeo. A metà dell’800 - come si può vedere dai dagherrotipi esposti nel piccolo museo in cui è stata trasformata l'ex cattedrale ortodossa di Santa Sofia, quasi seppellita dalla magnificenza consumistica del mall intitolato al dio Manhattan - Harbin era un agglomerato di poche decine di baracche di legno sulle rive del fiume immenso che ora attraversa la città e che solo negli ultimi anni è stato domato da argini di granito nuovi di zecca. Nuovi come tutto il resto qui. Santa Sofia è così poco santa che non si trova un solo pope disposto a officiarvi. O forse si troverebbe ma non interessa a nessuno. Un altoparlante sull'arcata d'ingresso in mattoni rossi e scrostati inonda la piazza di pop-rock cinese. Niente inglese.



Qui i russi sono ancora presenti. Per storia, per tradizione. Sono stati padroni, occupanti, e si sono contesi queste terre con i giapponesi in guerre sanguinose. Qui, ancora nel 1936, si pubblicava un giornale in lingua russa per una comunità numerosa di emigrati e uomini d'affari. Prima il capitalismo russo nascente e imperiale, poi il socialismo russo nascente e anch'esso imperiale, scendevano al Sud a portare la modernità. C'è una strada ad Harbin, che si chiama ancora adesso «la via dell'oro». L'hanno trasformata in isola pedonale, costeggiata di case costruite secondo lo stile russo di fine ‘800 che si può vedere ancora nel centro di Mosca, o di San Pietroburgo, o di Vladivostok. Via dell'oro perché è lastricata di sanpietrini rettangolari di granito, un lavoro perfetto anche per l'epoca attuale, costituito da qualche milione di pietre: portarne una fino ad Harbin costava, allora, un rublo. E quelli erano rubli che valevano.

Ora le parti sono invertite. La Fiera di Harbin, quest'anno - gigantesca come tutto da queste parti - era dedicata alla Russia. Intere aree occupate da imprese russe, che arrivano qui, in genere per vendere materie prime. C'è di tutto: dall'oro, ai diamanti, al petrolio, al legname della sterminata taigà. L'unica cosa che scarseggia sono gli uomini. Quello che si vende è russo ma anche i venditori sono ormai cinesi. Da una parte della frontiera restano, sì e no, sette milioni di persone, in calo, perché vivere in quelle condizioni climatiche, senza servizi sociali, senza capitali, è un sacrificio che solo pochi vogliono affrontare. Ai tempi sovietici, per popolare l'Estremo Oriente russo e la Siberia, il sistema pianificato aveva inventato il sistema del doppio incentivo: più andavi a Nord e a Est, più il salario cresceva.

Un operaio che accettava di muoversi verso la Ciukotka poteva trovarsi con un salario dieci, venti volte, superiore a quello del suo collega di Mosca. A cui si aggiungevano privilegi allora molto appetibili: una Zhigulì a prezzo di fabbrica senza aspettare il turno di dieci anni; un appartamento fuori quota nella capitale della repubblica di provenienza, fosse l'Ucraina, la Bielorussia, l'Armenia o la Georgia.

Ma il capitalismo non colonizza con questi criteri. E, finito il socialismo, ha eliminato i coefficienti. Ciascuno fa a modo proprio. E il risultato è che i russi, la grande maggioranza, se ne tornano - quelli che possono - verso i climi più temperati. Così si sta creando, da dieci anni a questa parte, una situazione inedita. Da una parte della frontiera, quella più ricca di beni da estrarre dal suolo e sottosuolo - qualcosa grande come una volta e mezza l'intera Europa, ci sono sette milioni di individui, in gran parte anziani, senza capitali da investire.

Mentre dall'altra parte, quella meno ricca di beni, ci sono settanta milioni di persone, cinesi, ormai dotate di capitali a volontà, impegnati nella corsa all'oro, dotati di un'energia creatrice e distruttrice (secondo la ricetta neo liberista più limpida) che non ha pari nell'epoca contemporanea.



