Lunedì a Ginevra si è sancito il fallimento dei negoziati commerciali del Doha Round condotti nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). A nulla è servito l’appello del G8, lanciato pochi giorni orsono da San Pietroburgo, per cercare di rilanciare le trattative per la liberalizzazione degli scambi commerciali. Nessuno dei Grandi, ed in particolare Stati Uniti ed Unione Europea, aveva mostrato un grande impegno per sbloccare la situazione di stallo delle trattative e quindi da tempo era facile prevedere questo esito finale.
Il gioco delle schermaglie diplomatiche ha comunque fatto sì che la responsabilità finale del fallimento venisse addossata, da Bruxelles e dai paesi emergenti, agli Stati Uniti, poiché la delegazione americana, a differenza delle altre, non avrebbe presentato a Ginevra alcuna nuova concessione per sbloccare i negoziati. Di chiunque sia la responsabilità, sta di fatto che se «il Doha Round non è morto, è comunque fra la rianimazione e il crematorio», come ha sintetizzato efficacemente il ministro indiano Kamal Nath, e che il suo fallimento rimette in gioco anche le prospettive del processo di liberalizzazione degli scambi commerciali.
Può essere quindi utile cercare di analizzare le ragioni di questo fallimento e di azzardare alcune ipotesi per il futuro.
Il fallimento dei negoziati ha cause ben più profonde delle divergenze sulla liberalizzazione degli scambi dei prodotti agricoli. Infatti, se è indubitabile che i gruppi di pressione americani ed europei che fanno capo al mondo agricolo, hanno usato il loro peso politico perché non venissero fatte concessioni, è altrettanto indubitabile che il mondo dell’economia non ha mostrato un grande impegno nel successo di questi negoziati. Non sorprende quindi che molti governi non siano stati disposti ad investire un «grande capitale politico» in queste trattative, anche perché consapevoli del crescente disincanto nei confronti del processo di globalizzazione che rischia addirittura di trasformarsi in un’aperta opposizione, con l’invocazione di misure protezionistiche, come già hanno fatto gli industriali americani ed europei del settore del tessile e dell’abbigliamento che si sentono minacciati dalla concorrenza dei paesi a bassi salari.
Il disincanto riguarda anche la maggioranza della popolazione che avverte che la liberalizzazione degli scambi commerciali è coincisa con una maggiore insicurezza economica e con una pressione al ribasso sui livelli salariali. Basti pensare che negli Stati Uniti il salario mediano dei lavoratori è sceso in termini reali complessivamente del 3,2% negli ultimi cinque anni, ossia dall’ottobre del 2001 quando è iniziata la ripresa dell’economia americana. Questo fenomeno tocca paradossalmente anche i paesi emergenti, che sono meno aperti di quanto comunemente si creda. Ad esempio, l’India non ha accettato riduzioni delle proprie tariffe doganali, poiché teme di veder invaso il proprio mercato dai beni industriali cinesi e perché teme che le importazioni di prodotti agricoli mettano in ginocchio milioni di contadini indiani che vivono ai limiti della sopravvivenza.
In queste condizioni appare difficile ipotizzare il rilancio tra alcuni anni del Doha Round, anche perché le tensioni geostrategiche non inducono un clima di cooperazione e anche perché le difficoltà e lo scarso impegno americani fanno mancare quella leadership politica indispensabile per il successo di negoziati così complessi. In gioco è addirittura la stessa sopravvivenza del WTO e degli accordi commerciali finora conclusi. L’intero «castello» potrebbe crollare se un paese importante non accettasse una decisione dell’organizzione con sede a Ginevra su una disputa commerciale.
Ma non è questo lo scenario più probabile. Non è nemmeno probabile che l’attuale moltiplicazione degli accordi commerciali bilaterali abbia un grande futuro. E’ invece ipotizzabile che gli accordi del WTO finora conclusi fungano da quadro di riferimento generale degli scambi commerciali internazionali, ma che nel contempo si formino blocchi economici e commerciali omogenei, che offrano ai paesi membri condizioni di favore, come è il caso dell’Unione Europea e anche del NAFTA, che include Stati Uniti, Canada e Messico. E’ quanto si sta intravvedendo nel faticoso e difficile processo di allargamento del Mercosur in America Latina, ma è quanto soprattutto si sta prospettando in Asia con l’accordo tra Asean, che raggruppa i paesi del Sud-Est asiatico, e Cina per la formazione di un mercato unico che avrebbe rapporti preferenziali con i paesi africani e dell’America Latina.
