Azimut (AZM) Nessun segno di debolezza

Meglio azionisti, che clienti
MariaGrazia Briganti | 2006-04-04

I titoli degli asset manager quotati rendono di più dei loro prodotti e gli interessi degli stakeholder spesso vengono prima di quelli dei risparmiatori. Ma tradire la diversificazione garantita dai fondi è rischioso.

Meglio investire nella società, non nel suo prodotto. Ne era convinto nel lontano 1967 il premio Nobel per l’economia Paul Samuelson, quando dichiarò che “esiste un solo posto in cui investire nell’industria dell’asset management, come esiste un solo posto in un saloon in cui può stare un uomo moderato ed è dietro il bancone e non davanti”. Così decise che per entrare in Borsa avrebbe investito nelle società e non attraverso i loro strumenti, i fondi.

Una convinzione che i risultati storici non smentiscono. Il rally del comparto finanziario e l’elevata redditività delle società di asset management hanno spinto ai massimi i titoli del risparmio gestito, non altrettanto hanno fatto i prodotti. A Wall Street, dove sono quotati 24 asset manager, nel 70% dei casi gli investitori americani avrebbero guadagnato di più investendo nella società di gestione, piuttosto che nei suoi fondi azionari, su un orizzonte temporale di uno, tre e cinque anni. Sui dieci anni, la percentuale sale al 100%.

Franklin Templeton, ad esempio, ha registrato un progresso annuo del 42% negli ultimi tre anni e di oltre il 39% solo nel 2005, quattro volte il rendimento medio offerto dai prodotti azionari. Chi invece aveva Global Investors in portafoglio, ha guadagnato nel 2005 il 239%, quasi dieci volte di più dell’investitore che possedeva un fondo azionario.

Nel caso di Janus e Waddell & Reed, invece, i più soddisfatti sono stati i sottoscrittori dei fondi. Ma questa è un’altra storia, perché Janus è passata attraverso un periodo di ristrutturazione, cambiamenti di management e scandali, costati milioni in termini di capitalizzazione di Borsa e asset gestiti. Waddell & Reed ha dovuto pagare quasi 8 milioni di dollari per l’infelice epigono di una disputa con un broker e per gli effetti di una regolamentazione più stringente. E lo stesso è accaduto a Oppenheim, che di milioni ne ha dovuti sborsare 4,4.

Gli asset manager quotati in Italia
Rendimento medio dei fondi azionari/Titolo in Borsa Rend.% 2005 Rend.% da inizio anno Redd. Operat. Lordo/Ricavi
in Italia
Fondi Anima 18,80 5,7
Anima sgr Spa -15,6(*) 11,1 28,24%
Fondi Azimut 19,12 4,3
Azimut Holding 65,06 59,00 27,64%
Fondi Fideuram 19,42 4,3
Banca Fideuram 20,99 3,23 50,71%

Fondi Mediolanum 24,79 4,6
Mediolanum 6,74 19,7 48,66%
in Europa
Fondi Schroders 33,20 7,21
Schroders 26,49 22,72 31,47%
Fondi Invesco 32,85 5,04
Amvescap Plc 38,44 23,70 19,45%
(*)rendimento dalla quotazione (26 ottobre/31 dicembre 2005)
Dati al 3 aprile 2006: Morningstar Direct e Borsa Italiana
I dati di bilancio delle società italiane sono riferiti al 2004, quelli esteri al 2005


Anche in Europa, così come in Italia, dove le società quotate indipendenti e specializzate sull’asset management sono poche e hanno una storia più breve, la creazione di valore è stata superiore per gli azionisti, rispetto agli investitori in fondi.

I motivi? Diversi. Partiamo da quelli di breve periodo. La febbre da fusioni e acquisizioni che da un anno a questa parte sta trainando i titoli bancari, ha permesso anche ai money manager europei di partecipare ai rialzi del comparto. Su di loro si sono scatenate le scommesse di chi li vede oggetto di aggregazioni all’interno del settore.

