Turchia

tontolina

Forumer storico

stefano fait

Anticipatore sociale, analista di macrotendenze, consulente strategico / Social forecaster, strategy consultant, anthropologist
Jul 163 min read
La Turchia si licenzia dalla NATO

1*aXL4Gqht9VStx8kEzbHCxw.jpeg

La Turchia si licenzia dalla NATO

Le confidenziali “fonti credibili e preziosissime”di Antonio Ferrari lo inducono a credere che si tratti di un golpe fasullo congegnato da Erdogan per dare una svolta autocratica alla Turchia

Chi c’è dietro il «golpe fasullo»in Turchia, e che cosa succede ora

Ferrari sostiene, molto giustamente: “sono i fatti, la sana cronaca, occhi attenti, umiltà e una mente attrezzata a ragionare a fare la differenza”.
Parole sante, ma i fatti come li valutiamo e interpretiamo?

Possiamo giungere alle conclusioni di Ferrari, oppure a qualcosa di completamente diverso.

Per questo nell’anticipazione si usano gli scenari e poi si continuano a monitorare i segnali deboli per capire quale scenario scaccia gli altri.

Per me lo scenario che alla fine potrebbe dominare la scacchiera è differente.

Non credo a mire neo-ottomaniste, in primo luogo perché sono un meme messo in circolazione dai think tank neoconservatori e dai media controllati e poi perché la Turchia ha abbaiato molto e morso poco.

Quel che vedo io è invece uno sviluppo che sembra confortare una mia precedente interpretazione delle vicende turche (che mi interessano da quando un amico turco in Canada mi spiegò il concetto di Medi-Losers, “perdenti del Mediterraneo”, etichetta che accomunava PIGS e paesi musulmani lungo le sponde del “Mare Nostrum”)

Scenari futuri per Turchia, Medio Oriente, Mediterraneo

1*OmRRRg4tKiPWED1em0YlGg.jpeg

Esaminiamo i nuovi fatti sul terreno, in gran parte posteriori alle considerazioni di A. Ferrari:

- il governo turco ha dichiarato: “Chi ospita Gülen è nostro nemico”. Fethullah Gülen, presunto architetto del golpe, vive in Pennsylvania. In pratica stanno informando Washington che se non accoglierà la richiesta di estradizione la Turchia uscirà dalla NATO. Il che mi pare già straordinario.

- Sempre il governo turco sta assediando la base NATO di Incirlik, sostenendo che sia coinvolta nel golpe e che gli aerei che hanno bombardato Ankara provenivano da lì;

- 8 leader golpisti hanno chiesto asilo politico in un altro paese NATO, la Grecia. Ankara chiede che siano riconsegnati e Atene ha acconsentito.

- Il pilota responsabile dell’abbattimento dell’aereo russo che ha guastato le relazioni russo-turche sarebbe tra i golpisti arrestati;

- Il tentato colpo di stato è giunto poche ore dopo una clamorosa apertura di credito della leadership turca nei confronti di Assad, pochi giorni dopo le scuse di Erdoğan a Putin per l’abbattimento dell’aereo e alcune settimane dopo le forzate dimissioni del primo ministro filo-atlantista Davutoğlu;

- L’unico articolo del Guardian che consente ai lettori di dire la propria opinione giustifica il tentato golpe militare (!!!) in quanto il vero golpista è Erdoğan e la maggioranza della popolazione che lo sostiene è citrulla;

-Erdoğan avesse architettato il tutto avrebbe dovuto avere la certezza assoluta che la gente sarebbe scesa nelle strade sfidando i carri armati per lui: non è un calcolo da poco;

-Hillary Clinton ha ricevuto finanziamenti elettorali da Fethullah Gülen, ispiratore del fallito golpe;

-Lo spregevole Saakashvili sostiene che Putin è la parte perdente in questa vicenda: non l’ho mai sentito pronunciare qualcosa di vero negli ultimi 10 anni e non a caso se tornasse in Georgia sarebbe arrestato;