Il risultato è già clamorosamente visibile, anche se sono pochi quelli che hanno già capito quali saranno gli effetti di lungo periodo: milioni di cinesi stanno pacificamente invadendo le regioni russe confinanti dello Heilongjang. Città come Khabarovsk, Blagoveshensk, Komsomolsk sull'Amur, Nikolaevsk, un tempo totalmente russe - la frontiera con la Cina era non solo chiusa ma contestata da ambo le parti, guardata a vista, oggetto di tensione permanente - sono oggi per metà cinesi. Un'invasione pacifica, naturale, inesorabile, inevitabile, che con l'andare del tempo trasformerà la fisionomia etnico-linguistica, cioè nazionale, di queste regioni.

Che farà il successore di Putin? Che farà l'America scoprendo che la Cina avrà a portata di mano il bengodi di tutta la tavola di Mendeleev? Qui ad Harbin la politica non si vede mai, come poco o niente si vedono i poliziotti. Che comunque sono ormai elegantemente vestiti, con la fondina alla cintura ma vuota di ogni pistola. Tutto ruota, in questo formicaio gigantesco, apparentemente senza frizioni. Progettano una città che sarà quattro volte più grande di questa attuale, piantano milioni di alberi. Hanno costruito il nuovo palazzo del governo locale, come una piramide in vetrocemento a cinque chilometri dal centro, mentre il resto della città cresce ad altri dieci chilometri di distanza.

Ma comprano terreni al di là della frontiera del Nord. Il legname oltre l'Ussuri e l'Amur sono loro a tagliarlo e a commercializzarlo. Uno degli stand della fiera di Harbin era della Paleks, Associazione dei produttori ed esportatori di legname di tutta l'area di frontiera. Un gruppo di 22 imprese dai nomi russi, piene di capitali cinesi, il cui scopo è apparentemente quello di mettere ordine nella selvaggia deforestazione in corso a Nord dell'Amur. Un altro stand era dedicato a una «zona libera» a cavallo della frontiera. Cercansi capitali per costruirla: hotel di lusso dalla parte russa, case da gioco e grandi magazzini dalla parte cinese.

Mostro il Grande Condottiero sulla banconota da 100 yuan alla signora Nu Fu Yan, gentilissima accompagnatrice fornitami dal Comitato per l'agricoltura della municipalità di Harbin. Che ne pensa, signora, di lui? «È il padre della nazione», risponde. E di Deng Xiao Ping, che ne pensa? «Lui ci ha insegnato cosa sono i soldi e ci ha detto che possiamo diventare ricchi».

Giulietto Chiesa
Fonte:www.lastampa.it
 
LA RUSSIA PROSSIMA VENTURA




Dove va la Russia? Domanda periodicamente emergente, che storicamente ha quasi sempre significato una constatazione implicita: va e non viene, cioè va da un'altra parte. Russia versus Europam, per esempio. Ma la domanda è oggi particolarmente pertinente, perchè fino a ieri sembravamo tutti convinti che, dopo la "fine della storia" di Francis Fukuyama, la Russia non andasse da nessuna parte per il semplice fatto che, come tutti, era già arrivata al capolinea, rappresentato dal mercato, dallo stato di diritto, dalla democrazia. Invece non era così. Niente affatto. E qui sorgono molte domande, che concernono non la Russia, ma noi. Perchè, per esempio, ci eravamo tutti illusi che il problema Russia fosse ormai definitivamente risolto? Non è - viene il sospetto - che il nostro modo eurocentrico, o occidentalecentrico , non funziona bene per descrivere il mondo contemporaneo? Ma questo è un altro discorso.

