Venerdì 31 Agosto 2007, 8:51
Il Rosso e il Nero - Correva l'anno – Il panico del 1907 e il repricing del 2007
Di Alessandro Fugnoli
E' molto di moda, in questi giorni, paragonare la crisi attuale con quella del 1907. Un libro è appena uscito (R. Burner, S. Carr. The Panic of 1907. Lessons Learned from the Market's Perfect Storm), ma studi più tecnici (ma di lettura affascinante) sono disponibili sul sito della Fed di Atlanta.
Il terremoto di San Francisco del 1906 costrinse i Lloyds di Londra a grandi risarcimenti. La Bank of England cercò in tutti i modi di rallentare il conseguente deflusso di oro verso gli Stati Uniti. La carenza di liquidità fu complicata da un cattivo raccolto e da difficoltà legate al fallimento di operazioni speculative legate al
In questo quadro già teso maturò la crisi di fiducia nei trust. I trust avevano perso, negli anni precedenti, la loro natura di stumento tranquillo di amministrazione di patrimoni e eredità e avevano iniziato a sfruttare il basso livello di regolamentazione cui (a differenza delle banche nazionali) erano sottoposti per assumere un profilo sempre più speculativo. Il loro successo era stato tale che, nel 1907, avevano raggiunto le stesse dimensioni, per asset, delle grandi banche nazionali.
In ottobre la crisi di fiducia si trasformò in panico e ci fu una corsa a chiudere i conti presso i trust. Le crisi bancarie erano una malattia endemica nel capitalismo di quel tempo, ma si era imparato in qualche modo ad attenuare il fenomeno facendo ricorso a quello che allora, nei tempi severi del Gold Standard (GOLS.OB - notizie) , si chiamava denaro elastico o denaro d'emergenza. Si trattava di credito a breve straordinario emesso dalla stanza di compensazione delle grandi banche e destinato ai membri in difficoltà.
I trust, tuttavia, non erano membri della stanza. Non lo erano perché non volevano soggiacere agli obblighi di riserva. Abbandonati a sé stessi molti di loro fallirono o, semplicemente, si svuotarono.
La crisi di liquidità spinse i tassi a breve al 125 per cento. La borsa scese del 45 per cento e la produzione industriale del 30 (l'anno dopo tutto fu recuperato). La Fed non fece nulla per la semplice ragione che non esisteva. Le grandi banche si erano sempre opposte alla sua creazione anche perché, nelle crisi bancarie, avevano puntualmente guadagnato quote di mercato e prestato soldi a tassi molto alti. La crisi del 1907 convinse però John Pierpont Morgan a cambiare idea e a lavorare con il Congresso per allargare la stanza di compensazione e farla diventare nel 1913 il Sistema della Riserva Federale.
Le analogie con il 2007 sono, per chi crede di vederle, due. La prima è che i trust di allora sono gli hedge fund di oggi. E' vero che gli asset degli hedge fund sono oggi inferiori rispetto a quelli delle banche, mentre allora i trust erano arrivati alle stesse dimensioni, ma oggi c'è un effetto leva che allora mancava. La seconda analogia è nella natura della crisi, individuata come tipica crisi di panico che tanto rapidamente inizia e incide sull'economia reale quanto velocemente rientra. Sarebbe stato così anche nel 1929 se, ironia della storia, quella Fed creata per evitare le crisi brevi non ne avesse creata una lunghissima con i suoi errori.
Le analogie tra 1907 e 2007 sono suggestive, ma insistervi troppo per trarne degli insegnamenti può essere fuorviante. Attribuire agli hedge fund (o alle agenzie di rating) chissà quali colpe è ingeneroso e, soprattutto, non coglie nel segno, come dire che la causa della prima guerra mondiale e della dissoluzione di quattro imperi fu l'assassinio a Sarajevo dell'arciduca Franz Ferdinand. Parlare poi esclusivamente di crisi di panico fa perdere di vista fattori strutturali come il più che dovuto repricing di certi asset e la maturità del ciclo.
Ha semmai più senso riflettere sui possibili errori delle banche centrali, perché qui è il cuore del problema.
Oggi molti sostengono che i problemi di bolla immobiliare e di squilibrio strutturale tra Stati Uniti e resto del mondo derivano dall'errore di avere abbassato troppo i tassi nel 2000-2001. Questa scelta, però, non è mai stata ammessa come errore dalle banche centrali. Bernanke, nei suoi famosi interventi sul 1929 e sulla deflazione giapponese, l'ha avallata di fatto, fornendole un robusto supporto teorico.
Dove le banche centrali hanno forse dei ripensamenti, dunque, non è sulla politica aggressiva da seguire nei momenti di recessione, ma su quella accomodante nella parte matura, ma non terminale del ciclo. Sono i tre tagli del 1987 e i tre tagli del 1998 che bruciano o, quanto meno, il non averli ripresi indietro più in fretta.
Certo, il Bernanke del 2002 (Asset Price Bubbles and Monetary Policy, 15 ottobre 2002) rende omaggio alle scelte del suo capo Greenspan nel 1987 e nel 1998 ma, significativamente, non si sofferma sul ritiro (tardivo) dei tre tagli.