1*Au7asOeqXh3HjWL4xKI4yw.jpeg

La NATO aspetta la pausa pranzo e il fallimento del tentato golpe per solidarizzare con i turchi, ricordarsi che esporta la democrazia e ignorare Erdogan
Se queste valutazioni sono corrette nei prossimi mesi dovremmo osservare:

- tentativi di spingere la Turchia nel caos per impedire il riallineamento con la Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione;

- hitlerizzazione di Erdoğan da parte della stampa occidentale;

- primi, concreti esempi di collaborazione tra Siria, Turchia, Iran, Iraq e Russia per sconfiggere lo Stato Islamico ad Aleppo e Mosul, condannandolo a morte;

- rilancio degli accordi turco-russi sul trasporto del gas e la costruzione di centrali atomiche;

-delegazioni cinesi ad Ankara;
 
«Da fonti riservate – racconta Magaldi a “Colors Radio” – sapevo con certezza che in Turchia si stesse preparando un golpe: non il maldestro tentativo cui abbiamo appena assistito, facilmente controllato da Erdogan, ma un golpe autentico, programmato per l’autunno». Niente di più facile che il “sultano” l’abbia semplicemente anticipato, in modo farsesco, provando a disinnescare la minaccia. Ma attenzione: «Erdogan sa benissimo che i suoi veri, potenti nemici non sono toccabili: la sua repressione, feroce e molto rumorosa, non li sfiorerà neppure. Nel caso di un golpe a tutti gli effetti, quindi con il coinvolgimento dei massimi vertici dell’esercito, della marina e dell’aviazione, oltre che con la partecipazione degli Usa e di Israele, Erdogan verrebbe liquidato in poche ore, arrestato o ucciso». Cosa manca, al puzzle?
Il piatto forte: le elezioni Usa. Solo allora, cioè dopo novembre, è plausibile che il quadro geopolitico possa chiarirsi. A cominciare da Ankara: al di là del chiasso organizzato in queste ore da Erdogan, dice Magaldi, la Turchia non ha ancora deciso “cosa fare da grande”.
E soprattutto: come chiudere la pratica Isis, di cui resta la principale azionista.

http://www.libreidee.org/2016/07/magaldi-da-nizza-ad-ankara-nessuno-vi-racconta-la-verita/
 
set 16
La resa Usa in Siria

L’AMERICA IN UN VICOLO CIECO
L’accordo per il cessate il fuoco in Siria, raggiunto lo scorso 9 Settembre tra Stati Uniti e Russia, segnerebbe una resa totale degli Usa in Medio Oriente. Non proprio una vittoria della diplomazia.
A scriverlo è una fonte non sospettabile di parzialità: Debka, sito vicino all’intelligence israeliana.

Secondo gli analisti di Tel Aviv, l’accordo è “una brusca inversione di Washington” rispetto alle posizioni assunte nel vertice tra Obama e Putin a margine del G-20 a Pechino appena tre giorni prima. In quell’occasione il Presidente americano aveva annunciato il fallimento dell’accordo per “mancanza di fiducia”.

Cosa sarebbe avvenuto in pochi giorni perché la Casa Bianca ritrovasse la “fiducia” nei confronti di Mosca?
Secondo gli israeliani una presa di coscienza, da parte americana, di ritrovarsi in un vicolo cieco.

621-300x181.jpg
L’ACCORDO SEGRETO RUSSO-TURCO

A Pechino, mentre l’opinione pubblica mondiale era tutta concentrata sull’incontro Putin-Obama, il leader russo in gran segreto chiudeva un accordo con Erdogan “per tracciare i prossimi passi in Medio Oriente”. E così il G-20 “invece di promuovere una nuova fase di comprensione tra USA e Russia, ha dato l’impulso per una nuova partnership russo-turca”.

Questo accordo, secondo le fonti israeliane, prevede la cessione ad Ankara (per ora solo come controllo militare) di un’ampia zona della Siria del nord al confine con la Turchia; circa 4000 kmq che comprenderebbero tra l’altro la città di Jarabulus un’area da sempre ambita da Ankara per la presenza di popolazione turkmena.
Dal canto suo Erdogan ha garantito il ritiro di ogni appoggio militare alle milizie ribelli anti-Assad.

