strage di Capaci

tontolina

Forumer storico
appena sentita alla radio



i Giudici di Caltanisetta stanno indagando sui servizi segreti italiani deviati .....



insomma
questi militari non difendono la patria ma la offendono?
 
meno uguale meno

sono sempre dell'avviso che meno politici ci sono meno danno vengono fatti. Anche io p.e. se vado in un posto dove se magna per prima cosa mangio io(tu non faresti così?) e my famelly, poi...poi...
 
L’ITALIA DELLE “TRAME”. RIFLESSIONI SUL RUOLO SOCIOLOGICO DELLA VERITA’
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DI CARLO GAMBESCIA

Sembra che dietro la morte di Borsellino, all’epoca, vi fossero “pezzi” di servizi segreti deviati… Anche questa volta, perciò, assisteremo all’ennesima “partita di caccia” alla verità da parte della magistratura, dei media, eccetera. E, in effetti, se si ripercorre la storia d’Italia degli ultimi sessant’anni, di misteri mai risolti è possibile ricordarne molti.

Qui però, quel che ci interessa, non è tanto la ricostruzione dei fatti, di ogni singolo “mistero d’Italia”, quando riflettere sul ruolo sociale della verità. Che cosa intendiamo dire?

Le società moderne si reggono, su un patto tacito: quello basato sull’idea che la verità può essere pericolosa per la sopravvivenza delle istituzioni: il cittadino non deve sapere più di quello che gli sia necessario sapere. Come, per le singole persone, alle quali i moderni riconoscono una sfera intima, da difendere a ogni costo, dove spesso covano pulsioni inconfessabili neppure a se stessi, così per la società politica, e in particolare per le istituzioni, si ritiene a livello di sapere politico tacito, che esista un nucleo segreto, che riguarda la loro difesa, da ogni interferenza pubblica da parte dei cittadini.



Sempre restando in ambito moderno, va detto che questa concezione antropomorfica e privatistica, delle istituzioni collide con la teoria democratica della politica. Che però, a sua volta, usa mettere la verità ai voti: è vero, quel che una “maggioranza" di persone decide sia vero… Perciò da un lato abbiamo il potere, che difende la sua “verità privata”, intima, dall’altro, la società politica e democratica, che però difende, di volta in volta, verità pubbliche differenti, legate all’applicazione della logica maggioritaria.

In questo senso, le società moderne, sono diverse da quelle premoderne, dove, non essendovi, in termini socialmente antropomorfici, nessuna distinzione tra pubblico e privato, né una teoria democratica della politica, la verità pubblica, nel singolo come nelle istituzioni, finiva storicamente sempre coincidere con quella privata. O, eventualmente, scontrarsi, in alcune circostanze, con una forma di verità “superpubblica”, fondata su criteri religiosi o spirituali. Forma, quest’ultima, che i moderni, assetati di libertà dal trascendente, hanno completamente soppresso.

Questa distinzione, a prescindere dal sistema economico, spiega sul piano empirico la maggiore stabilità politica dei sistemi premoderni rispetto ai moderni (certo, a detrimento della democrazia, così come la intendiamo noi), in termini di durata temporale delle istituzioni: almeno sei millenni contro un pugno di secoli. Sussiste però un elemento sociologico che accomuna le società premoderne a quella moderne. Quale? Il riconoscimento (tacito o meno) delle istituzioni da parte dei cittadini, sempre necessario perché segna la vita e il destino di ogni società politica organizzata. Bene, questo riconoscimento diviene tanto più ampio quanto più il potere si stabilizza. Di conseguenza, nelle società moderne, profondamente instabili a causa del conflitto tra concezione privatistica delle istituzioni, fondata sul segreto, e teoria democratica della politica, basata sulla “verità" pubblica, ma "messa ai voti”, questo riconoscimento è sempre in discussione. Da questo punto di vista, anche gli stessi processi rivoluzionari (che si sono succeduti numerosi), continuandosi a muovere all’interno di una visione moderna, non hanno favorito, nelle rispettive società storiche, alcuna “scoperta della verità”, in senso pubblico se non in modo parziale, e in termini temporali, molto limitati. In questo senso, la verità, almeno per i moderni non è assolutamente rivoluzionaria.

