Nel silenzio dei media l’ungheria emette moneta senza debito

tontolina

Forumer storico
non so perchè il Thread sull'Ungeria è nella sezione politica

http://www.investireoggi.it/forum/ungheria-una-classe-politica-che-ama-il-suo-popolo-vt57287-2.html

L’UNGHERIA EMETTE MONETA SENZA DEBITO di Ronald L. Ray – Traduzione a cura di N. Forcheri
L’Ungheria si libera dei vincoli dei banchieri
• Dopo che è stato ordinato all’FMI di abbandonare il paese, la nazione adesso stampa moneta senza debito. L’Ungheria sta facendo la storia.
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Mai più dagli anni ’30 con il caso della Germania un paese europeo aveva osato sfuggire alle grinfie dei cartelli bancari internazionali controllati dai Rothschilds. Questa è una notizia stupenda che dovrebbe incoraggiare i patrioti nazionalisti del mondo intero ad intensificare la lotta per la libertà dalla dittatura finanziaria.
Già nel 2011 il primo ministro ungherese, Viktor Orbán promise di ristabilire la giustizia sui predecessori socialisti che avevano venduto il popolo della nazione alla schiavità di un debito infinito con i vincoli del FMI (IMF) e lo stato terrorista d’Israele. Queste amministrazioni precedenti erano infiltrate da israeliani nelle alte cariche, in mezzo al furore delle masse che alla fine, in reazione, hanno votato il partito Fidesz di Orban.
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Secondo una relazione sui siti germanofoni del “National Journal”, Orbán si è accinto a scalzare gli usurai dal trono. Il popolare e nazionalista primo ministro ha detto all’FMI che l’Ungheria non vuole né richiede “assistenza” ulteriore dal delegato della Federal Reserve di proprietà dei Rothschild. Gli ungheresi non saranno più costretti a pagare esosi interessi a banche centrali private e irresponsabili.
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Anzi, il governo ungherese ha assunto la sovranità sulla sua moneta e adesso emana moneta senza debito e tanta quanto ne ha bisogno.

I risultati sono stati nientemeno che eccezionali.

L’economia nazionale, che vacillava per via di un pesante debito, ha ricuperato rapidamente e con strumenti inediti dalla Germania nazionalsocialista.
Il ministro per l’Economia ungherese ha annunciato che grazie a “una politica di bilancio disciplinato” ha ripagato il 12 agosto 2013 il saldo dei 2,2 bilioni di debito all’FMI, prima della scadenza ufficiale del marzo 2014. Orbàn ha dichiarato: “L’Ungheria gode della fiducia degli investitori” che non vuol dire né l’FMI né la Fed o altri tentacoli dell’impero finanziario dei Rothschild. Piuttosto si riferiva agli investitori che producono in Ungheria per gli ungheresi, creando crescita economica vera, e non già la “crescita di carta” dei pirati plutocratici, bensì quel tipo di produzione che assume realmente le persone e ne migliora la vita.
Con l’Ungheria libera dalla gabbia della servitù agli schiavisti del debito non c’è da meravigliarsi che il presidente della banca centrale ungherese gestita dal governo per il bene pubblico e non per l’arricchimento privato abbia chiesto all’FMI di chiudere i battenti da uno dei paesi più antichi d’Europa. Inoltre, il procuratore generale, ripetendo le gesta dell’Islanda, ha accusato i tre precedenti primi ministri del debito criminale in cui hanno precipitato la nazione.
L’unico passo che rimane da fare per distruggere completamente il potere dei bancksters in Ungheria, è di attuare un sistema di baratto per lo scambio con l’estero come esisteva in Germania con i nazional socialisti e come esiste oggi in Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, i cosiddetti BRICS, una coalizione economica internazionale.
E se gli USA seguissero la guida dell’Ungheria, gli americani potrebbero liberarsi dalla tirannia degli usurai e sperare in un ritorno a una pacifica prosperità.
Ronald L. Ray, autore freelance che risiede nel libero stato del Kansas, discendente di vari patriotti della Guerra americana di indipendenza.
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fonte:
http://www.frontediliberazionedaibanchieri.it/m/article-119925299.html
 
adesso quello dei carri armati (suvvia ce la fate a capire) potrebbe proporre di mandarne un po questa volta partendo dall'Europa

carri armati di colore blu come i puffi :D
 
Direi nulla di eccezionale, l'Ungheria ha rimborsato il proprio debito con l'FMI in anticipo (quindi è positivo per l'UE che ha un paese in meno da aiutare e per l'FMI che ha indietro i suoi soldi). Per il resto l'Ungheria non avendo mai avuto l'euro come moneta, ma il fiorino Ungherese, è in grado di emettere moneta (nulla di nuovo quindi ;)). Per concludere, guardando la situazione degli USA che sono costantemente a rischio default, direi che il semplice emettere moneta (ricordo che gli USA stampano 85 mld di dollari al mese) e avere quindi una banca centrale che garantisca il debito, senza una politica di risanamento di bilancio, può portare comunque al fallimento :lol:. Un saluto :D
 
Direi nulla di eccezionale, l'Ungheria ha rimborsato il proprio debito con l'FMI in anticipo (quindi è positivo per l'UE che ha un paese in meno da aiutare e per l'FMI che ha indietro i suoi soldi). Per il resto l'Ungheria non avendo mai avuto l'euro come moneta, ma il fiorino Ungherese, è in grado di emettere moneta (nulla di nuovo quindi ;)). Per concludere, guardando la situazione degli USA che sono costantemente a rischio default, direi che il semplice emettere moneta (ricordo che gli USA stampano 85 mld di dollari al mese) e avere quindi una banca centrale che garantisca il debito, senza una politica di risanamento di bilancio, può portare comunque al fallimento :lol:. Un saluto :D
Noi invece abbiamo il Fiscal Compacr ILLEGALE

hanno fatto della Costituzione CARTA STRACCIA ed è per questo che vogliono modificarla perchè si sono accorti che la svendita della sovranità italiana è Illegale


http://www.investireoggi.it/forum/3656140-post153.html
 
L’ex commissario UE Bolkestein: “L’euro ha fallito. I Paesi del Nord battano moneta complementare”.


