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Gino Strada, fondatore di Emergency
04/10/2006
Non chiamatemi più pacifista
a cura di Raffaello Zordan
«Si tratta di creare un movimento di coscienza per buttare la guerra fuori dalla storia».
L’incontro di Assisi del 26 agosto per la pace in Medio Oriente è stato interpretato da molti come un sì al multilateralismo e al ruolo dell’Onu, come l’aprirsi di una nuova fase. È così?
Il movimento per la pace esprime un sentire molto più ampio e molto più importante delle sigle, delle organizzazioni e dei professionisti della politica. È un movimento di coscienze che attraversa milioni di persone in modi diversi e con sfumature diverse.
Quando parliamo, invece, di organizzazioni e di sigle – tipo Tavola della Pace –, penso che siano morte e sepolte, perché non hanno nessuna capacità di essere propositive. Noi di Emergency non abbiamo aderito alla marcia del 26 agosto e non aderiamo nemmeno alla marcia per la pace di Perugia-Assisi 2006. Insomma, noi non faremo più niente con nessuna organizzazione che abbia scelto la guerra riguardo sia all’Afghanistan sia al Libano.
Quand’anche un intervento militare fosse legittimo (cioè rispettoso delle vigenti leggi), da quando in qua la legalità e la legittimità sono dei valori di per sé? Io non sarei mai stato d’accordo sull’applicazione delle leggi razziali… Allora, dire che un intervento può anche essere legittimo, secondo i meccanismi che regolano l’Onu, non vuol dire che sia una scelta giusta.
Mi preoccupa questa tendenza, dilagante e quasi universale, che considera la politica estera come politica militare. Che ritiene il militarismo e gli interventi militari come l’unica opzione possibile, tanto da non voler provare strade diverse. Ormai si dà per scontato che dove c’è un problema si mandano i militari. Poi, sotto quale egida e con quali regole d’ingaggio, sono questioni marginali. Mi preoccupa che questa tendenza sia stata assunta da organizzazioni che fanno parte del movimento per la pace. Organizzazioni che, quando erano gli avversari politici a fare le guerre, avevano una posizione, mentre se sono gli amici politici a fare le guerre, come oggi, hanno una posizione diversa.
Che cosa dovrebbe fare il movimento della pace in questo momento?
C’è bisogno di riflessioni profonde. Ma la riflessione, se non è frutto di una pratica, non può avvenire. E qui casca l’asino. Un conto è una pratica che si risolve nell’organizzare la Perugia-Assisi, un conto è mettere in piedi, per esempio, una forza d’interposizione senza armi. Per farlo seriamente servono milioni di euro. A chi li chiediamo?
Sta dicendo che ognuno deve tornare a fare ciò che è capace di fare?
Ciascuno faccia il suo pezzettino di pratica di diritti umani, di dialogo, di pace, di solidarietà. Dove si lavora con certi atteggiamenti, si ottengono risultati. Lo abbiamo visto in tutti i paesi in guerra dove siano presenti: con il nostro lavoro abbiamo il rispetto di tutti.
Quindi il movimento per la pace deve rinunciare a rompere le scatole al governo, ai partiti, alla politica?
Il movimento è vasto e fa tante cose. Ci sono state organizzazioni che, prima sull’Afghanistan e poi sul Libano, hanno cambiato la rotta di 180°. Perché? Uno del movimento, Giulio Marcon, ha detto: «Il primo motivo ideale si chiama euro». Sono d’accordo. Qualcuno è stato assoldato dalla cooperazione italiana. Esempio. Tra le associazioni del coordinamento delle organizzazioni non governative italiane che lavorano in zona di guerra, ce n’è qualcuna che non sa distinguere un forno a microonde da un Kalashnikov… Aspetto soltanto che la situazione in Afghanistan si deteriori ancora un po’ e una ong, tipo Alisei, sparirà per sempre da Kabul, con grande sollievo degli afgani. Poi ci sono organizzazioni sponsorizzate in maniera evidente dai partiti: penso a Intersos e alla Margherita. Questo per dire che quel mondo lì ha rinunciato a essere di sprone e di critica alla politica. È accodato alla politica. Direi, a qualsiasi politica.