Sulla base di questo accordo, quando pochi giorni dopo russi e americani si sono incontrati a Ginevra, ai secondi non è restato altro che prendere atto della nuova situazione. Così Putin ha fatto capire ad Obama che lui “ora ha in mano l’ultima carta per il controllo del conflitto siriano, mentre Washington è praticamente fuori partita”.

Appare così chiaro il motivo per cui i termini dell’accordo sulla Siria tra Usa e Russia non sono stati resi pubblici: avrebbero rivelato che “i ribelli della zona di Aleppo, e forse in tutta la Siria, sono stati abbandonati al loro destino”.

E forse per questo che la decisione sull’accordo è stata oggetto di profondi contrasti interni alla Casa Bianca da parte di pezzi grossi dell’amministrazione come il Segretario alla Difesa, Ash Carter, e il Direttore del National Intelligence, James Clapper.

IL RUOLO DI AL-NUSRA

Difficile che la tregua siriana possa realmente reggere: troppi attori in campo e troppi che non hanno più nulla da perdere nella ripresa delle ostilità.
Ora per Washington il vero problema è impedire che i famosi “ribelli moderati” che la Cia e il Pentagono hanno armato e addestrato, scivolino definitivamente verso le posizioni più radicali e islamiste compromettendo un eventuale ruolo (loro e quindi di Washington) nella Siria del futuro. Per questo gli Usa hanno dovuto enfatizzare la parte dell’accordo in cui prevedono interventi militari congiunti con Mosca, non solo contro l’Isis, ma anche contro Al-Nusra il gruppo affiliato ad Al Qaeda che cerca di prendere l’egemonia del variegato movimento anti-Assad.
Tanto più che nel luglio scorso Al-Nusra ha annunciato la sua fuoriuscita da Al Qaeda proprio per caratterizzarsi come gruppo leader della ribellione siriana sostituendo i foreign fighters dell’internazionale del terrore, con gli ormai esperti combattenti siriani pronti ad abbracciare la causa jihadista dopo il “tradimento” di Ankara e Washington.

IL PROSSIMO COLPO DI PUTIN
Putin si appresta a sferrare l’ultimo colpo da maestro: organizzare a Mosca il vertice tra israeliani e palestinesi per avviare un nuovo processo di pace; vertice per il quale sia il premier israeliano Netanyahu che il Presidente palestinese Abbas, si sono mostrati d’accordo.
Se dovesse riuscire anche in questo, la Russia diventerebbe il pivot di un nuovo Medio Oriente.

DÉBACLE USA

La débâcle americana non è solo frutto di una migliore visione geopolitica del Cremlino ma sopratutto della folle politica estera portata avanti dalla Casa Bianca negli ultimi otto anni: una miscela esplosiva di guerre umanitarie, cinismo diplomatico e arroganza tardo imperiale che ha collezionato fallimenti in serie: dalla Primavera Araba al pantano iracheno, dal disastro libico alla guerra in Siria alimentata dalla Cia, passando per l’imbarazzante timidezza con cui il Pentagono ha affrontato la nascita dell’Isis e la formazione del Califfato; nonostante la sbandierata coalizione di 13 paesi, si è dovuto aspettare l’intervento russo per assistere alla sconfitta dei tagliagole jihadisti.

Ma è sopratutto con gli storici alleati che gli Stati Uniti hanno mostrato una spietata vocazione al suicidio; uno dopo l’altro gli Usa hanno abbattuto quei regimi a loro fedeli (a partire dall’Egitto di Mubarak), senza essere in grado di sostituirli con alleati altrettanto fedeli.
E così oggi l’America ha sempre meno amici in Medio Oriente; gli rimangono le tirannie saudite (quelle che finanziano con milioni di dollari la Fondazione Clinton) e poco altro.

