Tuor - Che fare per uscire dalla crisi?

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Che fare per uscire dalla crisi?
Alfonso Tuor

«La delegazione statunitense è giunta in Gran Bretagna per convincere gli altri Paesi ad ampliare i loro piani di rilancio dell’economia, ma è ripartita con il pressante invito a rimettere in ordine il sistema bancario americano». Questo giudizio del «Wall Street Journal» sintetizza efficacemente il tenore delle discussioni dei ministri delle finanze e dell’economia tenutesi questa fine settimana per preparare il vertice del G20 che si terrà a Londra il prossimo 2 aprile. Dello stesso tono è stato il commento del ministro tedesco Peer Steinbrück, il quale ha detto: «Non ha senso pompare sempre più soldi nell’economia quando non è stata ancora ristabilita la fiducia sui mercati finanziari».
Dunque il nodo della crisi rimane sempre lo stesso: il buco nero nascosto nelle pieghe dei bilanci bancari che dallo scoppio della bolla dei mutui ipotecari subprime nell’estate del 2007 continua ad allargarsi. La differenza di opinioni tra le due sponde dell’Atlantico è però meno profonda di quanto possa apparire a prima vista. Gli Stati Uniti e i Paesi asiatici sono preoccupati per la rapidità e l’entità della contrazione dell’economia. Basti pensare che il Fondo Monetario Internazionale prevede una recessione mondiale e teme che quest’anno anche il commercio internazionale, che si è sempre espanso a ritmi maggiori di quelli della crescita economica, subisca una flessione. Washington teme dunque che i piani di rilancio varati finora non siano sufficienti per frenare la caduta dell’economia mondiale. Gli Stati Uniti paventano pure che la forte contrazione dell’economia possa provocare due effetti collaterali molto pericolosi: il primo, pressoché certo, è l’incremento delle sofferenze bancarie; il secondo è la caduta dell’economia americana in deflazione. Quest’ultima è l’eventualità che le autorità americane vogliono scongiurare a tutti i costi, poiché renderebbe molto difficile l’uscita dalla crisi ad un paese con famiglie, imprese e Stato pesantemente indebitati. Tra l’altro, proprio per scongiurare questo pericolo si prevede che questa settimana la Federal Reserve decida un ulteriore ampliamento dei suoi interventi per l’acquisto di obbligazioni statali.
Ma la posizione americana nasconde molto probabilmente altre ragioni. In primo luogo, la necessità di guadagnare tempo per definire una politica coerente per affrontare la crisi del sistema bancario americano. È oramai palese che all’interno dell’amministrazione Obama sia in corso uno scontro piuttosto aspro sulla strada da imboccare. Infatti negli Stati Uniti si sta sempre più diffondendo la convinzione che la politica dei cerotti seguita finora stia mostrando la corda, anche perché stanno incrinandosi le speranze che le continue iniezioni di liquidità delle banche centrali riportino i mercati finanziari piano piano alla normalità. Si stanno pertanto valutando le implicazioni di scelte alternative. Queste divergenze di opinioni fanno apparire la posizione americana tentennante e poco chiara. Washington chiede quindi tempo per definire una posizione sulla questione bancaria, ma anche un maggiore sforzo, soprattutto dei Paesi europei, per attutire l’impatto della crisi sull’economia reale.
Francia e Germania, dal canto loro, ritengono di aver già fatto la loro parte. In ciò sono confortate da studi che sostengono che il piano di rilancio tedesco (se si considera anche il ruolo degli ammortizzatori sociali) è di dimensioni analoghe a quello americano. Inoltre Berlino e Parigi temono giustamente che, se non si risolve la questione della crisi del sistema bancario, ulteriori pacchetti di rilancio siano inutili e addirittura possano essere pericolosi per la stabilità dell’euro. Berlino e Parigi sostengono pertanto l’aumento delle risorse a disposizione del Fondo monetario internazionale, che saranno anche usate per tamponare la crisi dei Paesi dell’Est europeo, e puntano a definire alcuni principi per attuare la riforma del sistema finanziario internazionale.
Il terzo grande attore di questa partita, ossia l’Asia (soprattutto la Cina), sembra condividere le preoccupazioni americane. Il crollo delle esportazioni ha infatti colpito duramente le economie della regione. Il Giappone, ad esempio, teme una vera e propria depressione: per questo Tokyo continua a varare pacchetti di sostegno dell’economia. Il governo cinese ha messo in atto un imponente piano di rilancio economico e continua a ripetere di voler continuare a finanziare il debito estero americano, anche se ha cominciato a chiedere rassicurazioni sugli oltre 1.000 miliardi di dollari investiti in titoli statali americani.
Come detto, le differenze tra i Paesi del G20 sono meno profonde di quanto appaiano. L’obiettivo è comune e condiviso: scongiurare una nuova Grande Depressione. Il problema è che per raggiungere questo scopo bisogna sciogliere il nodo gordiano della crisi del sistema bancario. Ma per il momento non vi è ancora unanimità di vedute su quale politica seguire e non vi è nemmeno consenso sulla necessità di adottare misure drastiche. È dunque molto probabile che si continui ancora per alcuni mesi con la politica dei cerotti, la quale non è però sufficiente per farci uscire da questa grave crisi.
 

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