Sharnin 2
Forumer storico
Prove tecniche d'uscita dalla crisi
La BCE alza lievemente i tassi della prossima asta
4 dic 2009
di ALFONSO TUOR
La Banca centrale europea, che ha mantenuto inalterati all’1% i tassi di interesse di Eurolandia, ha lanciato un primo segnale di svolta. L’asta del prossimo 16 dicembre con cui l’istituto concederà al sistema bancario prestiti a un anno non si svolgerà, come è successo negli ultimi mesi, al tasso fisso dell’1%, ma ad «un tasso indicizzato ai tassi rilevanti di mercato». La fame di liquidità del sistema bancario europeo si era manifestata appieno nell’asta tenuta lo scorso mese di giugno e in quella di settembre con una richiesta complessiva di fondi per ben 750 miliardi di franchi. Ora i banchieri di Francoforte segnalano di non volere che le banche europee diventino troppo «dipendenti» da questa forma di rifinanziamento talmente favorevole da essere equiparabile ad un sussidio anche perché sanno perfettamente che questi capitali non sono stati usati per allargare i cordoni del credito ad imprese e famiglie. Le banche hanno infatti fatto incetta di questi fondi per rinviare la registrazione delle perdite ancora incagliate nei loro bilanci o per riprendere a speculare alla grande. La portata di questo cambiamento non deve essere sopravvalutata, poiché per le banche rifinanziarsi presso la BCE continuerà ad essere estremamente vantaggioso (anche se un po’ più oneroso) e anche perché la BCE si è subito affrettata a comunicare che continuerà a fornire liquidità illimitata a tasso fisso nel corso delle normali operazioni di rifinanziamento settimanali. È comunque bastato questo passo millimetrico per deprimere i mercati finanziari.
Se l’istituto di emissione del Vecchio Contintente ha cominciato a fare una specie di «esperimento» di inizio di uscita dalle politiche monetarie fortemente espansive condotte negli ultimi mesi, dall’altra parte dell’Atlantico il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha sottolineato in Senato che occorre un’analisi attenta prima di avviare una «exit strategy». Ora bisogna ricordare che il grosso degli interventi a favore del sistema finanziario sono avvenuti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, su oltre 14 mila miliardi di dollari stanziati (compresi prestiti e garanzie) per combattere la crisi, 12.200 miliardi sono andati al settore finanziario. Inoltre la Federal Reserve e la Banca d’Inghilterra sono state le più attive nello stampare nuova moneta, che non si ferma all’interno dei confini americani, ma attraverso il «carry trade» (ossia il meccanismo di indebitarsi in dollari per investire in strumenti finanziari denominati in altre valute) sta inondando di liquidità i mercati finanziari di tutto il mondo.
A questo punto si impongono alcune considerazioni. La strategia americana e quella europea per combattere la crisi potrebbero cominciare a non coincidere. Gli americani, influenzati da Wall Street, vogliono risanare il sistema finanziario, affinché possa riprendere a funzionare come prima (cambiando solo poche regole), accettando il pericolo di creare nuove bolle finanziarie e il rischio a medio temine di una resurrezione dell’inflazione. Gli europei, invece, influenzati dalle paure dei tedeschi, non vogliono correre questi rischi e si propongono di introdurre regole che cambino radicalmente il mondo finanziario.
In secondo luogo, il piccolo cambiamento di rotta della BCE non è destinato a modificare un quadro economico determinato da una stabilizzazione a bassi livelli dell’attività economica, ottenuta solo grazie ad interventi imponenti, paragonabili ad impressionanti dosi di doping, che non sono sostenibili nel tempo. Anzi, il crack di Dubai ha contribuito a ricordare che questa è una crisi da eccesso di debito. L’esplosione dei debiti degli Stati, dovuta anche al trasferimento ai contribuenti di parte delle perdite del sistema bancario, fa sì che oggi si cominci a temere anche per la tenuta del valore delle monete e per la solvibilità dei debiti pubblici. La conferma di queste paure è data dall’impressionante corsa al rialzo del prezzo dell’oro.
La tanto decantata uscita dalla crisi non appare prossima, anche perché essa non potrà essere il frutto di manovre di politica monetaria o fiscale, ma di scelte politiche di riorientamento dell’economia e di ridefinizione degli equilibri a livello internazionale. Di ciò non si vede traccia. Anzi, si può constatare solo il successo propagandistico, che rischia di rivelarsi effimero, della tesi che prima o poi tutto riprenderà a funzionare come prima.