In una lettera a De Volkskrant, l’ex Commissario olandese dell’Unione Europea, Frits Bolkestein, ha dichiarato in modo perentorio che:

l’unione monetaria ha fallito“. Per questo motivo, secondo Bolkestein, i paesi della zona euro che hanno ancora conservato la tripla A sul mercato dei debiti sovrani dovrebbero introdurre una moneta propria parallela all’euro.
L’ unione monetaria avrebbe dovuto promuovere l’amicizia tra i popoli. Invece, la cancelliera Merkel s’e’ comportata come Hitler coi paesi in deficit. Olanda sta nuotando in una trappola e non trova la via del ritorno

FRANCIA E GERMANIA: DIVERGENZE INSANABILI
Unione europea e monetaria (UEM) è stata creato per l’intercessione di Germania e Francia. Ma questi due paesi hanno cercato obiettivi che entrambi non hanno colto, scrive Frits Bolkestein .
Il Cancelliere Helmut Kohl voleva un’unione politica europea ed era disposto a rinunciare al Marco; alla fine l’Unione Politica non e’ stata creata e non verra’. L’obiettivo francese era – e rimarrà sempre – l’influenza politica sulla Banca centrale europea. Questo era inaccettabile per la Germania e l’Olanda. Entrambi i protagonisti non hanno ottenuto cio’ che cercavano.
Francia e Germania hanno opinioni diverse su cio’ che l’Unione monetaria dovrebbero essere.
I francesi vogliono che le importanti decisioni economiche vengano fatte con interventismo centrale e con la conseguenza pratica che vi siano politiche redistributive.
La Germania – sostenuta da Paesi Bassi – crede che le decisioni economiche fondamentali si trovano nel trattato stesso: una BCE indipendente con la priorità della stabilità dei prezzi, bilanci in pareggio e no bail -out, punizioni per i paesi in deficit.

In breve : il Nord Europa vuole solidità, l’Europa mediterranea vuole solidarietà, cioè il denaro.​
IL DIFETTO DI NASCITA DELL’UNIONE EUROPEA
Così l’ unione monetaria soffre del difetto di nascita che l’euro e’ la medesima valuta per due gruppi di paesi con differenti culture economiche. Il dibattito finale sulla UEM in Parlamento ha avuto luogo il 15 aprile 1998. Venne posto il problema del Debito enorme dell’Italia. Io ero contro l’adesione di Italia. Tra l’altro tale adesione ha avuto l’effetto disastroso di portare alla successiva adesione della Grecia.
Ho deciso il mio contributo a quel dibattito, sottolineando i rischi dell’Unione Monetaria: in Primo luogo abbiamo iniziato con un grande gruppo eterogeneo di paesi, in secondo luogo, sarebbe stato difficile mantenere il patto di stabilità, in terzo luogo, avevo paura che l’unione monetaria avrebbe comportato trasferimenti di reddito all’interno dell’Unione. Questo è esattamente quello che è successo. Il governo olandese, al pari degli altri si schierarono per l’Unione Monetaria in modo frivolo e superficiale. Il Senato ha approvato il trattato di Maastricht.
PATTO DI STABILITA’: UNA “PROMESSA” DISTRUTTA PROPRIO DA FRANCIA E GERMANIA
Il Patto di stabilità si basava su una Promessa, una dichiarazione solenne da parte degli Stati contraenti da rispettare rigorosamente. Contro i criteri di tale patto, tuttavia, la Francia e la Germania hanno deciso nel 2003 di non farlo.
Ora, se una dichiarazione solenne dopo pochi anni finisce nella spazzatura, conseguentemente, successivamente l’accordo europeo ha perso qualsiasi affidamento. Ciò è particolarmente vero per il Patto di stabilità, che a tutti gli effetti era stato violato. La promessa e’ divenuta inutile.
Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, ha tracciato un percorso per una federazione fiscale all’interno della zona euro all’inizio di dicembre 2012. Questo percorso si compone di tre fasi:
Unione Bancaria,
contratti fiscali
e quindi una vera unione fiscale con le proprie tasse
.
La domanda da porsi e’ quale possa esse il controllo democratico nelle riforme in materia di governance economica in Europa per combattere la crisi economica?​
DEBITI: L’IPOTESI DEGLI EUROBOND
Preoccupante e’ l’ipotesi elaborata dal Consiglio Europeo sulle Politiche di Bilancio. I bilanci degli Stati membri dovrebbero essere determinati dalla Commissione Europea, e quindi anche le politiche, gli orientamenti, le priorita’ di bilancio. Il Consiglio di Stato ha affermato che la possibilità di modifica o di rigetto di tali politiche per gli Stati membri sara’ decisamente limitata.
Alla fine del processo si arriverebbe all’ unione fiscale europea, con le proprie tasse, e con gli Eurobond. Tutti i membri della unione monetaria vedrebbero finire i loro debiti in un “grumo” e quella montagna di debito sara’ finanziata attraverso un interesse europeo. L’Olanda pagherebbe più interessi sul proprio debito pubblico di oggi, mentre quei paesi in deficit non hanno alcun incentivo a ristrutturare. Fortunatamente, i governi olandese e tedesco hanno chiaramente respinto questo sfortunato piano.​
L’UNIONE EUROPEA IN TRANSIZIONE PERMANENTE
L’ unione monetaria ha fallito. L’ euro è stato un sonnifero per i paesi in deficit , che hanno coltivato sogni di un dolce far niente invece di preoccuparsi per la propria competitività. Il risultato è un’unione in cui e’ permanente la transizione.​
LA CANCELLIERA MERKEL COME HITLER
L’ unione monetaria avrebbe dovuto promuovere l’amicizia tra i popoli. Invece , la cancelliera Merkel s’e’ comportata come Hitler coi paesi in deficit. Olanda sta nuotando in una trappola e non trova la via del ritorno .​
LA SOLUZIONE: FAR USCIRE E POI RIENTRARE NELL’EURO I PAESI POCO COMPETITIVI DOPO UNA SVALUTAZIONE oppure INTRODURRE MONETE PARALLELE COMPLEMENTARI NEI PAESI FORTI
Cosa fare? L’economista tedesco Hans-Werner Sinn ha proposto che i paesi con insufficiente competitività escano e poi rientrino nell’Euro dopo una svalutazione e riforme strutturali (Financial Times, 23 luglio, 2013). Certo sarebbe meraviglioso, ma complesso.
Io stesso ho proposto di preservare l’euro, ma anche per introdurre nei paesi a tripla A. Monete Complementari. Certo sarà difficile, ma continuare sulla strada attuale non porta ad una soluzione sostenibile.
 
Il grande crash finanziario si sta avvicinando - Yahoo Finanza Italia

La BRI, tramite un Report, la settimana scorsa ha lanciato un agghiacciante allarme (e se lo dice lei probabilmente qualcosa di vero… c’è) ovvero sta per abbattersi a livello mondiale, sulla finanza in primis e poi sull’economia e quindi sulla vita quotidiana di ognuno di noi un crash dalle proporzioni inimmaginabili.

chiudono il carry trade sul dollaro:
- default tecnico degli usa
- dollaro forte
- euro debole
...
 