Lei ha un rapporto di amicizia con padre Zanotelli e don Ciotti. Stavolta avete posizioni diverse. Continuate a parlarvi?
Ho sentito Alex un paio di volte e devo dire che siamo sostanzialmente in sintonia, considerate le tante garanzie che ha chiesto per l’invio della forza d’interposizione in Libano. Ho cercato Luigi, dopo che avevo letto la posizione di Libera, per dirgli: «Sei impazzito»? Ma non l’ho ancora trovato. Credo che avremo modo di parlarci.
Però l’impasse c’è. Le organizzazioni vanno un po’ per conto loro…
Oppure vanno a gruppi in supporto alla politica. Guardiamo al flop del 26 agosto. La questura ha dato 1.000 partecipanti, gli organizzatori 2.000. E fin qui siamo nella fisiologia. Ma La Repubblica ha scritto 6.000. C’è stato un uso politico di quella manifestazione, che – intendiamoci – è stata messa in piedi per essere usata politicamente. Per me questa si chiama propaganda di guerra
Altro esempio: quando lanciammo nel settembre 2002 la campagna “Fuori l’Italia dalla guerra”, anche per sollecitazioni interne ed esterne a Emergency, decidemmo di farla insieme ad altri. C’erano quattro sigle: Emergency, Libera, Rete Lilliput, Tavola della Pace. Due mesi e mezzo dopo nasce repentinamente “fermiamolaguerra.it”, in cui ci sono dentro tutte quelle organizzazioni lì, più i partiti. Ma non noi. Come vogliamo chiamarla: subalternità alla politica, sudditanza, servilismo?
Emergency come intende muoversi?
L’impegno di Emergency nei prossimi anni è di costruire il movimento contro la guerra. Noi non ci chiameremo più pacifisti. Ne sto discutendo, tra gli altri, con Noam Chomski e Eduardo Galeano… Mi sembra che l’unica cosa che ha un senso oggi sia di trattare la guerra come è stata trattata la schiavitù: come una cosa ripugnante che deve essere buttata fuori dalla storia. È un problema di coscienze e di culture.
Se si riuscisse a far discutere l’Onu di questa questione (magari sollecitandolo con una lettera inviata da milioni di bimbi) sarebbe una bella cosa. L’Onu deve essere un interlocutore, anche se oggi sappiamo essere uno strumento nelle mani della Cia e di pochi altri. Oggi è un’Onu che non ha avuto la forza, dopo l’attacco all’Iraq, di convocare un’assemblea straordinaria e di proporre una mozione di espulsione di Stati Uniti e di tutti gli altri che si sono accodati.
Come giudica il quadro internazionale?
Siamo in una fase di militarismo con tendenze che mi ricordano la Germania del ’34-’35. Ormai la logica della guerra è stata accettata dalle coscienze. Qui bisogna riprendere in mano il pensiero di Einstein e di Bertrand Russell. Quando Einstein nel ’32 scrisse che la guerra non si può umanizzare ma si può solo abolire, lo presero per scemo… Oggi siamo ancora lì: nessuno vuol affrontare il problema.
Abolire la guerra non è un problema legislativo, ma di coscienza. Bisogna invertire questo processo e far penetrare nelle coscienze della gente l’idea che la guerra, cioè la violenza di massa, è ripugnante, degradante e disumana. La guerra è talmente contro natura che il potere deve impegnare tutte le sue forze, compresi i media, per convincerci che la guerra fa bene. Il potere arriva a chiamare pace la guerra. Oggi trovarsi in un conflitto internazionale nucleare è questione di un giorno. Il giorno prima non succede nulla, il giorno dopo uno ha tirato la bomba ed è successo tutto. E noi culturalmente dove siamo? Durante il processo di 15 anni di crescita del militarismo nazista c’era comunque chi pensava e agiva diversamente, chi si opponeva. Oggi nessuno si muove.
Questa è la tragedia.
