Le conseguenze di un Euro troppo forte
Le conseguenze di un Euro troppo forte | IntermarketAndMore
Scritto il
11 ottobre 2013 alle 14:30 da
gaolin@finanza
Per mandare in rovina l’economia reale di un paese basta poco. Basta avere una moneta troppo forte. [GUEST POST by Gaolin]
In estrema sintesi il sottotitolo di questo post spiega il processo in corso in Italia, per quanto riguarda l’andamento dell’economia e della nostra finanza.
I nostri governanti sono da tanti anni ormai in attesa di dati o tendenze che facciano intravedere riprese dietro l’angolo, o luci in fondo al tunnel, o la fine della recessione, o che, similmente alla nave CONCORDIA, in qualche modo, magari per grazia ricevuta, la NAVE ITALIA riprenda il normale assetto di navigazione.
Attese purtroppo vane. Ogni giorno, da ogni comparto dell’economia reale, arrivano segnali che, più che preoccupanti, è meglio definire terrificanti.
Mi riferisco:
* Alla ormai interminabile sequela di
aziende artigiane, di piccole, medie e grandi industrie,
costrette a chiudere per l’impossibilità di resistere alla concorrenza internazionale, gravate come sono da imposte, balzelli, normative e in generale da un costo del lavoro e del sistema paese Italia che rende impossibile per molte di queste resistere.
*
All’esodo verso paesi più attraenti delle
aziende italiane migliori o di quelle che, ormai alla disperazione, ancora possono affrontare i costi e i rischi di una delocalizzazione produttiva in uno dei tanti paesi esteri che offrono prospettive decisamente molto ma molto più attraenti della nostra Italia.
* Alle
multinazionali che chiudono gli stabilimenti in Italia e se ne vanno altrove.
* Alle
difficoltà del sistema turistico italiano che, pur operando in un paese invidiabile, per la quantità e qualità dei suoi siti paesaggistici e storici, per la sua way of life, per la sua cultura gastronomica, ha sempre più difficoltà a intercettare i flussi turistici per un semplice motivo: la qualità dei servizi, rapportati al prezzo richiesto, sono diventati scadenti, rispetto a quelli di altri paesi concorrenti.
* Allo sconfortante
incremento della disoccupazione per effetto dei licenziamenti dovuti alla chiusura di imprese, per lo più appartenenti all’economia reale.
* Alla più che drammatica
caduta degli investimenti in Italia in ogni comparto: amministrazione pubblica, industria, commercio, agricoltura, turismo. Gli investimenti sono il vero segnale che misura la fiducia nel futuro degli operatori economici e sono l’indispensabile premessa per lo sviluppo di un paese.
* A
stalle che chiudono in ogni dove perché la gestione delle stesse è sempre più al di sotto dei limiti dell’economicità.
* Ai
raccolti dei campi che sempre più spesso non vale la pena nemmeno di effettuare, dopo averci lavorato tutto l’anno perché antieconomico, a causa dei prezzi internazionali di vendita, o perché proprio non ci sono acquirenti.
* Al fenomeno sempre più esteso dei
terreni incolti perché le aziende agricole chiudono per mancanza di successione ereditaria o semplicemente perché il coltivatore, ormai senza più neppure la speranza, lascia tutto per andare a fare qualcos’altro, preferibilmente all’estero.
* Alla
drammatica situazione del comparto edilizio e settori collegati.
* Al
calo generalizzato dei consumi che riduce i ricavi degli operatori del commercio e quindi gli utili, fino a costringerli alla chiusura della propria attività.
* Alla
ancor più drammatica situazione della salute di molte banche italiane, ormai schiacciate nelle loro operatività dall’andamento delle sofferenze, dovute al disastro economico in corso che, per molte di esse, è già arrivato a una situazione da porle in stato di default tecnico.
Emigranti di altri tempi…
Dulcis in fundo il saldo delle partite correnti del nostro paese.
Sono andato a guardare
il sito della CIA americana che,
a questo indirizzo, riporta la tabella del saldo delle partite correnti dell’anno 2012 di tutti gli stati del nostro globo.
Ebbene, nonostante la situazione per l’Italia sia un po’ migliorata, se così si può dire, questa è ancora molto critica. Infatti per effetto della drastica riduzione dell’import, dovuto al notevole calo dei consumi, passato dai 556 Miliardi del 2011 ai 453 di USD del 2012 (-19% circa), il deficit delle partite correnti
si è ridotto solamente da 70 a 30 miliardi di USD a causa del fatto che anche l’export ha avuto un bel tracollo, nonostante tutti raccontino che l’export italiano per fortuna tiene, perché passato da 523 milioni a 479 di USD (-8% circa).