Ora Washington scopre con terrore che persino Israele guarda con interesse le mosse russe per una nuova pacificazione della regione (noi l’avevamo scritto già tre mesi fa).
D’altro canto è comprensibile: a Tel Aviv pensano che l’asse Russia-Iran-Siria, consenta a Mosca di avere influenza reale sugli unici nemici storici che Israele teme veramente: gli Hezbollah sciiti armati da Teheran e protetti da Damasco.

Insomma il Medio Oriente sta cambiando, ma l’America no; e paradossalmente a Washington solo Trump, nella sua follia, sembra averlo capito.
La resa Usa in Siria – Il blog di Giampaolo Rossi
 
In Turchia crescono i sentimenti anti-americani a causa del sostegno USA ai curdi

© flickr.com/ KLMircea Mondo 14:17 21.10.2016URL abbreviato 127661 Nonostante le numerose dichiarazioni da parte delle autorità turche sull'inammissibilità di cooperazione militare tra americani e squadre di autodifesa curde in Siria, gli USA continuano a interagire con le forze curde. Non trovando comprensione tra i suoi alleati, nella crisi siriana, la Turchia dimostra di essere in isolamento. Anche a causa di questa frustrazione, in Turchia crescono sentimenti anti-americani.
Ankara non è in grado di rispondere a Washington ma la condanna di queste azioni sta preparando il terreno per delle alternative nelle interazioni. In un'intervista a Sputnik parla l'ex-capo dell'Ufficio del Ministro degli Esteri turco, a Capo della Direzione dei programmi internazionali di Ankara dell'Istituto di politica estera, l'ex ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Turchia in Finlandia, Svezia, Giordania, Oktay Aksoy.

"La Turchia sperava che gli Stati Uniti capissero i suoi timori circa la crescente interazione militare tra americani e curdi organizzati in squadre di autodifesa in Siria.
Le autorità turche hanno ripetutamente denunciato ai colleghi americani che è "vietato l'uso di militanti curdi nella lotta contro il terrorismo dell'Isis.
Ma gli Stati Uniti hanno ignorato la richiesta della Turchia, questa è stata una fonte di delusione.
Tale intransigenza degli americani dimostra che la posizione degli USA e quella della Turchia per la situazione in Siria sono diverse radicalmente.
E sembra che Washington non abbia intenzione di cambiare la sua politica.
Hanno cominciato a comportarsi in modo strano ultimamente.
Non so se si può spiegare solo per le prossime elezioni presidenziali. Sembra che ci sia in atto un cambiamento strategico a lungo termine. In tale situazione,
la Turchia dovrà prendere alcune misure.
Ma la Turchia sarà in grado di agire contro una così grande potenza da sola?
Credo che non possa compiere nulla di sostanziale.
Tuttavia, gli USA potrebbero perdere la Turchia, che potrebbe prendere in considerazione altre alternative per la cooperazione strategica. I politici americani dovrebbero riflettere su questo. Sicuramente, gli Stati Uniti possono avere i loro interessi o preferenze particolari per la cooperazione con i giocatori presenti nella regione e gli interessi di ognuno non sempre possono coincidere. Gli americani non hanno il diritto di aspettarsi dalla Turchia che sostenga i loro piani mediorientali. La Turchia, sulla base dei propri interessi, ha agito contro le forze d'azione americane e gli americani dovevano usare comprensione. Qualcosa ha causato la loro irritazione. Questo è strano e mi dispiace che gli americani si siano raffreddati con un così importante alleato come la Turchia. ... 61

