Macroeconomia Quando Pechino sostiene Washington

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DEBITO ESTERO USA
Quando Pechino sostiene Washington
JOSEPH HALEVI

Ogni volta che il deficit estero Usa stabilisce un nuovo record, si riapre il discorso sulle sue cause e sulla sua sostenibilità. Per Ben Bernanke le ragioni del deficit Usa si situano al di fuori dell'economia nazionale (si veda il suo discorso alla Virginia Association of Economics il 10 marzo del 2005 e rintracciabile sul sito del Federal Reserve Board). Bernanke sposta l'attenzione sui fattori che hanno portato le economie emergenti all'accumulazione di eccedenze nella bilancia dei pagamenti corrente. Egli nega che il deficit estero sia da ascrivere al deficit della spesa pubblica in quanto, osserva giustamente, l'ulteriore crescita del deficit nei conti correnti Usa avvenne nel periodo 1996-2000 quando il bilancio pubblico tendeva al surplus. In secondo luogo viene sminuita la tesi secondo la quale i paesi con un maggior tasso di invecchiamento della popolazione tenderebbero naturalmente verso un tasso di risparmio elevato che, in un'economia aperta, si tradurrebbe in un surplus nei conti correnti. Italia, Spagna e Gran Bretagna, tutti paesi in cui il deficit estero è andato ampliandosi, mostrano che non esiste alcuna relazione sistematica tra invecchiamento ed eccedenza di risparmio estero che dovrebbe manifestarsi attraverso un surplus nei conti correnti. Per Bernanke, la causa del deficit estero statunitense risiede nel fatto che le economie emergenti sono passate da una posizione di deficit ad una di surplus. Ed é con queste economie che gli Usa hanno il grosso del deficit estero. La metamorfosi dei paesi emergenti dell'Asia e dell'America latina da debitori netti a creditori netti é imputata alle crisi finanziarie degli anni Novanta che hanno indotto questi paesi a comportarsi in maniera conservatrice esportando ed accumulando riserve. Per Bernanke, quindi, le cause del deficit estero sono prevalentemente esterne agli Usa, pertanto relativamente indipendenti dalle misure di politica interna. Washington dovrebbe quindi facilitare il rientro degli «emergenti» nel mercato mondiale dei capitali. In soldoni, essi devono riprendere la via dell'indebitamento assobendo piuttosto che esportando capitali.

Ma non è stato proprio questo a creare le crisi degli anni Novanta? Certo, riconosce Bernanke, ma allora operavano pratiche poco chiare, oggi invece con una politica fondata sulla trasparenza si possono formulare politiche che, senza eccessive scosse, riportino l'ordine mondiale al suo stato naturale, ove i paesi ricchi sono i principali fornitori di capitali.
Tuttavia, la voragine nei conti esteri Usa si è aperta in concomitanza con l'indebitamento degli emergenti e non dopo, come invece erroneamente sostiene Bernanke. Secondo l'Economic Report for the Presdident del 2005, il deficit della bilancia commerciale statunitense nel 1981 era di 16 miliardi di dollari, mentre la posizione del complesso dei conti con l'estero - che include servizi e pagamenti vari - mostrava addirittura un attivo di cinque miliardi. Nel 1987, in piena esplosione del debito estero messicano, e sudamericano, il passivo commerciale statunitense superava i 159 miliardi mentre l'insieme dei conti correnti esibiva un deficit di 160 miliardi mostrando che i settori dei servizi e quelli finanziari non colmavano più il buco causato dalle importazioni di merci.
Negli anni Ottanta si avviano, prevalentemente nei confronti del Messico e, per l'elettronica, nei confronti dell'Asia orientale, i processi di delocalizzazione e di subappalto (outsourcing) che trasfromano gli Usa in un'economia globale di importazione. Tale tendenza si estende su scala mega dimensionale con gli investimenti, diretti ed indiretti, delle multinazionali in Cina soprattutto dopo la crisi asiatica e l'esplosione della bolla di Wall Street nel 2000. Parallelamente alla deindustrializzazione, si effettua la trasmigrazione dei lavoratori americani verso settori commerciali e di servizi a bassi salari ed a basse condizioni sociali.
E' quello che il New York Times ha correttamente chiamato the Walmartization of America: bassi salari alla produzione grazie all'otsourcing in Cina e bassi salari ai punti di vendita.
Il deficit degli Stati uniti si spiega con l'opportunità che, grazie alla sua posizione imperialistica, si è aperta al capitale Usa di aggirare la propria base produttiva nazionale usando i bassi salari e costi di produzione nei paesi emergenti. Anche la fase inziale, prevalentemente circoscritta al Messico e a certe zone dell'Asia Orientale, non sarebbe stata possibile senza l'aggressione al lavoro industriale lanciata da Volcker e Reagan agli albori degli anni Ottanta.
La poltica del governo comunista di Pechino permette la trasformazione di questa tendenza in un processo globale e fintanto che i comunisti cinesi sono interessati a questo stato di cose, la sostenibilità del deficit, sebbene non assicurata, viene a sua volta facilitata.
 

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