Mi fermo qua. Penso che ogni lettore sia a conoscenza di tante altre situazioni da aggiungere alla lista e non vale la pena di continuare citando casi di singole aziende o gruppi industriali, prossimi al collasso per varie ragioni ma tutte, in buona sostanza, legate al fatto di essere allocate in questo nostro disgraziato paese.
Comunque, a fronte di tutto ciò l
’ISTAT, dell’ex ministro Giovannini, tempo aveva rilevato che c’era stato, negli ultimi mesi decorsi,
un incremento della fiducia dei consumatori e delle aziende. Sentimento riscontrato attraverso indagini
che sarebbe il caso di informarsi meglio su come vengono condotte e su come costoro taroccano poi i dati per arrivare a conclusioni tanto in contrasto con la realtà, riscontrabile da qualunque frequentatore di bar o osteria d’Italia o per esperienza diretta.
Ma tant’è.
Coloro che sono al potere le tentano tutte, da sempre, per dissimulare le verità non piacevoli e soprattutto per cercare in ogni modo di convincersi che la causa o la responsabilità delle situazioni che non vanno è sempre degli altri.
Non ce n’è uno che abbia il coraggio di ammettere le proprie responsabilità nei disastri che ha contribuito a provocare. Anzi si arriva al punto che più grandi sono stati questi disastri e più costoro sono convinti che in fondo questi sono dovuti al fatto che non si è andati o non si vuole andare fino in fondo nei percorsi che costoro avevano delineato. Questi sciagurati poi, siccome fanno parte del sistema di gestione del potere, ovvero della casta che ci governa, si nominano vicendevolmente nelle alte cariche dello stato in modo da ben continuare a perpetuare i disastri in corso.
Ma veniamo al titolo del post per tentare di argomentarlo.
In tutto il mondo, i governi dei paesi si preoccupano molto della salute della propria economia e molti di questi sono
particolarmente attenti alla propria competitività che è, o dovrebbe essere, in continua mutazione per i meccanismi stessi del mercato che, se è veramente libero, tende automaticamente ad autoregolarsi.
Una nazione che ha un sistema economico industriale troppo competitivo avrà una bilancia commerciale squilibrata, con elevati avanzi, per cui la propria moneta sarà in continua tensione, nel senso che tenderebbe a rivalutarsi rispetto alle altre, per ridurre l’eccessiva competitività della sua economia.
Paesi come la
Cina, governati da personalità che hanno ben capito come funziona l’economia globalizzata, hanno fatto del mantenimento della propria ipercompetitività, attraverso la
gestione forzata del cambio, altrimenti detto dumping valutario, l’arma per assicurare al proprio paese uno sviluppo dell’economia a dei ritmi mai prima sperimentati nella storia.
La Cina però
non è sola in questa corsa forsennata. Tutti i paesi asiatici stanno diventando ricchi uno dopo l’altro. Recentemente persino la Malesia, Thailandia, Indonesia e Vietnam sono su questa via. Lo fanno applicando un modello economico basato sul NAZIONALISMO e DIRIGISMO che fondamentalmente consiste in un’attenta gestione della propria parità monetaria , a protezionismi veri e propri e a incentivi all’export. In aggiunta poche tasse e poco welfare.
Certamente in questi paesi si conta ancora molto sulla laboriosità e sui sacrifici della mano d’opera che lavora nelle fabbriche e che, in cambio di tanto lavoro, poco ancora ha ottenuto per sé, anche se molto di più di quanto aveva in precedenza.
In occidente tutti fanno finta di non vedere o non capiscono proprio questo fenomeno che, il più delle volte viene liquidato con “là, la manodopera costa poco”.
E’ incredibile che a nessuno venga in mente di capire come fanno. Nessuno che si azzarda a dire :
“ma se tutti questi cinesi, coreani, taiwanesi, malesi, vanno così bene, perchè non li imitiamo? Perchè non vediamo che sistema usano? Perché non cerchiamo almeno di difenderci?”.
Niente da fare. Tutti a parlare di regole, di liberalizzazioni, di spread, di tassi tenuti bassi, limiti al debito pubblico, riforme strutturali, di ulteriori e necessarie leggi che regolamentano questo e quello, beghe politiche di basso profilo, ecc…. Nessuno che comprenda che più che il salario nominale espresso in USD conta il potere di acquisto nel paese dove si lavora e si vive. Nessuno che abbia chiaro che ad esempio in Cina con equivalenti 300EUR si vive come in Italia con 4-5 volte tanto.
Ma cos’è la competitività?
