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KOSOVO: IL 100% DEI SERBI HA VOTATO PER LA SECESSIONE
di STEFANO MAGNI
Il 17 febbraio 2008, il Kosovo ha dichiarato l’indipendenza dalla Serbia. Quattro anni fa è nata una nuova nazione indipendente (riconosciuta da un’ottantina di Paesi), con capitale Pristina, a maggioranza albanese.
Oggi i serbi che abitano nelle province settentrionali del nuovo Stato, hanno rifiutato esplicitamente di vivere sotto le nuove autorità di Pristina. Hanno espresso il loro parere con un referendum, durato due giorni, il 14 e il 15 febbraio, i cui risultati sono stati diffusi questa mattina. Il testo della scheda referendaria recita: “Accetti le istituzioni della cosiddetta Repubblica del Kosovo installata a Pristina?”. Il successo del “no” è plateale, sfiora l’unanimità: il 99,74% dei votati ha rifiutato la sovranità di Pristina. L’affluenza registrata è molto alta. Sui 35.500 aventi diritto al voto nelle quattro principali municipalità serbe del Nord (Zvecan, Zubin Potok, Leposavic e settore serbo di Kosovska Mitrovica) hanno votato, fra martedì e ieri 26.725 cittadini. Di essi 26.524 si sono detti contro Pristina. Espressa in termini percentuali, l’affluenza è stata del 75,28%. Non stiamo, comunque, parlando di tutta la minoranza serba del Kosovo, ma solo di quella che abita nelle aree settentrionali. Un’altra significativa enclave è a Sud, a Strpce, vicino al confine con la Macedonia. Gli altri loro connazionali sono sparsi in enclave più piccole sparse in tutto il Kosovo. In totale, i serbo-kosovari che hanno votato sono poco più di un quarto del totale (circa 120mila). Ma hanno il vantaggio di abitare in un’area compatta, geograficamente ed etnicamente, a ridosso della frontiera con la Serbia. Vi sarebbero, dunque, tutti i presupposti per una loro secessione dal Kosovo e una successiva riunificazione con la madrepatria.
Ma la madrepatria li rivuole indietro? Questo, più ancora che le autorità di Pristina e dell’Unione Europea (contrarissime al referendum), è il principale ostacolo per la minoranza serbo-kosovara. La maggior resistenza alla consultazione popolare arriva proprio da Belgrado, dove il presidente Boris Tadic si è ripetutamente espresso contro l’iniziativa. In una dichiarazione diffusa dalla presidenza a Belgrado nel giorno in cui si aprivano le urne, Tadic sottolineava di “comprendere il desiderio dei serbi del Nord del Kosovo di esprimere la loro volontà politica”, aggiungendo tuttavia che le istanze di governo locali non possono fare di più di quello che fa lo Stato nella ricerca di una soluzione ai problemi della popolazione del Kosovo. La decisione dei leader serbi del nord del Kosovo “può solo ridurre le potenzialità dello Stato, e non è nell’interesse dei serbi del Kosovo”. Belgrado, che pure non ha mai riconosciuto la legittimità della Repubblica del Kosovo, non vuol perdere la prerogativa del negoziato con l’Unione Europea per una soluzione territoriale. E non accetta di essere scavalcato da un’iniziativa locale. Le tappe per la trattativa internazionale sono già state calendarizzate e riconfermate ieri: il prossimo 21 febbraio vi sarà un nuovo round del dialogo serbo-europeo sul Kosovo. Per ora il principale interesse di Belgrado è l’ingresso nell’Unione Europea, un passo sostenuto dall’Italia e dalla Spagna, ma non dalla Germania e dal Regno Unito. Queste ultime due potenze sono difficili da convincere, per motivi di storia recente. La Germania è stata la prima a riconoscere l’indipendenza delle due prime repubbliche secessioniste della Jugoslavia (Slovenia e Croazia) nel 1991 e da lì fino alla fine delle guerre balcaniche è sempre stata in rotta di collisione con la Serbia. Il Regno Unito, poi, è stato il principale promotore sia dell’intervento Nato in Bosnia nel 1995, si di quello in Kosovo nel 1999: in entrambi i casi contro la Serbia. Londra e Berlino sono difficili da persuadere e a Belgrado sanno che non possono scivolare sulla buccia di banana del Kosovo. Lo dice a chiare lettere il ministro serbo per gli affari kosovari Goran Bogdanovic: “Il referendum potrebbe menomare la nostra credibilità e la capacità di negoziare con la comunità internazionale – diceva l’altro ieri – Sappiamo già quale sarà il responso delle urne perché siamo tutti contrari all’indipendenza del Kosovo”.
Solo l’opposizione nazionalista serba è favorevole al referendum e lo sta cavalcando per guadagnare consensi nel Paese, mostrandosi come l’unica interessata a difendere i connazionali. Ma i nazionalisti, alla fine, propongono l’improponibile: la ri-annessione dell’intero Kosovo alla Serbia. E questo programma è ormai impossibile, considerando che, a parte le quattro municipalità serbe (più le enclave minori), tutto il resto del Kosovo è abitato da una popolazione che, in percentuali che vanno dall’85% al 95%, è costituita da albanesi. Che non hanno alcuna intenzione di rinunciare alla loro indipendenza e tornare sotto Belgrado.
“A nome del popolo americano mi congratulo con voi per il quarto anniversario del giorno dell’indipendenza”, ha scritto il presidente statunitense Barack Obama nel telegramma fatto pervenire al capo di Stato kosovaro proprio ieri. “Alla luce del vostro impegno verso l’integrazione europea e nel proseguire la riforma politica, economica e dello stato di diritto, sono convinto che il Kosovo riuscirà a garantire la sua piena integrazione nella comunità euro-atlantica”. Ma prima dovrà pensare alla sua integrazione interna, verrebbe da aggiungere. Perché, da ieri, almeno una cosa è chiara: il Kosovo sono due piccole nazioni in uno Stato. Finché non verranno prese in seria considerazione ipotesi di larghissima autonomia, o di revisione dei confini, di auto-determinazione locale e di federalismo flessibile (in cui ogni municipalità ha diritto a secedere e riunirsi ad altre entità sovrane), sarà molto difficile ricomporre il conflitto fra le due nazionalità. Il referendum mostra che non si è placato neppure dopo 13 anni di pace instabile, seguiti alla guerra civile del Kosovo, nonostante la presenza di contingenti internazionali di peacekeeping. Si rischierà di ripetere, su scala molto più ridotta, la stessa crisi che portò alla disintegrazione della vecchia Jugoslavia.
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