Leggi tutto: In Turchia crescono i sentimenti anti-americani a causa del sostegno USA ai curdi
 
upload_2016-10-22_15-6-55.png

1- Daesh non ostacolerà la creazione di un Kurdistan a condizione che non sia a est dell’Eufrate
2. Gli Stati Uniti sono ormai favorevoli alla creazione di un Kurdistan in Siria
3- La Russia sostiene i diritti della minoranza curda
4- La Turchia è favorevole alla creazione di un Kurdistan in Siria amministrato dai Barzani
5- L’Iran si oppone alla creazione di un Kurdistan
6- Il governo regionale curdo dell’Iraq è favorevole alla creazione di un Grande Kurdistan a cavallo tra Iraq e Siria
7- Israele è favorevole alla creazione di un Grande Kurdistan in Iraq e in Siria, ma non in Turchia
8- La Francia sostiene la soluzione del problema curdo, senza influire sul territorio turco
9- Le tre principali fazioni curde sono favorevoli alla creazione di un Kurdistan ovunque, purché sia sotto il loro controllo e non dei rivali

I progetti di Kurdistan, di Thierry Meyssan
 
Aggiornamento sulla petizione
L'EREDITA' DEL DEMOCRATICO BARACK OBAMA
qnxtIwvpkBgmfzX-128x128-noPad.jpg

Comitato promotore della campagna #NO GUERRA #NO NATO
Italia
3 gen 2017 — Manlio Dinucci

Alla vigilia del passaggio di poteri alla Casa Bianca, il 2017 si apre con la strage terroristica in Turchia, due settimane dopo l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara, compiuto il giorno prima dell’incontro a Mosca tra Russia, Iran e Turchia per un accordo politico sulla Siria. Incontro da cui erano esclusi gli Stati uniti.

Impegnati, negli ultimi giorni dell’amministrazione Obama, a creare la massima tensione possibile con la Russia, accusata addirittura di aver sovvertito, con i suoi «maligni» hacker e agenti segreti, l’esito delle elezioni presidenziali che avrebbe dovuto vincere Hillary Clinton. Ciò avrebbe assicurato la prosecuzione della strategia neocon, di cui la Clinton è stata artefice durante l’amministrazione Obama.

Questa termina all’insegna del fallimento dei principali obiettivi strategici: la Russia, messa alle corde dalla nuova guerra fredda scatenata col putsch in Ucraina e dalle conseguenti sanzioni, ha colto Washington di sorpresa intervenendo militarmente a sostegno di Damasco. Ciò ha impedito che lo Stato siriano fosse smantellato come quello libico e ha permesso alle forze governative di liberare vaste aree controllate per anni da Isis, Al Nusra e altri movimenti terroristici funzionali alla strategia Usa/Nato. Riforniti di armi, pagate con miliardi di dollari da Arabia Saudita e altre monarchie, attraverso una rete internazionale della Cia (documentata dal New York Times nel marzo 2013) che le faceva arrivare in Siria attraverso la Turchia, avamposto Nato nella regione.

Ora però, di fronte all’evidente fallimento dell’operazione, costata centinaia di migliaia di morti, Ankara se ne tira fuori aprendo un negoziato con l’intento di ricavarne il massimo vantaggio possibile. A tal fine ricuce i rapporti con Mosca, che erano giunti al punto di rottura, e prende le distanze da Washington. Uno smacco per il presidente Obama. Questi, però, prima di passare il bastone di comando al neoeletto Trump, spara le ultime cartucce.

Nascosta nelle pieghe dell’autorizzazione della spesa militare 2017, firmata dal presidente, c’è la legge per «contrastare la disinformazione e propaganda straniere», attribuite in particolare a Russia e Cina, la quale conferisce ulteriori poteri alla tentacolare comunità di intelligence, formata da 17 agenzie federali. Grazie anche a uno stanziamento di 19 miliardi di dollari per la «cybersicurezza», esse possono mettere a tacere qualsiasi fonte di «false notizie», a insindacabile giudizio di un apposito «Centro» coadiuvato da analisti, giornalisti e altri «esperti» reclutati all’estero. Diviene realtà l’orwelliano «Ministero della Verità» che, preannuncia il presidente del parlamento europeo Martin Schultz, dovrebbe essere istituito anche dalla Ue.

Escono potenziate dall’amministrazione Obama anche le forze speciali, che hanno esteso le loro operazioni coperte da 75 paesi nel 2010 a 135 nel 2015.