Così Mediolanum, la più trascurata nel 2005, anche per la sua vocazione più assicurativa, guadagna da inizio anno il 19,7%, mentre Azimut ha sfiorato il 60%, sulla scia di rumor che vogliono l’amministratore delegato Pietro Giuliani intraprendere la via di possibili acquisizioni e joint venture. Il rendimento medio dei fondi azionari della società da inizio anno si è invece fermato al 4,3%. Anima ha invece scontato nel 2005 una quotazione un po’ elevata, ma da inizio anno ha ripreso la via del rialzo (+11,1%), mentre i fondi hanno restituito un guadagno del 5,7%. Fa eccezione Banca Fideuram, cresciuta in Borsa del 3,23%, contro un +4,3% messo a segno dalla media dei suoi prodotti. Così la britannica Schroders, che ha realizzato un +26,5 nel 2005, supportato da un altrettanto brillante andamento da parte dei suoi prodotti che nell’anno hanno guadagnato mediamente oltre il 33%.

I motivi di lungo periodo: la redditività delle società di asset management.

Veniamo ai possibili motivi di lungo termine. A parte l’euforia del momento, il mercato sta premiando i bilanci in ordine e la redditività dei money manager. Negli Usa, il reddito operativo lordo, che esprime la capacità dell’impresa di coprire con i ricavi commerciali il costo degli investimenti -dopo aver sottratto tutti i costi d’esercizio- tocca il 35%. Al confronto, le imprese europee e italiane non sfigurano, ma in alcuni casi mettono sul piatto margini addirittura superiori: nel 2004 si va dal 27,6% di Azimut, all’oltre 50% per Banca Fideuram.

Il reddito operativo lordo indica l’efficienza produttiva di un’azienda e nel caso delle compagnie di gestione del risparmio il business model presenta elevate economie di scala e i ricavi da commissioni sono la voce più rilevante del conto economico, sempre assicurata anche in caso di mercati in perdita. Se i listini scendono, le commissioni vengono incassate lo stesso dai gestori, che il più delle volte non rinunciano neanche a quelle di incentivo, sebbene le performance siano negative.

Soprattutto in Italia, dopo la crisi del 2000, sono state fatte pagare commissioni per gestioni attive che in realtà non lo erano: in un’ottica difensiva, le decisioni di investimento sono state agganciate all’andamento dei benchmark, con l’obiettivo di limitare al minimo il rischio. Risultato, mentre le fee di gestione e di incentivo sostenevano i bilanci delle società, le performance dei fondi venivano erose e si dimostravano poco soddisfacenti in relazione ai mercati.

D’altro canto sarebbe troppo rischioso abbandonare i prodotti e investire solo sulla società. La diversificazione assicurata dall’investimento in fondi non è paragonabile alla concentrazione fornita dall’acquisto di un singolo titolo, esposta al mercato, ai rumors, oltre che ai trend di Borsa.

L’americana Global Investors, ad esempio, è specializzata sul segmento delle risorse naturali. Dato il recente rally delle commodity, il titolo ha messo a segno un rialzo a tre cifre, trainato dall’ottimo andamento dei suoi stessi prodotti. Il ragionamento è lineare: se i prodotti cavalcano alla perfezione l’attuale fase di mercato, le masse in gestione aumentano, e così anche le commissioni. Il mercato recepisce questo valore e il titolo aumenta di valore in Borsa come se si muovesse sotto la spinta di un effetto leva. Un atteggiamento speculativo che potrebbe condurre a clamorosi dietro-front delle quotazioni, nel momento in cui gli investitori realizzano che il rally delle commodity volge al termine.

L’interesse dei clienti, dopo gli azionisti

Laddove più elevato è il gap tra rendimento del titolo e performance dei fondi, si fa più aspro il conflitto tra i doveri di una società verso i propri azionisti e verso i propri clienti. Non è una coincidenza che le società come Global Investors e Alliance per l’America, Fideuram, Azimut e Mediolanum per l’Italia, non siano famose per un basso livello di commissioni. Non c’è niente di sbagliato nel raggiungere elevati livelli di profittabilità, ma è auspicabile che questi vengano raggiunti attraverso costi equi e senza perdere di vista l’interesse dei clienti. Non a caso, sono questi il patrimonio più grande che la società è chiamata a gestire.

Per l'analisi sul mercato americano ha collaborato Daniel Coulloton, fund analyst di Morningstar Inc.