Resta il fatto che la Russia va piuttosto verso l'Asia che non verso l'Europa. Per giunta tutto ci dice che la Russia - parlo dei russi - vorrebbe, avrebbe voluto, spasmodicamente, "venire" verso l'Europa, ma le cose sono andate storte, contro i nostri e i loro desideri. C'è molto di ancestrale e di profondo, per esempio, nella diffidenza dei russi verso la Cina. Bisogna affondare nei secoli per capire che è scomodo e pieno di pericoli avere come vicini popoli grandi e in espansione. I cinesi ebbero le stesse sensazioni sgradevoli quando la Russia arrivò d'impeto, quasi risucchiata dalle immensità vuote della Siberia, fin sulle rive dell'oceano Pacifico. Reciproca diffidenza storica, dunque. I russi di oggi, quando pensano al loro futuro, sognano una società assai più vicina a quella tedesca, o francese, che non a quella cinese. Parigi e Berlino sono le loro mete ideali, come lo erano trecento, quattrocento anni orsono.

Paradossalmente, anche per i cinesi, la meta ideale non è certamente Mosca, ma lo sono New York, San Francisco, Los Angeles. Invece gli uni e gli altri convergono sull'Asia, dove entrambi i popoli vivono e vivranno. Potrò sbagliarmi, ma tutto questo mi fa pensare che il nostro modello di vita, per quanto gradevole all'apparenza, specie da coloro che lo guardano da fuori, non sia così facilmente esportabile come siamo abituati a ritenere. Vedi, per esempio, l'Irak. Siamo andati lì - abbiamo spiegato - per portargli la libertà e per abbattergli la dittatura che li opprimeva, e loro, ingrati, rispondono a colpi di bombe e di kamikaze.

Ma anche questo è un altro, e lungo, discorso. Resta il dato che la Russia, appena affacciatasi verso il mondo occidentale, se ne è ritratta. E sta tornando verso una forma di potere autocratico assai simile a quella di Alessandro II, quando ancora lo zar era non solo il re, ma il proprietario in senso stretto del territorio che governava. Singolare e - avrebbe detto Niccolò Machiavelli - "maravigliosa" evoluzione, nel senso di imprevista, curiosa, sorprendente. Altro che fine della storia! Si potrebbe dire, al contrario, con Giovanbattista Vico, che siamo di fronte a un vero e proprio ricorso storico.

Si dà il caso, infatti, che Vladimir Putin ha realizzato, piano piano, senza fare proclami, passo dopo passo, un'operazione che ha mutato la fisionomia del potere in Russia. Di che si tratta? Del fatto che praticamente il sistema degli oligarchi privati costruito da Boris Eltsin tra il 1992 e il 1999 - anno in cui è stato allontanato dal potere dagli stessi oligarchi - è stato sostituito da un sistema di oligarchi di stato. Nomina dopo nomina, il nuovo zar ha portato ai vertici di quasi tutte le più importanti compagnie energetiche del paese i suoi uomini più fidati. A cominciare da Gasprom, il gigante per eccellenza di gas e petrolio, scendendo per li rami, si può dire che il presidente-zar detiene il controllo diretto di tutta l'energia della Russia. Restano fuori da questo controllo, ma è pura apparenza, le imprese petrolifere e industriali di Roman Abramovic e il colosso elettrico Rao-EES, sotto la presidenza del "liberale" e ultra neo-liberista Anatolij Ciubais. L'apparenza consiste nel fatto che Roman Abramovic non resterebbe un attimo in possesso dei beni di cui dispone e che è riuscito a rapinare nell'epoca della caccia all'oro eltsiniana, se non fosse totalmente, incrollabilmente fedele allo zar. Il quale gli ha lasciato perfino una via di fuga, rappresentata dalle sue compere natalizie in campo calcistico, e varie altre piccole e medie scappatelle finanziarie negli offshore di tutte le latitudini. Sarà là che andrà a rifugiarsi non appena lo zar si spazientisse. E la stessa, identica cosa vale per Ciubais, che rimane al suo posto (dove arrivò per nomina di Boris Eltsin) solo ed esclusivamente perchè è riuscito a conquistare, piegandosi, la benevolenza del padrone.





Il messaggio lanciato al paese - e ai restanti, marginali oligarchi privati - con l'arresto e la condanna di Mikhail Khodorkovskij (nella foto sotto) è stato proprio questo. Chi non si piega sarà liquidato. Con i mezzi "moderni" del "diritto telefonico", quelli cioè in cui l'indipendenza della magistratura russa finisce quando la "vertushka" (il telefono diretto con il Cremlino di cui sono dotati tutti gli uffici principali del potere) suona.