Le conseguenze di un Euro troppo forte




Le conseguenze di un Euro troppo forte | IntermarketAndMore

Scritto il 11 ottobre 2013 alle 14:30 da gaolin@finanza
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Per mandare in rovina l’economia reale di un paese basta poco. Basta avere una moneta troppo forte. [GUEST POST by Gaolin]

In estrema sintesi il sottotitolo di questo post spiega il processo in corso in Italia, per quanto riguarda l’andamento dell’economia e della nostra finanza.
I nostri governanti sono da tanti anni ormai in attesa di dati o tendenze che facciano intravedere riprese dietro l’angolo, o luci in fondo al tunnel, o la fine della recessione, o che, similmente alla nave CONCORDIA, in qualche modo, magari per grazia ricevuta, la NAVE ITALIA riprenda il normale assetto di navigazione.
Attese purtroppo vane. Ogni giorno, da ogni comparto dell’economia reale, arrivano segnali che, più che preoccupanti, è meglio definire terrificanti.
Mi riferisco:
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* Alla ormai interminabile sequela di aziende artigiane, di piccole, medie e grandi industrie, costrette a chiudere per l’impossibilità di resistere alla concorrenza internazionale, gravate come sono da imposte, balzelli, normative e in generale da un costo del lavoro e del sistema paese Italia che rende impossibile per molte di queste resistere.
* All’esodo verso paesi più attraenti delle aziende italiane migliori o di quelle che, ormai alla disperazione, ancora possono affrontare i costi e i rischi di una delocalizzazione produttiva in uno dei tanti paesi esteri che offrono prospettive decisamente molto ma molto più attraenti della nostra Italia.
* Alle multinazionali che chiudono gli stabilimenti in Italia e se ne vanno altrove.
* Alle difficoltà del sistema turistico italiano che, pur operando in un paese invidiabile, per la quantità e qualità dei suoi siti paesaggistici e storici, per la sua way of life, per la sua cultura gastronomica, ha sempre più difficoltà a intercettare i flussi turistici per un semplice motivo: la qualità dei servizi, rapportati al prezzo richiesto, sono diventati scadenti, rispetto a quelli di altri paesi concorrenti.
* Allo sconfortante incremento della disoccupazione per effetto dei licenziamenti dovuti alla chiusura di imprese, per lo più appartenenti all’economia reale.
* Alla più che drammatica caduta degli investimenti in Italia in ogni comparto: amministrazione pubblica, industria, commercio, agricoltura, turismo. Gli investimenti sono il vero segnale che misura la fiducia nel futuro degli operatori economici e sono l’indispensabile premessa per lo sviluppo di un paese.
* A stalle che chiudono in ogni dove perché la gestione delle stesse è sempre più al di sotto dei limiti dell’economicità.
* Ai raccolti dei campi che sempre più spesso non vale la pena nemmeno di effettuare, dopo averci lavorato tutto l’anno perché antieconomico, a causa dei prezzi internazionali di vendita, o perché proprio non ci sono acquirenti.
* Al fenomeno sempre più esteso dei terreni incolti perché le aziende agricole chiudono per mancanza di successione ereditaria o semplicemente perché il coltivatore, ormai senza più neppure la speranza, lascia tutto per andare a fare qualcos’altro, preferibilmente all’estero.
* Alla drammatica situazione del comparto edilizio e settori collegati.
* Al calo generalizzato dei consumi che riduce i ricavi degli operatori del commercio e quindi gli utili, fino a costringerli alla chiusura della propria attività.
* Alla ancor più drammatica situazione della salute di molte banche italiane, ormai schiacciate nelle loro operatività dall’andamento delle sofferenze, dovute al disastro economico in corso che, per molte di esse, è già arrivato a una situazione da porle in stato di default tecnico.
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Emigranti di altri tempi…

Dulcis in fundo il saldo delle partite correnti del nostro paese.
Sono andato a guardare il sito della CIA americana che, a questo indirizzo, riporta la tabella del saldo delle partite correnti dell’anno 2012 di tutti gli stati del nostro globo.
Ebbene, nonostante la situazione per l’Italia sia un po’ migliorata, se così si può dire, questa è ancora molto critica. Infatti per effetto della drastica riduzione dell’import, dovuto al notevole calo dei consumi, passato dai 556 Miliardi del 2011 ai 453 di USD del 2012 (-19% circa), il deficit delle partite correnti si è ridotto solamente da 70 a 30 miliardi di USD a causa del fatto che anche l’export ha avuto un bel tracollo, nonostante tutti raccontino che l’export italiano per fortuna tiene, perché passato da 523 milioni a 479 di USD (-8% circa).