Ora, per tornare all’Italia “delle trame” segrete, va detto che quanto più si insiste per sapere la verità “completa” sui misteri d’Italia, quanto più dall’altra parte, quella delle istituzioni, ci si chiude nel segreto (si tratta di una specie di “riflesso condizionato”, esito di una visione antropomorfica del potere), mentre dall’altra parte, quella della società politica, si possono opporre solo “brandelli” di una verità, condannata di volta in volta, a cambiare, a causa della logica maggioritaria, che regola la verità nella democrazia moderna. Ovviamente, all’ aspetto sociologico che abbiamo fin qui delineato, vanno sommate le variabili legate al contesto storico italiano ( tardiva indipendenza politica, cattive tradizioni amministrative, eccetera) e alla scarsa qualità politica della sua classe dirigente, che spesso mostra di piegare agli egoistici interessi del momento, sia la concezione antropomorfica del potere, sia la teoria politica democratica, rendendo così indistinti i contorni ideologici della lotta politica. Per ottenere, qualche risultato, si dovrebbe ritornare a una visione “superpubblica” della verità, e dunque non fondata sulla moderna distinzione antropomorfica tra pubblico e privato, ma su principi eterni e sovratemporali. Una scelta che però sarebbero in contrasto con la teoria democratica della politica, che invece si basa su una verità di tipo maggioritario, non eterna ma contingente.

Dispiace dirlo, ma fare luce sui misteri italiani è sociologicamente impossibile.

Carlo Gambescia
Fonte: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2007/07/litalia-delle-trame-riflessioni-sul.html
 
Borsellino/ Servizi segreti, agende sparite e una strage. Quindici anni per un mistero. L'inchiesta di Affari
Sabato 21.07.2007 13:00
http://canali.libero.it/affaritaliani/cronache/borsellino2107.html
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Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (foto AP)


Giudici nel mirino delle spie? Oggi come ieri scenari inquietanti avvelenano i rapporti tra pezzi dello Stato. Da una parte la magistratura dall’altra i servizi segreti. Nel presente il Sismi di Niccolò Pollari, nel ’92 il Sisde di Bruno Contrada. Epoche diverse, metodi ed esiti diversi, d’accordo. Ma non si può non pensare per un attimo ai dossier di via Nazionale nel sapere che si torna a parlare di servizi segreti in relazione alla morte di Paolo Borsellino, 15 anni fa a Via D’Amelio. I mandanti “a volto coperto” della strage, un’inchiesta della procura di Caltanissetta che è andata a rimbalzare contro un muro di gomma e che ora riprende linfa da nuove documentazioni provenienti dai giudici di Palermo.

Il legame di un imprenditore del capoluogo siciliano con il telecomando che scatenò l’inferno (nessuno degli esecutori materiali condannati è stato accusato di averlo azionato) e il ruolo di un misterioso poliziotto che subito dopo l’esplosione si trovava nel budello di Via D’Amelio, una strada corta e senza sbocco, chiusa come una trappola. Un agente che però non era più in servizio a Palermo da alcuni mesi e che tra l’altro era stato visto apparire in passato sui lughi di altre stragi.

Misteri e mandanti - Poi c’è la “pista” che secondo gli investigatori andava seguita e che invece viene messa da parte il 14 maggio del 2002 dal gip di Caltanissetta Giovanbattista Tona: quella del Castello Utveggio (che domina Via D’Amelio dall’alto di Monte Pellegrino), delle telefonate tra funzionari del Sisde pochi secondo dopo la strage, del numero telefonico di Borsellino clonato e dell’agenda rossa del magistrato, che forse è un vero e proprio testamento della travagliata storia repubblicana di quegli anni. Tona, pur archiviando le indagini sui mandanti e in specifico su Berlusconi e Dell’Utri (i cosiddetti “Alfa e Beta” ripresi poi da un ottimo libro-inchiesta di Simone Falanca), lascia aperti tutti gli scenari possibili.