Da www.nigrizia.it
04/10/2006
Non chiamatemi più pacifista
a cura di Raffaello Zordan
«Si tratta di creare un movimento di coscienza per buttare la guerra fuori dalla storia».
L’incontro di Assisi del 26 agosto per la pace in Medio Oriente è stato interpretato da molti come un sì al multilateralismo e al ruolo dell’Onu, come l’aprirsi di una nuova fase. È così?
Il movimento per la pace esprime un sentire molto più ampio e molto più importante delle sigle, delle organizzazioni e dei professionisti della politica. È un movimento di coscienze che attraversa milioni di persone in modi diversi e con sfumature diverse.
Quando parliamo, invece, di organizzazioni e di sigle – tipo Tavola della Pace –, penso che siano morte e sepolte, perché non hanno nessuna capacità di essere propositive. Noi di Emergency non abbiamo aderito alla marcia del 26 agosto e non aderiamo nemmeno alla marcia per la pace di Perugia-Assisi 2006. Insomma, noi non faremo più niente con nessuna organizzazione che abbia scelto la guerra riguardo sia all’Afghanistan sia al Libano.
Quand’anche un intervento militare fosse legittimo (cioè rispettoso delle vigenti leggi), da quando in qua la legalità e la legittimità sono dei valori di per sé? Io non sarei mai stato d’accordo sull’applicazione delle leggi razziali… Allora, dire che un intervento può anche essere legittimo, secondo i meccanismi che regolano l’Onu, non vuol dire che sia una scelta giusta.
Mi preoccupa questa tendenza, dilagante e quasi universale, che considera la politica estera come politica militare. Che ritiene il militarismo e gli interventi militari come l’unica opzione possibile, tanto da non voler provare strade diverse. Ormai si dà per scontato che dove c’è un problema si mandano i militari. Poi, sotto quale egida e con quali regole d’ingaggio, sono questioni marginali. Mi preoccupa che questa tendenza sia stata assunta da organizzazioni che fanno parte del movimento per la pace. Organizzazioni che, quando erano gli avversari politici a fare le guerre, avevano una posizione, mentre se sono gli amici politici a fare le guerre, come oggi, hanno una posizione diversa.
Che cosa dovrebbe fare il movimento della pace in questo momento?
C’è bisogno di riflessioni profonde. Ma la riflessione, se non è frutto di una pratica, non può avvenire. E qui casca l’asino. Un conto è una pratica che si risolve nell’organizzare la Perugia-Assisi, un conto è mettere in piedi, per esempio, una forza d’interposizione senza armi. Per farlo seriamente servono milioni di euro. A chi li chiediamo?
Sta dicendo che ognuno deve tornare a fare ciò che è capace di fare?
Ciascuno faccia il suo pezzettino di pratica di diritti umani, di dialogo, di pace, di solidarietà. Dove si lavora con certi atteggiamenti, si ottengono risultati. Lo abbiamo visto in tutti i paesi in guerra dove siano presenti: con il nostro lavoro abbiamo il rispetto di tutti.
Quindi il movimento per la pace deve rinunciare a rompere le scatole al governo, ai partiti, alla politica?
Il movimento è vasto e fa tante cose. Ci sono state organizzazioni che, prima sull’Afghanistan e poi sul Libano, hanno cambiato la rotta di 180°. Perché? Uno del movimento, Giulio Marcon, ha detto: «Il primo motivo ideale si chiama euro». Sono d’accordo. Qualcuno è stato assoldato dalla cooperazione italiana. Esempio. Tra le associazioni del coordinamento delle organizzazioni non governative italiane che lavorano in zona di guerra, ce n’è qualcuna che non sa distinguere un forno a microonde da un Kalashnikov… Aspetto soltanto che la situazione in Afghanistan si deteriori ancora un po’ e una ong, tipo Alisei, sparirà per sempre da Kabul, con grande sollievo degli afgani. Poi ci sono organizzazioni sponsorizzate in maniera evidente dai partiti: penso a Intersos e alla Margherita. Questo per dire che quel mondo lì ha rinunciato a essere di sprone e di critica alla politica. È accodato alla politica. Direi, a qualsiasi politica.