Mi fermo qua. Penso che ogni lettore sia a conoscenza di tante altre situazioni da aggiungere alla lista e non vale la pena di continuare citando casi di singole aziende o gruppi industriali, prossimi al collasso per varie ragioni ma tutte, in buona sostanza, legate al fatto di essere allocate in questo nostro disgraziato paese.
Comunque, a fronte di tutto ciò l’ISTAT, dell’ex ministro Giovannini, tempo aveva rilevato che c’era stato, negli ultimi mesi decorsi, un incremento della fiducia dei consumatori e delle aziende. Sentimento riscontrato attraverso indagini che sarebbe il caso di informarsi meglio su come vengono condotte e su come costoro taroccano poi i dati per arrivare a conclusioni tanto in contrasto con la realtà, riscontrabile da qualunque frequentatore di bar o osteria d’Italia o per esperienza diretta.
Ma tant’è. Coloro che sono al potere le tentano tutte, da sempre, per dissimulare le verità non piacevoli e soprattutto per cercare in ogni modo di convincersi che la causa o la responsabilità delle situazioni che non vanno è sempre degli altri.
Non ce n’è uno che abbia il coraggio di ammettere le proprie responsabilità nei disastri che ha contribuito a provocare. Anzi si arriva al punto che più grandi sono stati questi disastri e più costoro sono convinti che in fondo questi sono dovuti al fatto che non si è andati o non si vuole andare fino in fondo nei percorsi che costoro avevano delineato. Questi sciagurati poi, siccome fanno parte del sistema di gestione del potere, ovvero della casta che ci governa, si nominano vicendevolmente nelle alte cariche dello stato in modo da ben continuare a perpetuare i disastri in corso.
Ma veniamo al titolo del post per tentare di argomentarlo.
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In tutto il mondo, i governi dei paesi si preoccupano molto della salute della propria economia e molti di questi sono particolarmente attenti alla propria competitività che è, o dovrebbe essere, in continua mutazione per i meccanismi stessi del mercato che, se è veramente libero, tende automaticamente ad autoregolarsi. Una nazione che ha un sistema economico industriale troppo competitivo avrà una bilancia commerciale squilibrata, con elevati avanzi, per cui la propria moneta sarà in continua tensione, nel senso che tenderebbe a rivalutarsi rispetto alle altre, per ridurre l’eccessiva competitività della sua economia.
Paesi come la Cina, governati da personalità che hanno ben capito come funziona l’economia globalizzata, hanno fatto del mantenimento della propria ipercompetitività, attraverso la gestione forzata del cambio, altrimenti detto dumping valutario, l’arma per assicurare al proprio paese uno sviluppo dell’economia a dei ritmi mai prima sperimentati nella storia.
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La Cina però non è sola in questa corsa forsennata. Tutti i paesi asiatici stanno diventando ricchi uno dopo l’altro. Recentemente persino la Malesia, Thailandia, Indonesia e Vietnam sono su questa via. Lo fanno applicando un modello economico basato sul NAZIONALISMO e DIRIGISMO che fondamentalmente consiste in un’attenta gestione della propria parità monetaria , a protezionismi veri e propri e a incentivi all’export. In aggiunta poche tasse e poco welfare.
Certamente in questi paesi si conta ancora molto sulla laboriosità e sui sacrifici della mano d’opera che lavora nelle fabbriche e che, in cambio di tanto lavoro, poco ancora ha ottenuto per sé, anche se molto di più di quanto aveva in precedenza.
In occidente tutti fanno finta di non vedere o non capiscono proprio questo fenomeno che, il più delle volte viene liquidato con “là, la manodopera costa poco”.
E’ incredibile che a nessuno venga in mente di capire come fanno. Nessuno che si azzarda a dire : “ma se tutti questi cinesi, coreani, taiwanesi, malesi, vanno così bene, perchè non li imitiamo? Perchè non vediamo che sistema usano? Perché non cerchiamo almeno di difenderci?”.
Niente da fare. Tutti a parlare di regole, di liberalizzazioni, di spread, di tassi tenuti bassi, limiti al debito pubblico, riforme strutturali, di ulteriori e necessarie leggi che regolamentano questo e quello, beghe politiche di basso profilo, ecc…. Nessuno che comprenda che più che il salario nominale espresso in USD conta il potere di acquisto nel paese dove si lavora e si vive. Nessuno che abbia chiaro che ad esempio in Cina con equivalenti 300EUR si vive come in Italia con 4-5 volte tanto.
Ma cos’è la competitività?

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La competitività viene definita come la capacità di un’impresa manifatturiera, di un’azienda appartenente a uno dei tanti comparti economici, di un ente pubblico o di un’entità territoriale, quale può essere una regione o uno stato, di fornire beni o servizi attraenti quanto a qualità e prezzo. Il soggetto competitivo è quello in grado di rimanere sul mercato profittevolmente operando in un regime di libera concorrenza.
Il termine competitività è diventato anche in Italia un termine abbastanza citato nei dibattiti televisivi e nei mass media ma la stragrande parte di coloro che ne parlano o scrivono, compresi gli economisti, hanno poco chiaro come effettivamente la competitività agisce sull’economia reale, in particolare sull’andamento economico delle imprese manifatturiere soggette alla concorrenza globalizzata. La gran parte di costoro mai ha dovuto passare notti insonni perché si è trovata impotente ad affrontare il problema della non competitività della propria impresa, dovuta al contesto in cui opera e/o a fattori esterni che non può controllare.
In particolare nessuna impresa manifatturiera è in grado singolarmente di controllare le variazioni del tasso di cambio della moneta con cui esprime i propri costi aziendali , in raffronto alle altre divise. Le parità monetarie fra le valute è il principale e fondamentale fattore che determina la competitività o meno delle aziende che operano nel mercato globalizzato.
Un’azienda che produce beni con tecnologie e sistemi produttivi più o meno avanzati può perdere soldi se opera in un paese che ha una valuta forte, oppure guadagnare molto se fa le stesse cose e nello stesso modo ma in un paese dove viene, in qualche modo, mantenuta debole la valuta.
Cosa significa avere una valuta debole?
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Semplicemente che tutto ciò che si acquista e che si produce in un paese, quanto a beni e servizi, rispetto alla valuta di riferimento (i.e.il USD) costa poco, o meglio meno, di quelli analoghi dei paesi a valuta forte.
In fondo, quello di avere una moneta debole per sviluppare la propria economia è un segreto di pulcinella. Più la valuta viene mantenuta debole più il paese ha possibilità di svilupparsi velocemente. I paesi asiatici, a partire dal Giappone mezzo secolo fa, imitati poi da Taiwan, Korea, Cina, ecc. hanno fatto di questa politica la chiave del loro successo economico, che ha portato, come già detto, benessere e ricchezza diffusa dove prima c’era tanta ma tanta miseria.
Cosa significa invece avere una valuta forte?
E’ veramente strano constatare come invece non ci sia molta voglia di rendersi conto che, se vale quanto sopra, vale anche il viceversa, purtroppo. Ovvero che se un paese ha una valuta forte in breve deve cominciare a fare i conti con la deindustrializzazione, con il declino della propria economia reale, declino che sarà tanto più veloce quanto più forte sarà mantenuta tale la propria valuta.
Fior fiore di economisti, che però devono aver fatto poca pratica sul campo, per anni hanno ripetuto e ripetono tuttora gli stessi discorsi . La valuta forte spinge le aziende a modernizzarsi, a essere più competitive innovando, investendo, facendo ricerca, migliorando la qualità. Certo, tutto ciò è anche vero ma se la propria valuta è troppo forte ciò non basta più. Anzi, se ci si ostina a prendere per buone solo queste teorie, un paese finisce per trovarsi con il proprio sistema produttivo smantellato senza aver capito neppure il perché.
E’ proprio quanto sta accadendo nel nostro disgraziato paese. Da oltre 5 anni ormai è in corso un processo di deindustrializzazione, che ormai è già arrivato a uno stadio più che allarmante e che diventerà irreversibile se si andrà avanti così per ancora 2-3 anni. Il principale motivo è che il valore della valuta che l’Italia ha in tasca non è corrispondente al suo livello di competitività.
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Come avviene nel concreto la deindustrializzazione?
Concentrando per il momento l’attenzione sul settore del manifatturiero industriale, non è certo un fenomeno repentino. Inizialmente quasi non ci si accorge. In un paese che comincia ad avere una valuta troppo forte il processo parte con gradualità.
Per il fatto che i prodotti fabbricati in altri paesi costano molto meno, le prime ad avere difficoltà sono le aziende già deboli di per sé, ovvero quelle che per varie ragioni hanno già problemi a sopravvivere con la concorrenza interna e che vengono quindi subito spiazzate. Questi problemi poi si estendono a quelle che producono manufatti ad alto contenuto di manodopera, poi a quelle che, anche se molto automatizzate, fabbricano prodotti diciamo semplici, ovvero con cicli di produzione con poche fasi di lavorazione.
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In seguito i problemi cominciano ad investire anche le aziende che sono all’avanguardia quanto a tecnologie produttive, a complessità dei manufatti prodotti per un motivo molto semplice: Gli stessi manufatti possono essere prodotti altrove a costi più bassi. Basta che il paese abbia una moneta con un tasso di cambio favorevole.
Se questo tasso di cambio è molto favorevole l’impresa che produce in un paese low-cost ha un vantaggio formidabile: E’ in grado di praticare, pur guadagnando molto, prezzi di vendita sul mercato globalizzato spesso di molto inferiori ai costi di quella allocata nei paesi a valuta forte, la quale altro non può che soccombere.
I grandi clienti, ad esempio le multinazionali della distribuzione, spingono continuamente i loro buyer a ricercare aziende disposte a investire nei paesi così detti low-cost. Queste, allettate dalla possibilità di aumentare le proprie quote di mercato e i propri utili, o semplicemente per sopravvivere, si sobbarcano l’onere e il rischio procedendo a delocalizzazioni produttive parziali o totali.
Le prime aziende che iniziano questo percorso sono quelle che hanno i vantaggi maggiori, in termini di veloci ritorni degli investimenti e di elevati utili di gestione. Con il procedere del tempo però inizia la concorrenza anche nei paesi low cost. Gli utili delle aziende delocalizzate si riducono. Anzi spesso accade che la concorrenza locale, nata grazie al fatto che in breve tempo il know-how viene acquisito da imprenditori del posto che fanno nascere nuove imprese, addirittura mette fuori mercato le aziende straniere che in quel paese hanno de localizzato. Infatti dopo un certo tempo, a seconda della tipologia di beni fabbricati, nelle aziende locali parte l’innovazione, intesa come sviluppo di nuove tecnologie di produzione, di nuovi prodotti.
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NOKIA è un caso esemplare.
Fra non molto i produttori cinesi schiacceranno nel settore della telefonia mobile tutti gli altri.
Insomma, se anche la competitività complessiva del paese che subisce la delocalizzazione non si adegua in qualche modo, il fenomeno della deindustrializzazione diventa sempre più impetuoso, con conseguente sempre maggiore disoccupazione proprio nel settore che crea la ricchezza di base, cioè il piatto da cui tutti alla fine attingono, in modo più o meno equo.
Insomma la ricchezza vera di una nazione viene creata dai comparti che producono qualcosa, bene materiale o immateriale che sia. Questi comparti sono l’industria, l’agricoltura e il turismo. Se i governanti non si rendono conto che, per il progresso e/o benessere del paese, bisogna tutelarli ad ogni costo, anche a costo di fare qualche dispetto alla finanza, si va verso il declino economico in un crescendo esponenziale fino al tracollo finale.
Su questa strada l’Italia è già ben indirizzata e a nulla potranno valere le balle che ci raccontano sulle riprese dietro l’angolo, rinviate di semestre o trimestre a quello successivo e sistematicamente smentite dai dati veri che purtroppo, anche se sommessamente, in qualche modo tocca riferire.
Che fare?