Nei suoi atti conclusivi l’amministrazione Obama ha ribadito il 15 dicembre il proprio appoggio a Kiev, di cui arma e addestra le forze, compresi i battaglioni neonazisti, per combattere i russi di Ucraina.

E il 20 dicembre, in funzione anti-russa, il Pentagono ha deciso la fornitura alla Polonia di missili da crociera a lungo raggio, con capacità penetranti anti-bunker, armabili anche di testate nucleari.

Del democratico Barack Obama, Premio Nobel per la pace [paperino era più degno di questo premio], resta ai posteri il suo ultimo messaggio sullo Stato dell’Unione: «L’America è la più forte nazione sulla Terra. Spendiamo per il militare più di quanto spendono le successive otto nazioni combinate. Le nostre truppe costituiscono la migliore forza combattente nella storia del mondo».

(il manifesto, 3 gennaio 2017)
 
Cosa c’è dietro la nuova pace tra Erdogan e Putin? Economia turca al collasso e “sindrome Maduro”
Cosa c'è dietro la nuova pace tra Erdogan e Putin? Economia turca al collasso e "sindrome Maduro" - Rischio Calcolato

Putin_Erdogan3.jpg

Dallo scorso 16 aprile, quando Erdogan ha vinto sul filo di lana il referendum costituzionale che gli garantisce mano libera e un potere pressoché assoluto per almeno dieci anni, la Turchia è sparita dai radar dei grandi media.
Ogni tanto la notizia di qualche arresto di magistrato o giornalista, il caso del blogger-regista italiano Gabriele Del Grande arrestato al confine siriano (qualcuno, un giorno, ci dirà quanto abbiamo pagato per la liberazione e cosa ci fosse dietro, visto che dopo una rapida conferenza con la stampa estera, il nostro eroe è sparito dalla circolazione mediatica) ma l’ondata di sdegno e attenzione morbosa montata dopo la vittoria del “Sì” – che avrebbe portato come diretta conseguenza, l’indizione di un referendum per il ripristino della pena di morte – pare svanita.
La Turchia, da protagonista, è diventata comprimaria del grande show mediatico globale. Insomma, tv e giornali hanno seguito il copione da “wag the dog” imposto dal Deep State statunitense e hanno concentrato l’attenzione sull’altro cattivo di turno, Kim Jong-un e i suoi missili, tanto innocui quanto utili per sviare le attenzioni dai problemi interni USA e dall’armageddon monetario che la Cina si prepara a scatenare, con il beneplacito del nuovo “amico”, Donald Trump.
China_risk.jpg


Eppure, qualcosa di importante è accaduto in Turchia. La scorsa settimana, al quarto tentativo, è infatti giunta la fumata bianca più attesa. Russia Turchia e Iran, i Paesi garanti della tregua in Siria e dell’iniziativa negoziale di Astana, hanno infatti siglato un memorandum che prevede la creazione di quattro “zone cuscinetto” in cui saranno vietate “ogni tipo di ostilità” fra i ribelli e le truppe fedeli a Bashar al Assad. Una novità sostanziale che ha suscitato il plauso formale di Staffan de Mistura: “E’ un passo avanti importante”, ha dichiarato l’inviato speciale dell’Onu. I ribelli, per bocca di Osama Abu Zaid, hanno però bocciato l’intesa, rifiutando qualunque divisione “dell’integrità territoriale siriana e ogni ruolo dell’Iran come Paese garante”.
Ma il loro benestare, si è sottolineato ad Astana, non è vincolante, tanto che si è arrivati a mettere in discussione la stessa compattezza di posizione all’interno della variegata galassia dei ribelli cosiddetti “moderati”.
L’accordo prevede la creazione di “zone di sicurezza” dotate di check-point e punti di osservazione, accanto ai confini delle “zone a bassa tensione” o “zone cuscinetto”, indicate nel documento come “zone di de-escalation”.
Siria_Astana.jpg


Una doppia cintura protettiva per evitare scontri tra le parti in conflitto e “garantire il movimento dei civili disarmati, l’accesso degli aiuti umanitari e per facilitare le attività economiche”. L’aviazione siriana, dal canto suo, metterà fine ai raid nelle “zone a bassa tensione”, mentre Mosca ha promesso di fare altrettanto a patto che la tregua tra le parti regga.