La competitività viene definita come la capacità di un’impresa manifatturiera, di un’azienda appartenente a uno dei tanti comparti economici, di un ente pubblico o di un’entità territoriale, quale può essere una regione o uno stato, di fornire beni o servizi attraenti quanto a qualità e prezzo. Il soggetto competitivo è quello in grado di rimanere sul mercato
profittevolmente operando in un regime di libera concorrenza.
Il termine competitività è diventato anche in Italia un termine abbastanza citato nei dibattiti televisivi e nei mass media ma la stragrande parte di coloro che ne parlano o scrivono, compresi gli economisti, hanno poco chiaro come effettivamente la competitività agisce sull’economia reale, in particolare sull’andamento economico delle imprese manifatturiere soggette alla concorrenza globalizzata. La gran parte di costoro mai ha dovuto passare notti insonni perché si è trovata impotente ad affrontare il problema della non competitività della propria impresa, dovuta al contesto in cui opera e/o a fattori esterni che non può controllare.
In particolare nessuna impresa manifatturiera è in grado singolarmente di controllare le variazioni del tasso di cambio della moneta con cui esprime i propri costi aziendali , in raffronto alle altre divise. Le parità monetarie fra le valute è il principale e fondamentale fattore che determina la competitività o meno delle aziende che operano nel mercato globalizzato.
Un’azienda che produce beni con tecnologie e sistemi produttivi più o meno avanzati può perdere soldi se opera in un paese che ha una valuta forte, oppure guadagnare molto se fa le stesse cose e nello stesso modo ma in un paese dove viene, in qualche modo, mantenuta debole la valuta.
Cosa significa avere una valuta debole?
Semplicemente che tutto ciò che si acquista e che si produce in un paese, quanto a beni e servizi, rispetto alla valuta di riferimento (i.e.il USD) costa poco, o meglio meno, di quelli analoghi dei paesi a valuta forte.
In fondo, quello di avere
una moneta debole per sviluppare la propria economia è un segreto di pulcinella. Più la valuta viene mantenuta debole più il paese ha possibilità di svilupparsi velocemente. I paesi asiatici, a partire dal Giappone mezzo secolo fa, imitati poi da Taiwan, Korea, Cina, ecc. hanno fatto di questa politica la chiave del loro successo economico, che ha portato, come già detto, benessere e ricchezza diffusa dove prima c’era tanta ma tanta miseria.
Cosa significa invece avere una valuta forte?
E’ veramente strano constatare come invece non ci sia molta voglia di rendersi conto che, se vale quanto sopra, vale anche il viceversa, purtroppo. Ovvero che
se un paese ha una valuta forte in breve deve cominciare a fare i conti con la deindustrializzazione, con il declino della propria economia reale, declino che sarà tanto più veloce quanto più forte sarà mantenuta tale la propria valuta.
Fior fiore di economisti, che però devono aver fatto poca pratica sul campo, per anni hanno ripetuto e ripetono tuttora gli stessi discorsi . La valuta forte spinge le aziende a modernizzarsi, a essere più competitive innovando, investendo, facendo ricerca, migliorando la qualità. Certo, tutto ciò è anche vero ma se la propria valuta è troppo forte ciò non basta più. Anzi, se ci si ostina a prendere per buone solo queste teorie, un paese finisce per trovarsi con il proprio sistema produttivo smantellato senza aver capito neppure il perché.
E’ proprio quanto sta accadendo nel nostro disgraziato paese. Da oltre 5 anni ormai è in corso un processo di deindustrializzazione, che ormai è già arrivato a uno stadio più che allarmante e che diventerà irreversibile se si andrà avanti così per ancora 2-3 anni. Il principale motivo è che il valore della valuta che l’Italia ha in tasca non è corrispondente al suo livello di competitività.
Come avviene nel concreto la deindustrializzazione?
Concentrando per il momento l’attenzione sul settore del manifatturiero industriale, non è certo un fenomeno repentino. Inizialmente quasi non ci si accorge. In un paese che comincia ad avere una
valuta troppo forte il processo parte con gradualità.
Per il fatto che i prodotti fabbricati in altri paesi costano molto meno, le prime ad avere difficoltà sono le aziende già deboli di per sé, ovvero quelle che per varie ragioni hanno già problemi a sopravvivere con la concorrenza interna e che vengono quindi subito spiazzate. Questi problemi poi si estendono a quelle che producono manufatti ad alto contenuto di manodopera, poi a quelle che, anche se molto automatizzate, fabbricano prodotti diciamo semplici, ovvero con cicli di produzione con poche fasi di lavorazione.