Le chiacchiere che imperversano in Italia in merito ai provvedimenti che si vorrebbe prendere per rimediare alla situazione di non competitività del paese sono ridicoli.
Non si tratta di recuperare un gap di competitività di qualche punto percentuale rispetto ai nostri competitor dell’economia globalizzata ma ben di più e velocemente di almeno il 25-30% Ciò affinché l’economia reale nel nostro paese possa ripartire veramente.
Un risultato del genere è ormai ottenibile in Italia solo con una svalutazione dell’EURO sul USD di pari valore e purchè anche gli altri paesi non svalutino. Siccome pare che ciò non possa accadere, per l’Italia ci sono 2 scenari o destini. L’uscita dall’Euro con una nuova valuta, svalutata del 35-40% almeno, o La Greek Way che altro non sarebbe che un’agonia interminabile, in attesa comunque del default.
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Temo che quello più probabile sarà il secondo il quale, nel medio lungo termine, sarà molto peggiore del primo.
Il disastro dell’Unione monetaria è sostanzialmente una “crisi di bilancia dei pagamenti“, causata dal disallineamento sempre maggiore della competitività dei vari paesi aderenti.
“La creazione di questa moneta comune ha eliminato la modifica del tasso di cambio come meccanismo di aggiustamento”. Quanto sta accadendo al sistema manifatturiero italiano, alla nostra agricoltura e alla nostra economia in generale è figlia di una drammatica perdita di competitività, ormai irrimediabile senza ingentissime risorse da destinare all’economia reale.
Queste risorse purtroppo non ci sono e quindi “si salvi chi può”.
Gaolin
 
L’Ungheria è di nuovo proprietaria delle sue banche e il Paese è in forte crescita

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L’Ungheria si libera dei vincoli dei banchieri.

Dopo che è stato ordinato all’FMI di abbandonare il paese, la nazione adesso stampa moneta senza debito.

L’Ungheria sta facendo la storia.

Mai era accaduto dai lontani anni Trenta del secolo scorso che una nazione si ribellasse al potere delle banche e dei banchieri, cartelli internazionali governati dai Rothschilds.
Era il 2011 quando il primo ministro magiaro Viktor Orbán promise di ristabilire la giustizia sui predecessori socialisti che avevano venduto il popolo della nazione alla schiavitù di un debito infinito con i vincoli del FMI (IMF) e lo stato terrorista d’Israele. Orbàn ha detto all’FMI che l’Ungheria non vuole né richiede “assistenza” ulteriore dal delegato della Federal Reserve di proprietà dei Rothschild. Gli ungheresi non saranno più costretti a pagare esosi interessi a banche centrali private e irresponsabili. Ed il risultato è che lo Stato ha assunto la sovranità sulla sua moneta e adesso emana moneta senza debito e tanta quanto ne ha bisogno.