Non c'è bisogno di essere degli scienziati comportamentali per sapere che gli esseri umani tendono a non ripetere l'errore dell'ultima volta. Per non ripeterlo a volte fanno l'errore della penultima, oppure un errore nuovo, ma l'errore immediatamente precedente quello no, scotta ancora troppo. Per il Greenspan del 1987 e, ancora di più, del 1998 l'errore precedente è quello degli anni Trenta. Per i banchieri centrali di oggi è probabilmente quello del 1998.
Da qui si spiega quella certa durezza di cuore (o almeno il tentativo di essere duri) manifestata finora dalle banche centrali. Vogliamo o no, si chiedono, evitare di essere troppo premurosi verso i mercati quando l'economia reale non sta affatto mandando segnali uniformemente negativi?
Vogliamo o no impedire che, accanto alla bolla immobiliare, si riformi nei prossimi due anni una bolla azionaria? Già la vita è difficile con una bolla alla volta, che cosa faremo quando ne avremo due che scoppiano insieme?
L'intenzione iniziale, dunque, è quella di resistere. Non solo di ritirare in fretta gli eventuali tagli, ma di concederne in partenza il meno possibile. Le minute del Fomc del 7 agosto (tra l'altro certamente rivedute, purgate e corrette negli ultimissimi giorni) sono lì da leggere in tutta la loro durezza.
Quello che per i mercati è credit crunch per le banche centrali è normalizzazione del costo del credito. Che credit crunch ci può essere per le grandi corporation che hanno tipicamente 5, 10, 20 miliardi di liquidità in cassa? O per i compratori di beni durevoli europei o asiatici che hanno case e azioni che valgono tuttora (mediamente) più che a inizio anno? (Quanto ai consumatori americani, trovare e mantenere l'impiego è molto più importante dei 20 dollari in più da pagare ogni mese per il mutuo per ogni 25 punti base di aumento sul debito medio residuo su una casa da 200mila dollari). E quei mesi e anni di paralisi nel mondo degli LBO, che doveva rimanere schiacciato sotto il peso impossibile di 400 miliardi di operazioni nella pipeline, non sembrano già ora una previsione troppo fosca, alla luce delle rapide sistemazioni (una rinuncia qui, un taglio al prezzo di cessione lì, un aumento dei tassi per il finanziamento qui, un'assunzione temporanea del finanziamento da parte del consorzio lì) che si cominciano a vedere?
Sappiamo però dalla vita che una cosa sono le intenzioni iniziali, un'altra quello che alla fine si fa sul serio. Le pressioni dei mercati sulle banche centrali sono gestibili, ma se si estendono all'opinione pubblica e ai politici resistere diventa quasi impossibile.
La pressione, già forte, salirà ancora. Le borse potrebbero riprovare a scendere. L'economia americana, cresciuta del 4 per cento nel secondo trimestre, potrebbe rallentare (se la velocità di crociera è del 2 per cento, a un trimeste con il 4 potrebbe seguirne uno con lo zero, ma in quel caso nessuno farebbe la media e tutti parlerebbero di recessione, 1929 e via a ruota libera). Alla fine, quindi, i tagli ci saranno, così come i mancati rialzi in Europa e Giappone. Un taglio, in settembre, sarà per i mercati. L'altro più avanti, se occorrerà, per l'economia reale.
Un'altra ragione per mostrare una certa durezza è di evitare che i tagli siano dati troppo per scontati e che vengano accolti dai mercati con uno sbadiglio. Se si vuole somministrare adrenalina i mercati vanno sorpresi e per sorprenderli tutto deve apparire incerto fino all'ultimo.
Venendo alle scelte di portafoglio, è bene partire dall'idea che da una parte il quadro complessivo non è così deteriorato (in molte parti è ancora in forma esuberante), ma che dall'altra, anche nell'ipotesi migliore, altri due o tre mesi di ansia e incertezza non ce li può togliere nessuno. Prima di recuperare, infatti, i mercati vorranno vedere tutto, dai dati macro (in particolare l'occupazione) ai bilanci del terzo trimestre (in particolare, ma non solo, delle banche). Solo a dicembre, nel caso, potremo respirare.
Ci sono in giro innumerevoli occasioni, ma fra un mese o due, probabilmente, saranno ancora lì. Chi è abbondantemente liquido può iniziare a fare qualche assaggio. Per tutti gli altri, più che acquistare massicciamente subito, sarà utile, per il momento, abbassare i prezzi di carico con il trading. I crediti cominciano a essere interessanti non tanto per le possibilità di capital gain quanto per il rendimento che offrono. I bond governativi hanno qualche limitato spazio di apprezzamento nel caso si verifichino altre ondate di panico e vanno comunque giocati dal lato lungo, ma per farli diventare parte importante del portafoglio occorre sposare la tesi che l'espansione è davvero alla fine, il che sembra a dir poco prematuro.
In caso di panico il dollaro tornerà verosimilmente ad apprezzarsi. In quel caso andrà venduto. L'epicentro della crisi (eventuale) sono gli Stati Uniti, chi abbasserà i tassi più di tutti sono gli Stati Uniti. E' innaturale, anche se spiegabile con lo smontaggio del carry trade, che sia proprio il dollaro a rafforzarsi.
da Il Rosso e Il Nero, settimanale di strategia. Alessandro Fugnoli è strategist di Abaxbank , Banca d'Investimento del Gruppo Credem (
www.abaxbank.com).
http://www.abaxbank.com/docs/Researchhome/home@20070830@Correva lAnno.pdf