Perché solo il calcio ci rende furiosi (interessante!)

melodia

Forumer storico
Desmond Morris, il celebre etologo della Scimmia nuda, lo ha studiato fin dagli anni Settanta, per giungere a conclusioni piuttosto disarmanti: «Considerato obiettivamente - scriveva in Le tribù del calcio, questo sport - è una delle più strane costanti di comportamento umano della società moderna. Pubblicato nel lontano ‘82. Letto oggi, «strano» suona come un eufemismo, anche tenuto conto di quelli che lo studioso definiva gli «aspetti tribali» del tifo, per cui «ogni settimana, i tifosi uccidono una grande preda e il momento dell’uccisione è rappresentato dal goal. Quando la palla colpisce la rete, è come se la tribù avesse ucciso un temibile animale e tutti allora possono festeggiare l’avvenimento». Negli anni, la «grande preda» ha aggiunto al suo aspetto simbolico quello reale, e può accadere che il tifo uccida veramente. Ma perché proprio il calcio, e non gli altri sport, per non parlare di tutte le varie occasioni in cui si raduna una grande folla? Che cos’hanno di diverso, le «tribù del calcio» rispetto, poniamo, a quelle del rock? Il fenomeno è stato studiato a lungo, si sono tirate in ballo interpretazioni psicoanalitiche o antropologiche, sottolineandone ad esempio le implicazioni sessuali, eppure ogni volta ci si ritrova più o meno con le stesse analisi, cui non si sa se credere e fino a che punto. E soprattutto non si capisce se possano servire a qualcosa. La variante assassina del «famolo strano», della guerra privata - o per procura - rimane uno strano interrogativo con troppe riposte, e con nessuna.

Persino uno scrittore come Alessandro Piperno (Con le peggiori intenzioni è stato il romanzo che l’ha rivelato per Mondadori) grande cultore di Proust - quindi dell’introspezione - e nel calcio appassionatissimo laziale, alla fin fine non sa bene come prenderla, la questione. «In qualche modo c’è una bestia che è in me, e quando vado allo stadio si fa sentire - riflette -. Confesso di aver mandato a quel paese, alla fine di un derby, un tizio della Roma che era pure un disabile... Nella vita normale non mi accadrebbe mai. Lo stadio è una sorta di luogo franco, ma non saprei bene perché». Un luogo distante da tutto, un altrove: anche perché, osserva Piperno, «sarebbe difficile renderlo epico da un punto di vista letterario, com’è accaduto per esempio al baseball», nonostante la molta letteratura che gli è stata dedicata. Un luogo di «grandi passioni che restano impronunciate». Qualcosa come l’incoscio? Mica tanto, obietta il sociologo Alessandro Dal Lago, autore di uno studio importante (Descrizione di una battaglia, ovvero I rituali del calcio, pubblicato dal Mulino) e continuamente citato. «La violenza è intrinseca al gioco, ma a causa della sua evoluzione storica. Nel basket, ad esempio, c’è sì un forte tasso di violenza simbolica, però i luoghi dove si gioca sono molto più piccoli, lo sport è meno popolare». Se c’è un problema specifico del calcio, allora, è che si tratta «dello sport in cui si identifica da un secolo la gioventù», cosa che non è accaduta per nessuna altra attività. «Anzi, non è più uno sport ma uno spettacolo che include anche uno sport e nello stesso tempo con i suoi proventi mantiene tutti gli altri. È diventato una specie di super-bolla socio-simbolica, con tanto di follia parossistica alimentata dalla “calciologia” di cui tutti facciamo parte, lei che scrive un articolo e io che risponde alle sue domande». Con il risultato di creare una sotto-cultura impermeabile alle altre? «Una società nella società, con regole, paranoie e interessi».

Ancora una volta, una «zona franca», che ad esempio, prosegue Del Lago, non esiste in America dove pure la società è molto violenta ma il football ha una funzione di intermezzo ludico - oltre che molto sorvegliato. «Da noi è l’inverso: la società è meno violenta, e il calcio diventa il luogo della violenza espressiva, che talvolta diventa materiale». Se Piperno, finissimo lettore di Proust e di Baudelaire, cui ha dedicato un saggio monumentale, in uscita per l’editore Gaffi, ammette che, quando entra allo stadio finisce per provare «più odio che amore», Edmondo Berselli (Il più mancino dei tiri, prima col Mulino poi con Mondadori, è il suo saggio sul calcio come specchio della società) invita ad attenerci al piano fenomenologico. «In fondo le interpretazioni antropologiche vanno bene per qualunque sport. La gara, la guerra, la lotta per prevalere e via dicendo: tragedia greca. Il problema è che si raccolgono masse molto grandi, che in Italia vanno dalle élite al sottoproletariato urbano». Un bel calderone di istinti. «Già, è perché il calcio li scatena? Perché sono stati sempre tollerati, nel calcio e solo nel calcio. Lo schema dei pochi imbecilli che rovinano la festa di tutti, alla Brera, ha sempre funzionato benissimo, impedendo così di affrontare i problemi alla radice». Sono serviti cent’anni, ma alla fine siamo riusciti a costruire, a colpi di sottostima e di ipocrisia, la zona franca dove liberare le scimmie di Desmond Morris. Forse non è colpa del gioco in sé, delle sue regole, della sua logica, ma dell’impegno che storicamente è stato profuso per generare il mostro. Mica male, come risultato: dopo un lungo travaglio, la «zona franca» ha partorito Frankenstein.

Mario Baudino
Fonte: www.lastampa.it
 

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