I risultati sono stati nientemeno che eccezionali. L’economia nazionale, che vacillava per via di un pesante debito, ha ricuperato rapidamente. . Orbàn ha dichiarato: “L’Ungheria gode della fiducia degli investitori” che non vuol dire né l’FMI né la Fed o altri tentacoli dell’impero finanziario dei Rothschild. Piuttosto si riferiva agli investitori che producono in Ungheria per gli ungheresi, creando crescita economica vera, con una produzione in crescita che dà nuovi posti di lavoro e migliora la qualità della vita.
A seguito di questa politica economica e dei risultati ottenuti, il presidente della banca centrale ungherese gestita dal governo per il bene pubblico e non per l’arricchimento privato abbia chiesto all’FMI di chiudere i battenti da uno dei paesi più antichi d’Europa. Inoltre, il procuratore generale, ripetendo le gesta dell’Islanda, ha accusato i tre precedenti primi ministri del debito criminale in cui hanno precipitato la nazione.
Fonte: Lo Sai | Perché noi ci siamo stufati di essere presi in giro!
 
Le conseguenze di un Euro troppo forte




Le conseguenze di un Euro troppo forte | IntermarketAndMore

Scritto il 11 ottobre 2013 alle 14:30 da gaolin@finanza
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Per mandare in rovina l’economia reale di un paese basta poco. Basta avere una moneta troppo forte. [GUEST POST by Gaolin]

In estrema sintesi il sottotitolo di questo post spiega il processo in corso in Italia, per quanto riguarda l’andamento dell’economia e della nostra finanza.
I nostri governanti sono da tanti anni ormai in attesa di dati o tendenze che facciano intravedere riprese dietro l’angolo, o luci in fondo al tunnel, o la fine della recessione, o che, similmente alla nave CONCORDIA, in qualche modo, magari per grazia ricevuta, la NAVE ITALIA riprenda il normale assetto di navigazione.
Attese purtroppo vane. Ogni giorno, da ogni comparto dell’economia reale, arrivano segnali che, più che preoccupanti, è meglio definire terrificanti.
Mi riferisco:
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* Alla ormai interminabile sequela di aziende artigiane, di piccole, medie e grandi industrie, costrette a chiudere per l’impossibilità di resistere alla concorrenza internazionale, gravate come sono da imposte, balzelli, normative e in generale da un costo del lavoro e del sistema paese Italia che rende impossibile per molte di queste resistere.
* All’esodo verso paesi più attraenti delle aziende italiane migliori o di quelle che, ormai alla disperazione, ancora possono affrontare i costi e i rischi di una delocalizzazione produttiva in uno dei tanti paesi esteri che offrono prospettive decisamente molto ma molto più attraenti della nostra Italia.
* Alle multinazionali che chiudono gli stabilimenti in Italia e se ne vanno altrove.
* Alle difficoltà del sistema turistico italiano che, pur operando in un paese invidiabile, per la quantità e qualità dei suoi siti paesaggistici e storici, per la sua way of life, per la sua cultura gastronomica, ha sempre più difficoltà a intercettare i flussi turistici per un semplice motivo: la qualità dei servizi, rapportati al prezzo richiesto, sono diventati scadenti, rispetto a quelli di altri paesi concorrenti.
* Allo sconfortante incremento della disoccupazione per effetto dei licenziamenti dovuti alla chiusura di imprese, per lo più appartenenti all’economia reale.
* Alla più che drammatica caduta degli investimenti in Italia in ogni comparto: amministrazione pubblica, industria, commercio, agricoltura, turismo. Gli investimenti sono il vero segnale che misura la fiducia nel futuro degli operatori economici e sono l’indispensabile premessa per lo sviluppo di un paese.
* A stalle che chiudono in ogni dove perché la gestione delle stesse è sempre più al di sotto dei limiti dell’economicità.
* Ai raccolti dei campi che sempre più spesso non vale la pena nemmeno di effettuare, dopo averci lavorato tutto l’anno perché antieconomico, a causa dei prezzi internazionali di vendita, o perché proprio non ci sono acquirenti.
* Al fenomeno sempre più esteso dei terreni incolti perché le aziende agricole chiudono per mancanza di successione ereditaria o semplicemente perché il coltivatore, ormai senza più neppure la speranza, lascia tutto per andare a fare qualcos’altro, preferibilmente all’estero.
* Alla drammatica situazione del comparto edilizio e settori collegati.
* Al calo generalizzato dei consumi che riduce i ricavi degli operatori del commercio e quindi gli utili, fino a costringerli alla chiusura della propria attività.
* Alla ancor più drammatica situazione della salute di molte banche italiane, ormai schiacciate nelle loro operatività dall’andamento delle sofferenze, dovute al disastro economico in corso che, per molte di esse, è già arrivato a una situazione da porle in stato di default tecnico.
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Emigranti di altri tempi…

Dulcis in fundo il saldo delle partite correnti del nostro paese.
Sono andato a guardare il sito della CIA americana che, a questo indirizzo, riporta la tabella del saldo delle partite correnti dell’anno 2012 di tutti gli stati del nostro globo.
Ebbene, nonostante la situazione per l’Italia sia un po’ migliorata, se così si può dire, questa è ancora molto critica. Infatti per effetto della drastica riduzione dell’import, dovuto al notevole calo dei consumi, passato dai 556 Miliardi del 2011 ai 453 di USD del 2012 (-19% circa), il deficit delle partite correnti si è ridotto solamente da 70 a 30 miliardi di USD a causa del fatto che anche l’export ha avuto un bel tracollo, nonostante tutti raccontino che l’export italiano per fortuna tiene, perché passato da 523 milioni a 479 di USD (-8% circa).