Lei ha un rapporto di amicizia con padre Zanotelli e don Ciotti. Stavolta avete posizioni diverse. Continuate a parlarvi?
Ho sentito Alex un paio di volte e devo dire che siamo sostanzialmente in sintonia, considerate le tante garanzie che ha chiesto per l’invio della forza d’interposizione in Libano. Ho cercato Luigi, dopo che avevo letto la posizione di Libera, per dirgli: «Sei impazzito»? Ma non l’ho ancora trovato. Credo che avremo modo di parlarci.
Però l’impasse c’è. Le organizzazioni vanno un po’ per conto loro…
Oppure vanno a gruppi in supporto alla politica. Guardiamo al flop del 26 agosto. La questura ha dato 1.000 partecipanti, gli organizzatori 2.000. E fin qui siamo nella fisiologia. Ma La Repubblica ha scritto 6.000. C’è stato un uso politico di quella manifestazione, che – intendiamoci – è stata messa in piedi per essere usata politicamente. Per me questa si chiama propaganda di guerra
Altro esempio: quando lanciammo nel settembre 2002 la campagna “Fuori l’Italia dalla guerra”, anche per sollecitazioni interne ed esterne a Emergency, decidemmo di farla insieme ad altri. C’erano quattro sigle: Emergency, Libera, Rete Lilliput, Tavola della Pace. Due mesi e mezzo dopo nasce repentinamente “fermiamolaguerra.it”, in cui ci sono dentro tutte quelle organizzazioni lì, più i partiti. Ma non noi. Come vogliamo chiamarla: subalternità alla politica, sudditanza, servilismo?
Emergency come intende muoversi?
L’impegno di Emergency nei prossimi anni è di costruire il movimento contro la guerra. Noi non ci chiameremo più pacifisti. Ne sto discutendo, tra gli altri, con Noam Chomski e Eduardo Galeano… Mi sembra che l’unica cosa che ha un senso oggi sia di trattare la guerra come è stata trattata la schiavitù: come una cosa ripugnante che deve essere buttata fuori dalla storia. È un problema di coscienze e di culture.
Se si riuscisse a far discutere l’Onu di questa questione (magari sollecitandolo con una lettera inviata da milioni di bimbi) sarebbe una bella cosa. L’Onu deve essere un interlocutore, anche se oggi sappiamo essere uno strumento nelle mani della Cia e di pochi altri. Oggi è un’Onu che non ha avuto la forza, dopo l’attacco all’Iraq, di convocare un’assemblea straordinaria e di proporre una mozione di espulsione di Stati Uniti e di tutti gli altri che si sono accodati.
Come giudica il quadro internazionale?
Siamo in una fase di militarismo con tendenze che mi ricordano la Germania del ’34-’35. Ormai la logica della guerra è stata accettata dalle coscienze. Qui bisogna riprendere in mano il pensiero di Einstein e di Bertrand Russell. Quando Einstein nel ’32 scrisse che la guerra non si può umanizzare ma si può solo abolire, lo presero per scemo… Oggi siamo ancora lì: nessuno vuol affrontare il problema.
Abolire la guerra non è un problema legislativo, ma di coscienza. Bisogna invertire questo processo e far penetrare nelle coscienze della gente l’idea che la guerra, cioè la violenza di massa, è ripugnante, degradante e disumana. La guerra è talmente contro natura che il potere deve impegnare tutte le sue forze, compresi i media, per convincerci che la guerra fa bene. Il potere arriva a chiamare pace la guerra. Oggi trovarsi in un conflitto internazionale nucleare è questione di un giorno. Il giorno prima non succede nulla, il giorno dopo uno ha tirato la bomba ed è successo tutto. E noi culturalmente dove siamo? Durante il processo di 15 anni di crescita del militarismo nazista c’era comunque chi pensava e agiva diversamente, chi si opponeva. Oggi nessuno si muove.
Questa è la tragedia.
Da www.nigrizia.it