MariaGrazia Briganti è Redattrice di Morningstar in Italia. Per commenti e osservazioni potete scriverle all'indirizzo [email protected]
Attenzione: Morningstar e i suoi dipendenti non forniscono alcun tipo di consulenza, né su investimenti in generale né su specifici fondi.

http://www.morningstar.it/news/analysis.asp?articleid=45426&validfrom=2006-04-04
 
Azimut: Bankitalia autorizza fondo hedge puro Aliseodue

MILANO (MF-DJ)--La Banca d'Italia ha autorizzato alla fine di maggio il nuovo fondo hedge puro Aliseodue di Azimut Capital Management Sgr. Si tratta, come si legge in una nota, di un fondo hedge single manager, con strategia long-short equity, gestito come il precedente Aliseo da Alessandro Baldin e Fermo Marelli. Il nuovo prodotto ha gia' registrato una raccolta netta positiva per circa 67 mln euro. Alla fine di maggio, il fondo Aliseo, avviato a luglio 2005, aveva un patrimonio in gestione di 300 mln euro, con una performance netta dal lancio del 14,25%, ed e' stato chiuso ai nuovi clienti a febbraio per il raggiungimento del limite di 200 clienti. Azimut Capital Management Sgr, la societa' del gruppo Azimut che gestisce fondi hedge, prevede infine di lanciare a breve un terzo fondo speculativo con la stessa strategia di investimento di Aliseo e Aliseodue. Com/pl (END) Dow Jones Newswires Copyright (c) 2006 MF-Dow Jones News Srl. June 05, 2006 10:45 ET (14:45 GMT)
 
LA GRANDE FUGA DALL' EQUITY

di Gabriele Petrucciani
Le Borse correggono e gli investitori scappano dai fondi azionari, negativi a maggio per oltre 3 miliardi. L’industria, invece, brucia 5,2 mld. Colpa delle Sgr italiane, ma perdono anche i roundtrip.


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12 Giugno 2006 19:34 MILANO

Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – In poco più di un mese le principali piazze finanziarie internazionali hanno completamento azzerato quanto di buono fatto nei primi quattro mesi dell’anno. Ma a differenza di quanto successo negli anni passati, questa volta la risposta degli investitori è stata più che tempestiva. E nel mese di maggio i fondi investiti in azioni sono stati protagonisti di una vera e propria fuga di liquidità. Stando alla fotografia scattata da Assogestioni, infatti, i comparti specializzati nell’equity hanno bruciato più di 3 miliardi di euro, pur rimanendo in attivo da inizio anno per circa 900 milioni.

VIA DALL’AZIONARIO. Una fuga intelligente? «Nessuno può dirlo in questo momento - commenta Alberto Foà, amministratore delegato di Anima Sgr - Tra sei mesi stileremo un bilancio e saranno le Borse stesse a dirci se sia stata o meno una fuga intelligente». È anche vero, comunque, che «tutto dipende da quando l’investitore è entrato sul mercato - fa notare Pietro Giuliani, presidente di Azimut - Il fondo non è un investimento di breve periodo», non è uno strumento, come le azioni, che può essere acquistato e venduto nell’arco di un paio di mesi. «Questo vuol dire che chi ha avuto l’accortezza di entrare all’inizio dello scorso anno, o ancora meglio nel 2004, ha fatto bene a prendere profitto», continua Giuliani. «Anche perché non si ha alcuna certezza su quando questa correzione dei mercati, del tutto fisiologica e attesa, avrà fine - aggiunge Giulio Casuccio, gestore di Fondaco - Di certo non si è esaurita nel solo mese di maggio e, sebbene a ritmi inferiori, la discesa continuerà anche nei prossimi mesi».

E Azimut è già da un anno che ha cominciato a consigliare ai propri clienti lo switch dall’equity ai fondi flessibili. «A oggi più del 35% del nostro asset under management (di circa 12 miliardi di euro, ndr) è investito in prodotti flessibili - afferma il presidente di Azimut. Il 20%, invece, è concentrato sui bilanciati, mentre il resto è diviso tra azioni e obbligazioni». Il discorso, invece, cambia per quei ritardatari che sono entrati sull’equity soltanto pochi mesi fa. «In questo caso sinceramente non posso parlare di giusto timing - sottolinea Giuliani - anche perché personalmente sono convinto che dopo l’estate le Borse torneranno a esprimersi al meglio. Le indicazioni provenienti dal fronte congiunturale sono incoraggianti e i fondamentali delle imprese ottimi».

