tontolina
Forumer storico
«Lo smart working produrrà effetti drammatici e irreversibili»
Il sindacalista Savino Balzano, autore del libro «Contro lo smart working», analizza al DiariodelWeb.it le problematiche create dal cosiddetto lavoro agile
Uno dei grandi cambiamenti introdotti nella società italiana dallo sconvolgimento della pandemia da coronavirus è la diffusione capillare dello smart working. Uno strumento presentato come la soluzione per evitare gli assembramenti negli uffici e finanche i costi e lo stress degli spostamenti da casa al luogo di lavoro. Ma che rischia di avere, sul lungo termine, effetti negativi molto superiori a quelli favorevoli. Al DiariodelWeb.it lo spiega il sindacalista Savino Balzano, autore del libro «Contro lo smart working», edito da Laterza.
Savino Balzano, perché lei è contro lo smart working?
Partiamo da un presupposto: da tempo mi occupo di lavoro, ma ho cercato fin da subito di assumere una prospettiva differente rispetto all'impostazione dominante. Normalmente si guarda al singolo lavoratore e si guarda a quali diritti aveva prima e quali ha adesso. Questo approccio non è sbagliato, ma è estremamente limitato. Perché si può rispondere che quello a cui eravamo abituati prima non ce lo possiamo più permettere, che i tempi sono cambiati, che queste rivendicazioni sono antistoriche...
Qual è invece la sua ottica?
È collettiva, politica. Cerco di dimostrare come la precarietà sui luoghi di lavoro vada ad inficiare la capacità delle persone di contrastare le ingiustizie e rivendicare migliori condizioni. Pensiamo alle morti sul lavoro: le norme ci sono, ma non sono esigibili. In altre parole, se c'è un cavo scoperto, il lavoratore tenderà a stare zitto, per paura di perdere il posto.
Se siamo tutti più precari, dunque, anche le leggi rimangono solo sulla carta.
Sono solo formali e non materiali. Lo smart working interviene fortissimamente sulla comunità del lavoro, per questo ha una dimensione politica senza precedenti. Il suo impatto è ancora più forte della precarietà. Il lavoratore è nella solitudine della sua stanza, non è vicino ai colleghi e magari nemmeno li conosce, non può nutrire solidarietà verso di loro: così la comunità non si forma. E, di conseguenza, non può arginare gli effetti negativi del rapporto di lavoro.
Ci si isola e si diventa più deboli e indifesi nei confronti del datore di lavoro?
Esatto, assolutamente.
Ma senza contatto umano tra i lavoratori non si generano neanche il confronto, l'interscambio di competenze, la creatività, l'insorgenza di nuove idee. Così facendo, anche l'azienda non rischia di perdere dei valori?
Anche secondo me, con il lavoro agile generalizzato, l'azienda si impoverisce. Spesso la visione è miope, si ritiene che la semplice riduzione dei costi o delle complicazioni dei rapporti sia sempre un vantaggio. In realtà, molte imprese ci hanno rimesso dalla precarietà, perché è demotivante. Poi magari i datori di lavoro proveranno a mettere le toppe, almeno rispetto agli scambi di contenuti che riguardano il lavoro. È la socialità che viene meno, invece, a preoccuparmi di più, perché non rientra negli interessi aziendali.
Ci sono anche degli altri effetti negativi provocati dallo smart working?
Sono tutti i giorni a contatto con i lavoratori e li ascolto. In materia di salute e sicurezza c'è un netto peggioramento, non viene rispettata la disconnessione e le ore di lavoro aumentano enormemente, quindi cresce lo stress fisico e mentale.
Cioè non c'è mai il momento in cui si stacca dal lavoro, si torna a casa e si pensa ad altro?
Quello bisogna proprio scordarselo. Prima di tutto perché lo smart working, proprio come forma giuridica, non prevede la definizione netta dell'orario di lavoro. Ma addirittura il piano Colao e l'accordo sul lavoro nella pubblica amministrazione puntano a superare lo stesso concetto di tempo massimo di lavoro. Quindi anche l'idea secondo cui lo smart working potrebbe far conciliare meglio i tempi di vita e di lavoro è assolutamente farlocca. Tanto è vero che a spingere fortemente verso lo smart working sono i datori di lavoro: per quale motivo dovrebbero avere l'interesse a diminuire i tempi di lavoro?
Insomma, si è utilizzato il grimaldello della pandemia per introdurre questa novità, che poi sarà mantenuta anche dopo la conclusione dell'emergenza?
Sì, io penso questo. Ma non è questo il punto. Se lo smart working restasse uno strumento residuale, come fu introdotto nel 2017, quando il tempo massimo era di pochi giorni al mese, per quanto mi riguarda possiamo adoperarlo, normando come si deve tutte le sue criticità. Ma se diventasse il nuovo paradigma del lavoro, allora sarebbe qualcosa di completamente nuovo e inedito. E gli effetti politici di disgregazione della comunità del lavoro sarebbero drammatici e irreversibili. Quando Fantozzi, nel film, si rende conto di essere stato sempre fregato, allora cerca di organizzarsi con il famoso Folagra. Ma se ci si ritrova da soli in una stanza, organizzare azioni di contrasto non è più possibile. Come farà un lavoratore che subisce un'ingiustizia a sapere che c'è un sindacalista di cui si può fidare e a cui si può rivolgere?