Dunque, poichè in Russia nulla di nuovo è stato costruito, in questi ultimi 14 anni, per lanciare il paese verso una profonda riorganizzazione - di mercato, appunto - dell'economia, e poichè la Borsa di Mosca è per il 70% la borsa del petrolio e del gas, come è sempre stata, il controllo dell'energia significa il controllo del paese. Al quale va aggiunto il controllo - stavo per scrivere "statale", mentre dovrei dire "personale" - assoluto sui media televisivi centrali. Tutte cose che con la democrazia occidentale non hanno molto a che fare (salvo che con quella particolarissima democrazia occidentale che è l'Italia di Berlusconi. Ma anche questa è un'altra storia, nella quale probabilmente si riuscirebbe a capire la ragione dell'amicizia comprovata tra lo zar e il premier). E molti si chiedono che succederà adesso, tra poco, quando teoricamente Vladimir Putin, stando alle regole formali che fino a oggi ci autorizzano a definirlo un leader delle democrazie occidentali, dovrà abbandonare il potere perchè la sua Costituzione ne delimita le possibilità di rielezione oltre il secondo mandato.

Non scommetterei un soldo bucato sull'eventualità che se ne vada davvero. E dove mai potrebbe andare un uomo così giovane? E come immaginare che possa lasciare il potere a qualcun altro, sulla cui lealtà assoluta (non occorre che abbia letto Machiavelli per saperlo) contare sarebbe atto di altissimo rischio? E perchè mai Vladimir Putin avrebbe costruito e accumulato, con certosina determinazione, un tale sconfinato potere politico ed economico sul proprio paese e sui propri sudditi? Per lasciarlo a chi?

Resta dunque da studiare quali saranno le vie più probabili attraverso cui, senza troppo vulnerare l'involucro "democratico" del potere russo, lo zar resterà al comando. Lo farà forse imponendo alla Duma (interamente sotto il suo controllo) di votare una modifica della Costituzione? Troppo scoperto, ma non da escludere, come extrema ratio. Oppure con un gioco di prestigio consistente nell'accelerazione del processo di unificazione tra Russia e Bielorussia. In tal modo si creerebbe un nuovo stato, con una nuova Costituzione unificata. Il presidente del nuovo stato (che dovrà avere una nuova denominazione, per la gioia degli editori di carte geografiche e atlanti) sarebbe eletto per la prima volta e per due o tre mandati consecutivi. Quanto basta allo zar per arrivare ad un'età avanzata e per garantirsi una vecchiaia davvero sicura. Alla testa delle due ex repubbliche unite basterebbe mettere due primi ministri con poteri analoghi (cioè minimi) a quelli dell'attuale capo del governo di Mosca. E il gioco sarebbe fatto. Forse è in questa chiave che vanno lette le due recenti promozioni di due fedelissimi del presidente. Dmitrij Anatolievic Medvedev, nuovo oligarca di stato, oltre che capo dell'Amministrazione presidenziale, che diventa primo vice-premier nel governo di Nikolai Fradkov, e Sergei Borisovic Ivanov che, restando ministro della Difesa, diventa anche vice-premier.

Ecco dove va la Russia. L'abbiamo promossa, frettolosamente, repubblica democratica, secondo i nostri gusti. Adesso scopriamo che non lo è. Putin, dal canto suo, non è un improvvisatore. Sa perfettamente che la finzione democratica sta per finire, così come sta finendo l'illusione dell'Imperatore d'oltre oceano, che egli fosse un alleato definitivo nella "grande lotta contro il terrorismo internazionale". Per questo Putin porta la Russia in Asia, verso est. Là c'è la Cina, che non è stata ancora promossa nel campo democratico e che non lo sarà neppure domani, perchè deve diventare il nemico con cui fare i conti del dominio mondiale. Diventare alleati, per Mosca e Pechino, sta diventando, più che una scelta, una necessità urgente da adempiere.