Mi fermo qua. Penso che ogni lettore sia a conoscenza di tante altre situazioni da aggiungere alla lista e non vale la pena di continuare citando casi di singole aziende o gruppi industriali, prossimi al collasso per varie ragioni ma tutte, in buona sostanza, legate al fatto di essere allocate in questo nostro disgraziato paese.
Comunque, a fronte di tutto ciò l’ISTAT, dell’ex ministro Giovannini, tempo aveva rilevato che c’era stato, negli ultimi mesi decorsi, un incremento della fiducia dei consumatori e delle aziende. Sentimento riscontrato attraverso indagini che sarebbe il caso di informarsi meglio su come vengono condotte e su come costoro taroccano poi i dati per arrivare a conclusioni tanto in contrasto con la realtà, riscontrabile da qualunque frequentatore di bar o osteria d’Italia o per esperienza diretta.
Ma tant’è. Coloro che sono al potere le tentano tutte, da sempre, per dissimulare le verità non piacevoli e soprattutto per cercare in ogni modo di convincersi che la causa o la responsabilità delle situazioni che non vanno è sempre degli altri.
Non ce n’è uno che abbia il coraggio di ammettere le proprie responsabilità nei disastri che ha contribuito a provocare. Anzi si arriva al punto che più grandi sono stati questi disastri e più costoro sono convinti che in fondo questi sono dovuti al fatto che non si è andati o non si vuole andare fino in fondo nei percorsi che costoro avevano delineato. Questi sciagurati poi, siccome fanno parte del sistema di gestione del potere, ovvero della casta che ci governa, si nominano vicendevolmente nelle alte cariche dello stato in modo da ben continuare a perpetuare i disastri in corso.
Ma veniamo al titolo del post per tentare di argomentarlo.
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In tutto il mondo, i governi dei paesi si preoccupano molto della salute della propria economia e molti di questi sono particolarmente attenti alla propria competitività che è, o dovrebbe essere, in continua mutazione per i meccanismi stessi del mercato che, se è veramente libero, tende automaticamente ad autoregolarsi. Una nazione che ha un sistema economico industriale troppo competitivo avrà una bilancia commerciale squilibrata, con elevati avanzi, per cui la propria moneta sarà in continua tensione, nel senso che tenderebbe a rivalutarsi rispetto alle altre, per ridurre l’eccessiva competitività della sua economia.
Paesi come la Cina, governati da personalità che hanno ben capito come funziona l’economia globalizzata, hanno fatto del mantenimento della propria ipercompetitività, attraverso la gestione forzata del cambio, altrimenti detto dumping valutario, l’arma per assicurare al proprio paese uno sviluppo dell’economia a dei ritmi mai prima sperimentati nella storia.
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La Cina però non è sola in questa corsa forsennata. Tutti i paesi asiatici stanno diventando ricchi uno dopo l’altro. Recentemente persino la Malesia, Thailandia, Indonesia e Vietnam sono su questa via. Lo fanno applicando un modello economico basato sul NAZIONALISMO e DIRIGISMO che fondamentalmente consiste in un’attenta gestione della propria parità monetaria , a protezionismi veri e propri e a incentivi all’export. In aggiunta poche tasse e poco welfare.
Certamente in questi paesi si conta ancora molto sulla laboriosità e sui sacrifici della mano d’opera che lavora nelle fabbriche e che, in cambio di tanto lavoro, poco ancora ha ottenuto per sé, anche se molto di più di quanto aveva in precedenza.
In occidente tutti fanno finta di non vedere o non capiscono proprio questo fenomeno che, il più delle volte viene liquidato con “là, la manodopera costa poco”.
E’ incredibile che a nessuno venga in mente di capire come fanno. Nessuno che si azzarda a dire : “ma se tutti questi cinesi, coreani, taiwanesi, malesi, vanno così bene, perchè non li imitiamo? Perchè non vediamo che sistema usano? Perché non cerchiamo almeno di difenderci?”.
Niente da fare. Tutti a parlare di regole, di liberalizzazioni, di spread, di tassi tenuti bassi, limiti al debito pubblico, riforme strutturali, di ulteriori e necessarie leggi che regolamentano questo e quello, beghe politiche di basso profilo, ecc…. Nessuno che comprenda che più che il salario nominale espresso in USD conta il potere di acquisto nel paese dove si lavora e si vive. Nessuno che abbia chiaro che ad esempio in Cina con equivalenti 300EUR si vive come in Italia con 4-5 volte tanto.
Ma cos’è la competitività?