Anche Credit Suisse è da più di un anno che ha cominciato a ribilanciare i propri portafogli. «E una volta alleggerito il peso sull’azionario, in questi ultimi mesi abbiamo preferito presentare ai nostri clienti molti più prodotti focalizzati sul reddito fisso - commenta Matteo Bosco, amministratore delegato per l’Italia di Credit Suisse - Una asset class sulla quale era doveroso e importante diversificare». Per Massimo Greco, amministratore delegato di Jp Morgan Am Italia, non è invece possibile parlare di fuga intelligente, indipendentemente dal timing di entrata: «Certo l’uscita dall’equity c’è stata, è evidente. Ma è avvenuta quando il mercato era già sceso - spiega Greco - Inoltre, non ci troviamo in una fase di mercato, come accaduto nel 2000, in cui le valutazioni dell’azionario non trovavano riscontro nei fondamentali. Anzi, i multipli delle società quotate restano interessanti e dopo questa correzione, benefica per i listini, stiamo già valutando di tornare sull’equity».

UN SISTEMA IN GINOCCHIO. Intelligente o meno, comunque, la fuga c’è stata. E non solo dall’azionario. Il rosso ha interessato anche gli obbligazionari, i bilanciati e i fondi liquidità, per un bilancio complessivo in negativo per 5,2 miliardi di euro (da inizio anno il deflusso netto è di 2,2 miliardi). Si tratta del risultato peggiore degli ultimi cinque anni. Soltanto a settembre del 2001 l’industria del gestito aveva fatto peggio, registrando una fuoriuscita di liquidità di circa 9 miliardi. E la perdita di maggio è ascrivibile interamente alle società italiane che hanno chiuso un bilancio in negativo per oltre 6,3 miliardi, mentre i fondi esteri hanno archiviato il mese con un attivo di 1,1 miliardi.

Insomma, i dati censiti da Assogestioni mostrano un’industria italiana in profonda crisi, visto che dall’inizio dell’anno i fondi domestici hanno perso complessivamente 23,5 miliardi e i prodotti roundtrip (quelli creati all’estero dai gestori italiani), con una raccolta positiva di 9,6 miliardi, non sono riusciti a compensare le perdite. Così da gennaio il sistema dei fondi italiani perde complessivamente quasi 14 miliardi. Mentre avanzano i prodotti di gestori esteri: da gennaio a maggio il loro bilancio è infatti positivo per oltre 11 miliardi. Ma la vera conferma sulla crisi delle Sgr italiane arriva dal dato mensile degli esterovestiti, che a maggio hanno registrato una raccolta netta negativa per 141 milioni dopo 40 mesi consecutivi in positivo (l’ultimo segno meno risale a gennaio 2003). Ma i gestori sembrano ignorare questi dati e sono convinti che assolutamente non si possa parlare di crisi.

I NODI DA SCIOGLIERE. «È vero che 5,2 miliardi di euro sono tanti - dice Foà - Ma è altrettanto vero che rappresentano soltanto l’1% del patrimonio complessivo (attestatosi a fine maggio a 601,2 miliardi, ndr). Con questo però non voglio dire che non ci sono problemi. Delle cose da mettere a posto ci sono. Come la questione fiscale. Il diverso meccanismo di tassazione, infatti, favorisce la concorrenza estera in Italia e impedisce il contrario. Insomma, lo Stato italiano sta uccidendo un settore che può avere una rilevanza strategica». E Greco di Jp Morgan Am aggiunge: «Ma c’è anche un altro duplice problema che penalizza l’Italia: quello dello stretto legame tra produttore e distributore e tra banche e Sgr». Non a caso, dallo spaccato della raccolta netta per singole società di gestione emerge come a perdere siano state soprattutto le Sgr che hanno collocato i loro prodotti attraverso le reti bancarie tradizionali. «Ma per superare la crisi c’è bisogno anche di una maggiore specializzazione», conclude Bosco di Credit Suisse. Ed ecco spiegato, dunque, anche il successo a maggio delle realtà specializzate più piccole come Fondaco, che ha raccolto 253,7 milioni, e indipendenti come Azimut, che ha rastrellato 56,8 milioni.

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