La BCE alza lievemente i tassi della prossima asta
4 dic 2009
di ALFONSO TUOR
La Banca centrale europea, che ha mantenuto inalterati all’1% i tassi di interesse di Eurolandia, ha lanciato un primo segnale di svolta. L’asta del prossimo 16 dicembre con cui l’istituto concederà al sistema bancario prestiti a un anno non si svolgerà, come è successo negli ultimi mesi, al tasso fisso dell’1%, ma ad «un tasso indicizzato ai tassi rilevanti di mercato». La fame di liquidità del sistema bancario europeo si era manifestata appieno nell’asta tenuta lo scorso mese di giugno e in quella di settembre con una richiesta complessiva di fondi per ben 750 miliardi di franchi. Ora i banchieri di Francoforte segnalano di non volere che le banche europee diventino troppo «dipendenti» da questa forma di rifinanziamento talmente favorevole da essere equiparabile ad un sussidio anche perché sanno perfettamente che questi capitali non sono stati usati per allargare i cordoni del credito ad imprese e famiglie. Le banche hanno infatti fatto incetta di questi fondi per rinviare la registrazione delle perdite ancora incagliate nei loro bilanci o per riprendere a speculare alla grande. La portata di questo cambiamento non deve essere sopravvalutata, poiché per le banche rifinanziarsi presso la BCE continuerà ad essere estremamente vantaggioso (anche se un po’ più oneroso) e anche perché la BCE si è subito affrettata a comunicare che continuerà a fornire liquidità illimitata a tasso fisso nel corso delle normali operazioni di rifinanziamento settimanali. È comunque bastato questo passo millimetrico per deprimere i mercati finanziari.
Se l’istituto di emissione del Vecchio Contintente ha cominciato a fare una specie di «esperimento» di inizio di uscita dalle politiche monetarie fortemente espansive condotte negli ultimi mesi, dall’altra parte dell’Atlantico il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha sottolineato in Senato che occorre un’analisi attenta prima di avviare una «exit strategy». Ora bisogna ricordare che il grosso degli interventi a favore del sistema finanziario sono avvenuti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, su oltre 14 mila miliardi di dollari stanziati (compresi prestiti e garanzie) per combattere la crisi, 12.200 miliardi sono andati al settore finanziario. Inoltre la Federal Reserve e la Banca d’Inghilterra sono state le più attive nello stampare nuova moneta, che non si ferma all’interno dei confini americani, ma attraverso il «carry trade» (ossia il meccanismo di indebitarsi in dollari per investire in strumenti finanziari denominati in altre valute) sta inondando di liquidità i mercati finanziari di tutto il mondo.
A questo punto si impongono alcune considerazioni. La strategia americana e quella europea per combattere la crisi potrebbero cominciare a non coincidere. Gli americani, influenzati da Wall Street, vogliono risanare il sistema finanziario, affinché possa riprendere a funzionare come prima (cambiando solo poche regole), accettando il pericolo di creare nuove bolle finanziarie e il rischio a medio temine di una resurrezione dell’inflazione. Gli europei, invece, influenzati dalle paure dei tedeschi, non vogliono correre questi rischi e si propongono di introdurre regole che cambino radicalmente il mondo finanziario.
In secondo luogo, il piccolo cambiamento di rotta della BCE non è destinato a modificare un quadro economico determinato da una stabilizzazione a bassi livelli dell’attività economica, ottenuta solo grazie ad interventi imponenti, paragonabili ad impressionanti dosi di doping, che non sono sostenibili nel tempo. Anzi, il crack di Dubai ha contribuito a ricordare che questa è una crisi da eccesso di debito. L’esplosione dei debiti degli Stati, dovuta anche al trasferimento ai contribuenti di parte delle perdite del sistema bancario, fa sì che oggi si cominci a temere anche per la tenuta del valore delle monete e per la solvibilità dei debiti pubblici. La conferma di queste paure è data dall’impressionante corsa al rialzo del prezzo dell’oro.
La tanto decantata uscita dalla crisi non appare prossima, anche perché essa non potrà essere il frutto di manovre di politica monetaria o fiscale, ma di scelte politiche di riorientamento dell’economia e di ridefinizione degli equilibri a livello internazionale. Di ciò non si vede traccia. Anzi, si può constatare solo il successo propagandistico, che rischia di rivelarsi effimero, della tesi che prima o poi tutto riprenderà a funzionare come prima.