Giulietto Chiesa
Fonte: www.giuliettochiesa.it/
 
L'Ucraina a secco
:::: 4 Gennaio 2006 :::: 3:22 T.U. :::: Analisi :::: Daniele Scalea


Alle ore 10.00 dell’1 gennaio 2006, la popolazione ucraina ha potuto cogliere il frutto della sua “rivoluzione arancione”: gli odiati Russi hanno girato le manopole, e i tubi che rifornivano di gas naturale l’Ucraina sono rimasti a secco. Viktor Juščenko ha rigettato tutte le proposte di Vladimir Putin: non ha accettato di passare alle tariffe di mercato internazionali per il gas, ha rifiutato un prestito russo ed anche la proroga di tre mesi delle vecchie tariffe. Ora la maggior fonte energetica per l’Ucraina sono il gas e il petrolio turkmeni, che insieme alla produzione interna (centrali nucleari ed idroelettriche) coprono sì e no metà del fabbisogno del paese. Per l’altra metà, si vedrà. Inoltre, visto che i rifornimenti turkmeni giungono via Russia, Mosca ha in mano un’altra carta per allontanare colpi di testa del “direttorio arancione”.

Il governo ucraino e gli atlantisti europei e nordamericani denunciano la presenza, dietro all’innalzamento dei prezzi ufficialmente deciso dalla Gazprom, dello Stato russo che ne è azionista di maggioranza, cosicché quella cui stiamo assistendo si tradurrebbe in una ritorsione politica del Cremlino contro Kiev. Nulla di più vero. E di più legittimo.

Sciolta l’Unione Sovietica, la Russia decise di praticare sconti sulla vendita di petrolio e gas naturale a tutte le repubbliche ex consorelle, persuasa che ciò le avrebbe attirato la gratitudine di quei popoli e, dunque, il mantenimento della sua sfera d’influenza eurasiatica. Fu una pia illusione, perché tutte le repubbliche ex sovietiche scelsero, ovviamente, di godere degli sconti russi e nel contempo dei finanziamenti euro-nordamericani, accettando la supremazia globale di Washington. Fortunatamente il Cremlino ha finalmente capito, pur con colpevole ritardo, che quello della fornitura energetica poteva essere uno ma non il solo mezzo politico da utilizzare nella CSI, e che comunque lo sfruttamento doveva essere praticato in maniera più razionale. Perciò, dal 2006 i paesi ex sovietici che importano idrocarburi dalla Federazione Russa, si vedranno praticare tariffe personalizzate a seconda di: lontananza geografica dalla madrepatria (cioè i costi di trasporto); vicinanza politica a Mosca; considerazioni strategiche contingenti del Cremlino. Si tratta cioè d’un criterio economico, uno politico ed uno strategico. Per meglio comprendere l’essenza di quest’ultimo, che a primo acchito potrebbe non apparire ovvio, possiamo sfruttare un esempio freschissimo: l’innalzamento dei prezzi energetici all’Ucraina e alla Georgia. Entrambi i paesi sono antirussi e filamericani, entrambi i paesi sono direttamente confinanti con la Federazione Russa, entrambi i paesi sono membri del GUAM e della neonata “Comunità per la Scelta Democratica”; tuttavia, essi avranno un trattamento economico molto differente. La richiesta (accettata) al governo georgiano è stata quella di elevare la tariffa del gas da 68 a 110$ per 1000 m cubi: non è poco, eppure è un’inezia in confronto all’aumento - da 50$ a 230$! - richiesto a Kiev. La possibile spiegazione di questo trattamento discriminatorio tra le due nemiche Georgia e Kiev si potrebbe, a mio parere, trovare nella considerazione che segue.