Il sindacalista Savino Balzano, autore del libro «Contro lo smart working», analizza al DiariodelWeb.it le problematiche create dal cosiddetto lavoro agile
Uno dei grandi cambiamenti introdotti nella società italiana dallo sconvolgimento della pandemia da coronavirus è la diffusione capillare dello smart working. Uno strumento presentato come la soluzione per evitare gli assembramenti negli uffici e finanche i costi e lo stress degli spostamenti da casa al luogo di lavoro. Ma che rischia di avere, sul lungo termine, effetti negativi molto superiori a quelli favorevoli. Al DiariodelWeb.it lo spiega il sindacalista Savino Balzano, autore del libro «Contro lo smart working», edito da Laterza.
Savino Balzano, perché lei è contro lo smart working?
Partiamo da un presupposto: da tempo mi occupo di lavoro, ma ho cercato fin da subito di assumere una prospettiva differente rispetto all'impostazione dominante. Normalmente si guarda al singolo lavoratore e si guarda a quali diritti aveva prima e quali ha adesso. Questo approccio non è sbagliato, ma è estremamente limitato. Perché si può rispondere che quello a cui eravamo abituati prima non ce lo possiamo più permettere, che i tempi sono cambiati, che queste rivendicazioni sono antistoriche...
Qual è invece la sua ottica?
È collettiva, politica. Cerco di dimostrare come la precarietà sui luoghi di lavoro vada ad inficiare la capacità delle persone di contrastare le ingiustizie e rivendicare migliori condizioni. Pensiamo alle morti sul lavoro: le norme ci sono, ma non sono esigibili. In altre parole, se c'è un cavo scoperto, il lavoratore tenderà a stare zitto, per paura di perdere il posto.
Se siamo tutti più precari, dunque, anche le leggi rimangono solo sulla carta.
Sono solo formali e non materiali. Lo smart working interviene fortissimamente sulla comunità del lavoro, per questo ha una dimensione politica senza precedenti. Il suo impatto è ancora più forte della precarietà. Il lavoratore è nella solitudine della sua stanza, non è vicino ai colleghi e magari nemmeno li conosce, non può nutrire solidarietà verso di loro: così la comunità non si forma. E, di conseguenza, non può arginare gli effetti negativi del rapporto di lavoro.
Ci si isola e si diventa più deboli e indifesi nei confronti del datore di lavoro?
Esatto, assolutamente.
Ma senza contatto umano tra i lavoratori non si generano neanche il confronto, l'interscambio di competenze, la creatività, l'insorgenza di nuove idee. Così facendo, anche l'azienda non rischia di perdere dei valori?
Anche secondo me, con il lavoro agile generalizzato, l'azienda si impoverisce. Spesso la visione è miope, si ritiene che la semplice riduzione dei costi o delle complicazioni dei rapporti sia sempre un vantaggio. In realtà, molte imprese ci hanno rimesso dalla precarietà, perché è demotivante. Poi magari i datori di lavoro proveranno a mettere le toppe, almeno rispetto agli scambi di contenuti che riguardano il lavoro. È la socialità che viene meno, invece, a preoccuparmi di più, perché non rientra negli interessi aziendali.
Ci sono anche degli altri effetti negativi provocati dallo smart working?
Sono tutti i giorni a contatto con i lavoratori e li ascolto. In materia di salute e sicurezza c'è un netto peggioramento, non viene rispettata la disconnessione e le ore di lavoro aumentano enormemente, quindi cresce lo stress fisico e mentale.
Cioè non c'è mai il momento in cui si stacca dal lavoro, si torna a casa e si pensa ad altro?
Quello bisogna proprio scordarselo. Prima di tutto perché lo smart working, proprio come forma giuridica, non prevede la definizione netta dell'orario di lavoro. Ma addirittura il piano Colao e l'accordo sul lavoro nella pubblica amministrazione puntano a superare lo stesso concetto di tempo massimo di lavoro. Quindi anche l'idea secondo cui lo smart working potrebbe far conciliare meglio i tempi di vita e di lavoro è assolutamente farlocca. Tanto è vero che a spingere fortemente verso lo smart working sono i datori di lavoro: per quale motivo dovrebbero avere l'interesse a diminuire i tempi di lavoro?
Insomma, si è utilizzato il grimaldello della pandemia per introdurre questa novità, che poi sarà mantenuta anche dopo la conclusione dell'emergenza?
Sì, io penso questo. Ma non è questo il punto. Se lo smart working restasse uno strumento residuale, come fu introdotto nel 2017, quando il tempo massimo era di pochi giorni al mese, per quanto mi riguarda possiamo adoperarlo, normando come si deve tutte le sue criticità. Ma se diventasse il nuovo paradigma del lavoro, allora sarebbe qualcosa di completamente nuovo e inedito. E gli effetti politici di disgregazione della comunità del lavoro sarebbero drammatici e irreversibili. Quando Fantozzi, nel film, si rende conto di essere stato sempre fregato, allora cerca di organizzarsi con il famoso Folagra. Ma se ci si ritrova da soli in una stanza, organizzare azioni di contrasto non è più possibile. Come farà un lavoratore che subisce un'ingiustizia a sapere che c'è un sindacalista di cui si può fidare e a cui si può rivolgere?