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Cosa scrive il gip – E’ vero che secondo Tona, nel 2002, "la ricognizione degli atti di indagine contenuti nel fascicolo fa emergere (…) che spunti indiziari a sostegno dell' ipotesi accusatoria, per quanto numerosi, risultano incerti e frammentari”. Però egli dispone la trasmissione degli atti al pm "per una sua nuova indagine, diversa da quella fino adesso perseguita”. E aggiunge: “Tali accertati rapporti di società facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione collegati all'organizzazione Cosa Nostra, costituiscono dati oggettivi che rendono quantomeno non del tutto implausibili né peregrine le ricostruzioni offerte dai diversi collaboratori di giustizia, esaminate nel presente procedimento, in base alle dichiarazioni dei quali si è ricavato che gli odierni indagati erano considerati facilmente contattabili dal gruppo criminale”. Quindi “ciò di per sé legittima l' ipotesi che, in considerazione del prestigio di Berlusconi e Dell'Utri, essi possano essere stati individuati dagli uomini dell'organizzazione quali eventuali nuovi interlocutori". Nuovi punti di riferimento “vincenti” per una trattativa mafia-Stato? Un patto di non belligeranza dopo la stagione del maxi-processo, degli ergastoli a pioggia e del doppio massacro Falcone-Borsellino? L' inchiesta di Caltanissetta acquisì una informativa del Ros dei carabinieri e un'altra della Dia sulle 401 società che tra il 1991 ed il 1993 operavano nel gruppo Fininvest, molte delle quali avrebbero avuto azionisti e soci ritenuti vicini a prestanomi di boss e affiliati a Cosa nostra

L’Utveggio, il Sisde e le telefonate misteriose - Aldilà del coinvolgimento diretto o meno di Fininvest, esiste un pista che porta ben oltre la furia dei Corleonesi, ben oltre la Sicilia. Un tracciato d’indagine che conduce al nord, ai grandi appalti, che collega le stragi siciliane allo scandalo “Mani pulite” e alle inchieste milanesi allora ai primi passi. La seguiremo più avanti. Torniamo all’Utveggio, un’aggraziato castello anni ’30 che domina su mezza Palermo, Via D’Amelio compresa. Ospita la sede del Cerisdi, una scuola di formazione nel campo economico e manageriale. Pochi secondi dopo la strage, proprio dall’Utveggio parte una telefonata che raggiunge Bruno Contrada, l’allora capo del Sisde a Palermo: l'utenza è quella di Paolo Borsellino. Clonata, naturalmente. Di solito il castello è deserto la domenica. Non quella domenica, però. Nelle carte degli investigatori che lavorarono alla strage, compare il nome di Lorenzo Narracci, al tempo funzionario del Sisde a Palermo, che riceve a sua volta una telefonata dallo stesso Contrada 80 secondi dopo l’esplosione della Fiat 126. Sempre Narracci appare quale titolare di un numero di cellulare ritrovato su un biglietto nel luogo dove gli assassini di Falcone azionarono il telecomando che provocò il putiferio a Capaci.

Tutto ciò viene archiviato dal gip Giovanbattista Tona. Ma il giallo rimane. Lo stesso Tona ammette: “Si segnala l'esigenza di approfondire ipotesi ed elementi sin qui trascurati, nella prospettiva di individuare complici e mandanti esterni all'associazione mafiosa. Si individua un cospicuo raggio di attività investigative aventi oggetto organismi e persone che potevano contare sulla disponibilità dei locali di Castello di Uvteggio, sede del Sisde, controllato a Palermo dal dottor Contrada”. Scrive Falanca che Gioacchino Genchi, l’esperto informatico al quale la procura di Caltanissetta aveva affidato le indagini per decodificare i traffici telefonici (su rete fissa e cellulare) dopo la strage di via D’Amelio, “scopre che diverse persone (non mafiosi) hanno tenuto sotto controllo i telefoni di Borsellino – che erano stati clonati – e forse hanno sorvegliato dall’alto, dal monte Pellegrino, la zona della strage”. Prosegue il libro “Alfa & Beta”: “Il Sisde - in quegli anni controllato a Palermo da Bruno Contrada - secondo Genchi aveva un suo centro all’interno del Castello Utveggio, un centro che operava sotto la copertura di un misterioso centro studi, il Cerisdi”.