In seguito i problemi cominciano ad investire anche le aziende che sono all’avanguardia quanto a
tecnologie produttive, a complessità dei manufatti prodotti per un motivo molto semplice: Gli stessi manufatti possono essere prodotti altrove a costi più bassi. Basta che il paese abbia una moneta con un tasso di cambio favorevole.
Se questo tasso di cambio è molto favorevole l’impresa che produce in un paese low-cost ha un vantaggio formidabile: E’ in grado di praticare, pur guadagnando molto, prezzi di vendita sul mercato globalizzato spesso di molto inferiori ai costi di quella allocata nei paesi a valuta forte, la quale altro non può che soccombere.
I grandi clienti, ad esempio le multinazionali della distribuzione, spingono continuamente i loro buyer a ricercare aziende disposte a investire nei paesi così detti low-cost. Queste, allettate dalla possibilità di aumentare le proprie quote di mercato e i propri utili, o semplicemente per sopravvivere, si sobbarcano l’onere e il rischio procedendo a delocalizzazioni produttive parziali o totali.
Le prime aziende che iniziano questo percorso sono quelle che hanno
i vantaggi maggiori, in termini di veloci ritorni degli investimenti e di elevati utili di gestione. Con il procedere del tempo però inizia la concorrenza anche nei paesi low cost. Gli utili delle aziende delocalizzate si riducono. Anzi spesso accade che la concorrenza locale, nata grazie al fatto che in breve tempo il
know-how viene acquisito da imprenditori del posto che fanno nascere nuove imprese, addirittura mette fuori mercato le aziende straniere che in quel paese hanno de localizzato. Infatti dopo un certo tempo, a seconda della tipologia di beni fabbricati, nelle aziende locali parte l’innovazione, intesa come sviluppo di nuove tecnologie di produzione, di nuovi prodotti.
NOKIA è un caso esemplare. Fra non molto i produttori cinesi schiacceranno nel settore della telefonia mobile tutti gli altri.
Insomma, se anche la competitività complessiva del paese che subisce la delocalizzazione non si adegua in qualche modo, il fenomeno della deindustrializzazione diventa sempre più impetuoso, con conseguente sempre maggiore disoccupazione proprio nel settore che crea la ricchezza di base, cioè il piatto da cui tutti alla fine attingono, in modo più o meno equo.
Insomma la ricchezza vera di una nazione viene creata dai comparti che producono qualcosa, bene materiale o immateriale che sia. Questi comparti sono
l’industria, l’agricoltura e il turismo. Se i governanti non si rendono conto che, per il progresso e/o benessere del paese, bisogna tutelarli ad ogni costo, anche a costo di fare qualche dispetto alla finanza,
si va verso il declino economico in un crescendo esponenziale fino al tracollo finale.
Su questa strada l’Italia è già ben indirizzata e a nulla potranno valere le balle che ci raccontano sulle riprese dietro l’angolo, rinviate di semestre o trimestre a quello successivo e sistematicamente smentite dai dati veri che purtroppo, anche se sommessamente, in qualche modo tocca riferire.
Che fare?
Le chiacchiere che imperversano in Italia in merito ai provvedimenti che si vorrebbe prendere per rimediare alla situazione di non competitività del paese sono ridicoli.
Non si tratta di recuperare un gap di competitività di qualche punto percentuale rispetto ai nostri competitor dell’economia globalizzata ma ben di più e velocemente di
almeno il 25-30% Ciò affinché l’economia reale nel nostro paese possa ripartire veramente.
Un risultato del genere è ormai ottenibile in Italia solo con una svalutazione dell’EURO sul USD di pari valore e purchè anche gli altri paesi non svalutino. Siccome pare che ciò non possa accadere, per l’Italia ci sono 2 scenari o destini. L’uscita dall’Euro con una nuova valuta, svalutata del 35-40% almeno, o La Greek Way che altro non
sarebbe che un’agonia interminabile, in attesa comunque del default.
Temo che quello più probabile sarà il secondo il quale, nel medio lungo termine, sarà molto peggiore del primo.
Il disastro dell’Unione monetaria è sostanzialmente una “
crisi di bilancia dei pagamenti“, causata dal disallineamento sempre maggiore della competitività dei vari paesi aderenti.
“La creazione di questa moneta comune ha eliminato la modifica del tasso di cambio come meccanismo di aggiustamento”. Quanto sta accadendo al sistema manifatturiero italiano, alla nostra agricoltura e alla nostra economia in generale è figlia di una drammatica perdita di competitività, ormai irrimediabile senza ingentissime risorse da destinare all’economia reale.
Queste risorse purtroppo non ci sono e quindi “si salvi chi può”.
Gaolin