In Georgia l’antirusso radicale Saakašvili rovesciò il presidente antirusso moderato Ševardnadze; oggi la vivace opposizione al nuovo presidente è rappresentata da partiti e movimenti parossisticamente antirussi. Come si può facilmente intuire, la classe dirigente georgiana è piuttosto compatta nel valutare i suoi rapporti con Mosca. Ne risulta che il Cremlino deve accettare di trattare con chi oggi è al potere non vedendo alternative migliori, sfruttando minacce e lusinghe, e soprattutto la questione dei due stati separatisti in Georgia, l’Abchazia e l’Ossezia del Sud, entrambi protetti e foraggiati dalla Russia. Il Cremlino può permettersi un lavoro metodico e lungo nel paese caucasico, poiché non nutre per quello alcuna mira immediata, se non quella di sottrarlo alla sfera d’influenza statunitense.

Con l’Ucraina si cambia discorso. Questo paese è vitale per i progetti strategici di Mosca, e i Russi vorrebbero riacquistarlo a sé il prima possibile. In ciò sono favoriti, oltre che dalla dipendenza energetica ucraina verso di loro, anche dalla cospicua minoranza di Russi etnici nel paese (circa un quarto della popolazione complessiva), e dalla preponderanza di russofoni (come prima o seconda lingua) sugli ucrainofoni. Inoltre la popolarità di Juščenko è ai minimi storici (il 14% a novembre, secondo un sondaggio), il suo fronte politico s’è frantumato e a marzo si terranno le elezioni parlamentari. Una ghiotta opportunità per sfrattare il pupillo del FMI dalla casa presidenziale, e per coglierla è necessario dare un “segnale forte” all’elettorato ucraino. L’aumento tariffario applicato alla Georgia avrà certo effetti sull’economia di quella, ma solo nel medio periodo. In Ucraina, invece, era necessario che i frutti della politica antirussa di Juščenko caratterizzassero già questa campagna elettorale. Ecco il perché d’un aumento così vertiginoso, improponibile e palesemente politico. Gli Ucraini quest’inverno saggeranno il freddo della Sarmazia, e (per la seconda volta in poco più d’un anno di governo “arancione”) potrebbero dover affrontare il razionamento energetico. Spesso simili pressioni hanno l’effetto contrario di quello sperato, e concorrono a rinsaldare la popolazione intorno al suo Presidente: come avvenne in Italia con le sanzioni seguite alla Guerra d’Etiopia. Ma nel contesto ucraino questa è un’eventualità remota: un quarto degli Ucraini sono russi, metà sono filorussi, due terzi russofoni, e quasi tutti arci-stufi del signor Juščenko. Per il butterato banchiere prestato alla politica potrebbe essere il colpo di grazia. O forse no. L’ago della bilancia sarà Julia Timošenko. Questa, a differenza del Presidente, gode ancora d’elevata popolarità, essendo riuscita a farsi passare per vera incarnazione della “rivoluzione arancione”, sacrificata da Juščenko alla logica del potere. Buona parte degli “arancioni” delusi dirotterà su di lei il proprio voto, e con questo patrimonio di suffragi l’ex Prima Ministra si troverà di fronte a un bivio: tornare con Juščenko fornita di cotanta dote (alcuni ipotizzano che tale evenienza sia già stata pianificata scientemente quale strategia per limitare al minimo i danni dovuti al malcontento popolare), oppure cedere alle lusinghe di Mosca - dove non rientra più tra i ricercati - e riportare l’Ucraina nell’abbraccio della madrepatria.
La risposta a marzo.

(articoli collegati:
http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/InvoluzionearancioneinUcra.shtml

http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/LaRussiaeisuoivicini.shtml

inoltre si veda il sommario del numero 2/2005 dedicato alla Russia e i suoi vicini: http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/numeri/22005.shtml)
 
PUTIN E MINSK LA MOSSA DEL CAVALLO


DI GULIETTO CHIESA
La Stampa

Dietro il ricatto energetico nei confronti dell’Europa forse il progetto di unire la Russia con la Bielorussia e una resa dei conti con il suo capo, Lukashenko