L’agenda rossa e i segreti d’Italia - I processi hanno messo in galera gli esecutori materiali della strage. Il primo si è concluso il 18 dicembre 2000. La I sezione penale della Cassazione ha reso definitiva la condanna all'ergastolo per Salvatore Profeta, esecutore materiale della strage, definitiva anche la condanna a nove anni inflitta per favoreggiamento a Giuseppe Orofino. Confermata l'assoluzione di Pietro Scotto, presunto intercettatore dell'utenza telefonica della madre di Borsellino. La Cassazione ha inoltre confermato la condanna a diciotto anni per il collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, che non aveva presentato ricorso. Ma le inchieste sui mandanti a “volto coperto” e sul cosiddetto “terzo livello” si sono sempre arenate, come spesso capita in Italia. E’ possibile che la mafia abbia agito contro Borsellino su ordine di qualcun altro? Un attimo dopo l’eccidio di Via D’Amelio sparisce l’agenda rossa da cui il magistrato non si separava mai. Cosa conteneva? Elementi importanti sugli assassini di Falcone? Sicuro. Annotazioni investigative sul filone dei grandi appalti? Probabilmente. Di certo si sa che Borsellino lavorava alacremente al dossier mafia-appalti commissionato da Giovanni Falcone ai Ros di Palermo. Una pista che portava dalla Sicilia al Nord Italia, una pista delicatissima se si considera che siamo agli inizi del ciclone Tangentopoli.

Parla Di Pietro - Non a caso una testimonianza importante è quella di Antonio Di Pietro, in veste di testimone al processo di Via D'Amelio: “Ad un certo punto le nostre inchieste viaggiano su binari paralleli. Cominciai a lavorare prima con Falcone, poi con Borsellino. Bisognava capire il meccanismo con cui le grandi imprese italiane si aggiudicavano gli appalti. Falcone continuava a ripetermi, lo fece fino a tre giorni prima della sua morte: ‘è inutile che perdi tempo con le rogatorie, te lo ricordi com’è andata con il conto protezione… Invece, individua l’appalto, individua l’appalto’. Me lo ripetè anche due o tre giorni prima di morire”. Ma quali erano le imprese finite nel mirino delle indagini? Il dossier dei Ros di Palermo sicuramente diceva molto: 900 pagine di informazioni che l'allora procuratore capo Pietro Giammanco passò non al suo sostituto, ma subito, inspiegabilmente, all’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli.


Per capirci di più, basta sentire l'ex magistrato Ferdinando Imposimato in un intervento alla Commissione parlamentare antimafia: "Gli appalti del dopo terremoto (Irpinia, ndr) erano sì importanti, ma diventano poca cosa di fronte alla madre di tutte le commesse, il progetto Treno Alta Velocità". Borsellino, nei giorni precedenti la sua tragica fine, stava freneticamente, quasi con ossessione, studiando quei dossier mafia-appalti. E nell’agenda rossa c’erano tutti gli appunti più preziosi. Non poteva essere stata sottratta dagli attentatori, che agirono a distanza. Il tenente Carmelo Canale, stretto collaboratore di Borsellino, commenta: “Il giudice vi annotava i particolari più riservati del suo lavoro. Una settimana prima dell'attentato lo vidi scrivere nella stanza di un albergo, era preoccupato, avevo capito che quell'agenda era il suo testamento. Scherzando gli dissi: 'dottore che fa? Il pentito?' Lui mi osservò e rispose: 'qui dentro ce n'è anche per lei. Magari anche la verità sul perché è stato ucciso Giovanni”. Il colonnello dei carabinieri Francesco Arcangioli fu fotografato il 19 luglio 1992, in una Via D'Amelio che ancora bruciava, con in mano la borsa di Paolo Borsellino che conteneva l'agenda del magistrato mai più trovata. Ed è comparso anche in filmati registrati da telecamere Rai e Mediaset (allora Fininvest), documenti acquisiti dai pm per ricostruire le ore successive all'attentato, compresi i movimenti dell'allora capitano Arcangioli. Sentito più volte, il militare ha dato una versione dei fatti che contrasta con quella di altri testimoni.

Qual è la verità? Forse il filo rosso che lega le morti di Falcone e Borsellino non è tutto raggomitolato all’interno del suolo siciliano? C’è una mano oltre lo Stretto che lo tira e lo tiene teso? Di certo, i giudici di Caltanissetta non hanno rinunciato a seguirlo.

Ulisse Spinnato Vega
 

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