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La competitività viene definita come la capacità di un’impresa manifatturiera, di un’azienda appartenente a uno dei tanti comparti economici, di un ente pubblico o di un’entità territoriale, quale può essere una regione o uno stato, di fornire beni o servizi attraenti quanto a qualità e prezzo. Il soggetto competitivo è quello in grado di rimanere sul mercato profittevolmente operando in un regime di libera concorrenza.
Il termine competitività è diventato anche in Italia un termine abbastanza citato nei dibattiti televisivi e nei mass media ma la stragrande parte di coloro che ne parlano o scrivono, compresi gli economisti, hanno poco chiaro come effettivamente la competitività agisce sull’economia reale, in particolare sull’andamento economico delle imprese manifatturiere soggette alla concorrenza globalizzata. La gran parte di costoro mai ha dovuto passare notti insonni perché si è trovata impotente ad affrontare il problema della non competitività della propria impresa, dovuta al contesto in cui opera e/o a fattori esterni che non può controllare.
In particolare nessuna impresa manifatturiera è in grado singolarmente di controllare le variazioni del tasso di cambio della moneta con cui esprime i propri costi aziendali , in raffronto alle altre divise. Le parità monetarie fra le valute è il principale e fondamentale fattore che determina la competitività o meno delle aziende che operano nel mercato globalizzato.
Un’azienda che produce beni con tecnologie e sistemi produttivi più o meno avanzati può perdere soldi se opera in un paese che ha una valuta forte, oppure guadagnare molto se fa le stesse cose e nello stesso modo ma in un paese dove viene, in qualche modo, mantenuta debole la valuta.
Cosa significa avere una valuta debole?
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Semplicemente che tutto ciò che si acquista e che si produce in un paese, quanto a beni e servizi, rispetto alla valuta di riferimento (i.e.il USD) costa poco, o meglio meno, di quelli analoghi dei paesi a valuta forte.
In fondo, quello di avere una moneta debole per sviluppare la propria economia è un segreto di pulcinella. Più la valuta viene mantenuta debole più il paese ha possibilità di svilupparsi velocemente. I paesi asiatici, a partire dal Giappone mezzo secolo fa, imitati poi da Taiwan, Korea, Cina, ecc. hanno fatto di questa politica la chiave del loro successo economico, che ha portato, come già detto, benessere e ricchezza diffusa dove prima c’era tanta ma tanta miseria.
Cosa significa invece avere una valuta forte?
E’ veramente strano constatare come invece non ci sia molta voglia di rendersi conto che, se vale quanto sopra, vale anche il viceversa, purtroppo. Ovvero che se un paese ha una valuta forte in breve deve cominciare a fare i conti con la deindustrializzazione, con il declino della propria economia reale, declino che sarà tanto più veloce quanto più forte sarà mantenuta tale la propria valuta.
Fior fiore di economisti, che però devono aver fatto poca pratica sul campo, per anni hanno ripetuto e ripetono tuttora gli stessi discorsi . La valuta forte spinge le aziende a modernizzarsi, a essere più competitive innovando, investendo, facendo ricerca, migliorando la qualità. Certo, tutto ciò è anche vero ma se la propria valuta è troppo forte ciò non basta più. Anzi, se ci si ostina a prendere per buone solo queste teorie, un paese finisce per trovarsi con il proprio sistema produttivo smantellato senza aver capito neppure il perché.
E’ proprio quanto sta accadendo nel nostro disgraziato paese. Da oltre 5 anni ormai è in corso un processo di deindustrializzazione, che ormai è già arrivato a uno stadio più che allarmante e che diventerà irreversibile se si andrà avanti così per ancora 2-3 anni. Il principale motivo è che il valore della valuta che l’Italia ha in tasca non è corrispondente al suo livello di competitività.
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Come avviene nel concreto la deindustrializzazione?
Concentrando per il momento l’attenzione sul settore del manifatturiero industriale, non è certo un fenomeno repentino. Inizialmente quasi non ci si accorge. In un paese che comincia ad avere una valuta troppo forte il processo parte con gradualità.
Per il fatto che i prodotti fabbricati in altri paesi costano molto meno, le prime ad avere difficoltà sono le aziende già deboli di per sé, ovvero quelle che per varie ragioni hanno già problemi a sopravvivere con la concorrenza interna e che vengono quindi subito spiazzate. Questi problemi poi si estendono a quelle che producono manufatti ad alto contenuto di manodopera, poi a quelle che, anche se molto automatizzate, fabbricano prodotti diciamo semplici, ovvero con cicli di produzione con poche fasi di lavorazione.
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In seguito i problemi cominciano ad investire anche le aziende che sono all’avanguardia quanto a tecnologie produttive, a complessità dei manufatti prodotti per un motivo molto semplice: Gli stessi manufatti possono essere prodotti altrove a costi più bassi. Basta che il paese abbia una moneta con un tasso di cambio favorevole.
Se questo tasso di cambio è molto favorevole l’impresa che produce in un paese low-cost ha un vantaggio formidabile: E’ in grado di praticare, pur guadagnando molto, prezzi di vendita sul mercato globalizzato spesso di molto inferiori ai costi di quella allocata nei paesi a valuta forte, la quale altro non può che soccombere.
I grandi clienti, ad esempio le multinazionali della distribuzione, spingono continuamente i loro buyer a ricercare aziende disposte a investire nei paesi così detti low-cost. Queste, allettate dalla possibilità di aumentare le proprie quote di mercato e i propri utili, o semplicemente per sopravvivere, si sobbarcano l’onere e il rischio procedendo a delocalizzazioni produttive parziali o totali.
Le prime aziende che iniziano questo percorso sono quelle che hanno i vantaggi maggiori, in termini di veloci ritorni degli investimenti e di elevati utili di gestione. Con il procedere del tempo però inizia la concorrenza anche nei paesi low cost. Gli utili delle aziende delocalizzate si riducono. Anzi spesso accade che la concorrenza locale, nata grazie al fatto che in breve tempo il know-how viene acquisito da imprenditori del posto che fanno nascere nuove imprese, addirittura mette fuori mercato le aziende straniere che in quel paese hanno de localizzato. Infatti dopo un certo tempo, a seconda della tipologia di beni fabbricati, nelle aziende locali parte l’innovazione, intesa come sviluppo di nuove tecnologie di produzione, di nuovi prodotti.
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NOKIA è un caso esemplare.
Fra non molto i produttori cinesi schiacceranno nel settore della telefonia mobile tutti gli altri.
Insomma, se anche la competitività complessiva del paese che subisce la delocalizzazione non si adegua in qualche modo, il fenomeno della deindustrializzazione diventa sempre più impetuoso, con conseguente sempre maggiore disoccupazione proprio nel settore che crea la ricchezza di base, cioè il piatto da cui tutti alla fine attingono, in modo più o meno equo.
Insomma la ricchezza vera di una nazione viene creata dai comparti che producono qualcosa, bene materiale o immateriale che sia. Questi comparti sono l’industria, l’agricoltura e il turismo. Se i governanti non si rendono conto che, per il progresso e/o benessere del paese, bisogna tutelarli ad ogni costo, anche a costo di fare qualche dispetto alla finanza, si va verso il declino economico in un crescendo esponenziale fino al tracollo finale.
Su questa strada l’Italia è già ben indirizzata e a nulla potranno valere le balle che ci raccontano sulle riprese dietro l’angolo, rinviate di semestre o trimestre a quello successivo e sistematicamente smentite dai dati veri che purtroppo, anche se sommessamente, in qualche modo tocca riferire.
Che fare?

Le chiacchiere che imperversano in Italia in merito ai provvedimenti che si vorrebbe prendere per rimediare alla situazione di non competitività del paese sono ridicoli.
Non si tratta di recuperare un gap di competitività di qualche punto percentuale rispetto ai nostri competitor dell’economia globalizzata ma ben di più e velocemente di almeno il 25-30% Ciò affinché l’economia reale nel nostro paese possa ripartire veramente.
Un risultato del genere è ormai ottenibile in Italia solo con una svalutazione dell’EURO sul USD di pari valore e purchè anche gli altri paesi non svalutino. Siccome pare che ciò non possa accadere, per l’Italia ci sono 2 scenari o destini. L’uscita dall’Euro con una nuova valuta, svalutata del 35-40% almeno, o La Greek Way che altro non sarebbe che un’agonia interminabile, in attesa comunque del default.
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Temo che quello più probabile sarà il secondo il quale, nel medio lungo termine, sarà molto peggiore del primo.
Il disastro dell’Unione monetaria è sostanzialmente una “crisi di bilancia dei pagamenti“, causata dal disallineamento sempre maggiore della competitività dei vari paesi aderenti.
“La creazione di questa moneta comune ha eliminato la modifica del tasso di cambio come meccanismo di aggiustamento”. Quanto sta accadendo al sistema manifatturiero italiano, alla nostra agricoltura e alla nostra economia in generale è figlia di una drammatica perdita di competitività, ormai irrimediabile senza ingentissime risorse da destinare all’economia reale.
Queste risorse purtroppo non ci sono e quindi “si salvi chi può”.
Gaolin

E nn è finita perchè manca un pezzo: gli USA via shalegas stanno avendo una forte reindustralizzazione (lo shale gas costa un quinto risptto all' energia in UE) - e loro vogliono (vorrebbero) avere libero scambio merci con le due sponde atlantico: in ambienti Bruxelles (quelli legati a Germania tanto per intenderci e lo so di prima mano, ma inDE in industria se ne parla...) non lo vogliono questo accordo "perchè distruggerebbe il mercato" -
Mica scemi, loro.
Notare se la stampa e video - tutta- in ita parla di questo ...
Ergo....
 

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