E se l’«uno-due», gas e petrolio, tra Mosca e Minsk significasse l’inizio di un’offensiva politica di Putin per liquidare Lukashenko? Se non avesse niente a che fare con il ricatto energetico verso l’Europa e fosse invece una resa dei conti interna all’antica Urss? Ma diversa da quella che un anno fa fece scontrare Mosca e Kiev. Perché mentre Kiev è in rotta di fuga dall’orbita russa, Minsk non è mai stata più abbarbicata alla sua fratellanza con i russi. Un’ipotesi per spiegare la crisi. Solo per i dollari? Molto improbabile. L’avrebbe gestita Gazprom senza scomodare la politica. Invece è intervenuto Vladimir in persona. Significa che c’è molto arrosto dietro il fumo. Putin ha in mente da tempo l’unione (o una stretta federazione) tra Russia e Bielorussia. Sarebbe un segnale forte per tutto l’ex impero, una buona parte del quale non attende altro, adesso che la Russia non è più in braghe di tela e anzi sta ridiventando un protagonista mondiale. Ma sarebbe anche un fortissimo segnale verso l’Europa e la Nato, che - ciascuna per conto proprio ma con intenti convergenti - hanno spinto in questi anni i loro appetiti fin dentro il cortile di casa della Russia. Un perentorio «non tirate troppo la corda perché reagiremo».

Vladimir diventerebbe presidente di un nuovo Stato

E potrebbe essere un ottimo escamotage per Putin in persona. Perché potrebbe diventare presidente di un nuovo Stato e non avrebbe bisogno di cambiare la Costituzione russa per restare al potere (cosa che lo esporrebbe a nuove accuse di neo-zarismo). Basterebbe scriverne una nuova per un nuovo Stato che non c’è ancora, ma che avrebbe molti aspetti di un vecchio Stato che non c’è più. Per interpretare quello che succede sarà utile partire dal dato certo che Putin vuole restare, e resterà, in posizione di comando nel 2008, al termine del suo secondo (e teoricamente ultimo) mandato presidenziale russo. Un problema è Lukashenko, amico di Putin come il fuoco dell’acqua. Vecchia ruggine che deriva dal fatto che Putin fu delfino di Eltsin, distruttore della Russia, mentre Lukashenko fu l’unico deputato del Soviet Supremo a votare contro la dissoluzione dell’Urss in quel lontano dicembre 1991. Un altro problema è che la Russia è capitalista - a suo modo, parecchio criminale, ma pur sempre capitalista - mentre la Bielorussia è socialista. Senza partito comunista, ma con tutte le strutture del socialismo reale ancora perfettamente oliate e funzionanti, sicurezza sociale inclusa che, a quanto pare, piace sempre alla gente che ha un reddito fisso e non ha la villa alle Bahamas come gli oligarchi russi.

Petrolio e gas fanno crescere la tigre bielorussa

Fare una federazione in queste condizioni è praticamente impossibile. In più, certo Putin è popolare in Russia. Ma Lukashenko lo è in Bielorussia. Il suo socialismo reale funziona, anzi fa miracoli, grazie al prezzo bassissimo di petrolio e gas che la Russia gli ha riservato in questi anni. Un regalo di miliardi di dollari, erogato in vista di un nuovo abbraccio dopo il disastro della separazione. Ma con quel regalo la Bielorussia ha continuato a crescere ai ritmi delle tigri asiatiche. Come funzionerà senza le sovvenzioni energetiche del Grande Fratello? Come farà Lukashenko a restare popolare con una bolletta del gas raddoppiata? Senza Lukashenko, Putin potrebbe avere due presidenti delle repubbliche ridivenute «sorelle» molto amici (suoi). Perché non provarci? Infine: chi protesterebbe in Occidente se Putin desse una mano a liquidare colui che viene sistematicamente bollato come l’«ultimo dittatore» dell'Europa? Nessuno. Il presidente russo, facendo i propri interessi, farebbe perfino la gran figura di democratizzatore della Bielorussia. Ecco una vera «mossa del cavallo» degna di un grande giocatore di scacchi.

Giulietto Chiesa
Fonte: www.lastampa.it
 

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