Il fallimento dei negoziati del Doha Round rappresenta dunque una sconfitta politica della globalizzazione, così come finora si è manifestata, ma apre probabilmente la strada alla formazione di grandi blocchi economici e commerciali più omogenei e, quindi, in grado di ridefinire un contratto sociale che l’attuale processo di globalizzazione ha mandato in crisi.
Il gioco delle schermaglie diplomatiche ha comunque fatto sì che la responsabilità finale del fallimento venisse addossata, da Bruxelles e dai paesi emergenti, agli Stati Uniti, poiché la delegazione americana, a differenza delle altre, non avrebbe presentato a Ginevra alcuna nuova concessione per sbloccare i negoziati. Di chiunque sia la responsabilità, sta di fatto che se «il Doha Round non è morto, è comunque fra la rianimazione e il crematorio», come ha sintetizzato efficacemente il ministro indiano Kamal Nath, e che il suo fallimento rimette in gioco anche le prospettive del processo di liberalizzazione degli scambi commerciali.
Può essere quindi utile cercare di analizzare le ragioni di questo fallimento e di azzardare alcune ipotesi per il futuro.
Il fallimento dei negoziati ha cause ben più profonde delle divergenze sulla liberalizzazione degli scambi dei prodotti agricoli. Infatti, se è indubitabile che i gruppi di pressione americani ed europei che fanno capo al mondo agricolo, hanno usato il loro peso politico perché non venissero fatte concessioni, è altrettanto indubitabile che il mondo dell’economia non ha mostrato un grande impegno nel successo di questi negoziati. Non sorprende quindi che molti governi non siano stati disposti ad investire un «grande capitale politico» in queste trattative, anche perché consapevoli del crescente disincanto nei confronti del processo di globalizzazione che rischia addirittura di trasformarsi in un’aperta opposizione, con l’invocazione di misure protezionistiche, come già hanno fatto gli industriali americani ed europei del settore del tessile e dell’abbigliamento che si sentono minacciati dalla concorrenza dei paesi a bassi salari.
Il disincanto riguarda anche la maggioranza della popolazione che avverte che la liberalizzazione degli scambi commerciali è coincisa con una maggiore insicurezza economica e con una pressione al ribasso sui livelli salariali. Basti pensare che negli Stati Uniti il salario mediano dei lavoratori è sceso in termini reali complessivamente del 3,2% negli ultimi cinque anni, ossia dall’ottobre del 2001 quando è iniziata la ripresa dell’economia americana. Questo fenomeno tocca paradossalmente anche i paesi emergenti, che sono meno aperti di quanto comunemente si creda. Ad esempio, l’India non ha accettato riduzioni delle proprie tariffe doganali, poiché teme di veder invaso il proprio mercato dai beni industriali cinesi e perché teme che le importazioni di prodotti agricoli mettano in ginocchio milioni di contadini indiani che vivono ai limiti della sopravvivenza.
In queste condizioni appare difficile ipotizzare il rilancio tra alcuni anni del Doha Round, anche perché le tensioni geostrategiche non inducono un clima di cooperazione e anche perché le difficoltà e lo scarso impegno americani fanno mancare quella leadership politica indispensabile per il successo di negoziati così complessi. In gioco è addirittura la stessa sopravvivenza del WTO e degli accordi commerciali finora conclusi. L’intero «castello» potrebbe crollare se un paese importante non accettasse una decisione dell’organizzione con sede a Ginevra su una disputa commerciale.
Ma non è questo lo scenario più probabile. Non è nemmeno probabile che l’attuale moltiplicazione degli accordi commerciali bilaterali abbia un grande futuro. E’ invece ipotizzabile che gli accordi del WTO finora conclusi fungano da quadro di riferimento generale degli scambi commerciali internazionali, ma che nel contempo si formino blocchi economici e commerciali omogenei, che offrano ai paesi membri condizioni di favore, come è il caso dell’Unione Europea e anche del NAFTA, che include Stati Uniti, Canada e Messico. E’ quanto si sta intravvedendo nel faticoso e difficile processo di allargamento del Mercosur in America Latina, ma è quanto soprattutto si sta prospettando in Asia con l’accordo tra Asean, che raggruppa i paesi del Sud-Est asiatico, e Cina per la formazione di un mercato unico che avrebbe rapporti preferenziali con i paesi africani e dell’America Latina.
Il fallimento dei negoziati del Doha Round rappresenta dunque una sconfitta politica della globalizzazione, così come finora si è manifestata, ma apre probabilmente la strada alla formazione di grandi blocchi economici e commerciali più omogenei e, quindi, in grado di ridefinire un contratto sociale che l’attuale processo di globalizzazione ha mandato in crisi.