Le quattro “zone cuscinetto” – ad oggi sono state identificate Idlib, Latakia, Homs e parte di Aleppo – verranno individuate con precisione entro il 4 giugno ma dalla mezzanotte di sabato scorso gli scontri paiono cessate, almeno quelli di maggiore intensità. L’accordo avrà una durata di 6 mesi rinnovabili e, se tutto va bene, per l’inviato speciale di Putin in Siria, Alexander Lavrentyev, “diventerà poi permanente”.
Ma, questione più importante, stando al documento, Russia Turchia e Iran continueranno a impegnarsi nella lotta contro Isis e Al-Nusra “sia all’interno, sia all’esterno delle zone di de-escalation”, tanto che Mosca si è detta disponibile a inviare “osservatori” e pare non sia escluso che altri Paesi neutrali possano fare lo stesso, a patto che le nazioni garanti siano d’accordo.
Syria_safety.jpg


lg.php

In attesa del prossimo round negoziale ad Astana, previsto per metà luglio e alla luce del reale rispetto sul campo di questa ennesima tregua, questo passo negoziale ha sancito anche altro: il rinnovato accordo tra Russia e Turchia, nella fattispecie tra Putin ed Erdogan, dopo che quest’ultimo – forse ingolosito dalla possibilità di alzare il livello dello scontro con i curdi nel Nord del Paese – aveva di fatto sancito un tacito patto siriano con USA e Israele, quest’ultimo impegnato nella sua personalissima campagna proxy contro l’Iran a colpi di bombardamenti contro le postazioni ritenute sedi di passaggio di armi per Hezbollah.
Putin_Erdogan4.jpg

Incontrando il leader russo a Sochi lo scorso 4 agosto, Erdogan ha usato toni molto concilianti: “I passi che Ankara e Mosca faranno insieme cambieranno il destino di tutta la regione”, ha dichiarato, prima di sottolineare “le relazioni speciali che intercorrono tra i nostri due Paesi dopo il raggiungimento di questa intesa”.
Insomma, luna di miele.
La terza in meno di un anno e mezzo.
Ci sarà da fidarsi questa volta?
Erdogan è uomo di potere, quindi affatto esente da cambi di posizione repentini ma due variabili paiono spiegare l’ennesima giravolta dal grande capo turco.
Primo, l’atteggiamento di chiusura post-referendum dell’UE, che lo avrebbe portato a un allontanamento dalla coalizione a guida USA.
Secondo, la crisi economica e alcuni strani movimenti su moneta e debito pubblico. E che la situazione fosse alle soglie dell’emergenza, lo mostra questo grafico
turk_gold.jpg

e il fatto che la Banca centrale turca abbia cominciato da qualche settimana a operare come un “compro oro”, di fatto puntando a una confisca col sorriso del bene rifugio detenuto dai suoi cittadini, spaventati dall’andamento della valuta e dall’intero quadro economico. Stando a quanto pubblicato da Daily Sabah, nelle intenzioni della Banca centrale ci sarebbe il lancio di due nuove forme di investimento in oro fisico: da un lato l’emissione di un bond aureo e, dall’altra, la creazione di uno strumento per il prestito di oro e gioielleria aurea.
Alla base della mossa, la volontà del governo di ottenere il metallo prezioso al fine di utilizzarlo nel settore privato, rendendolo disponibile per l’industria finanziaria. Insomma, i cittadini dovrebbero togliere l’oro dai materassi e venderlo allo Stato, il tutto spacciato come iniziativa dello stesso per garantire ai turchi cash da spendere.
Gold_bars.jpg

In realtà, ciò che il governo ha intenzione di fare è emettere un bond aureo su cui pagherà gli interessi ai cittadini per l’utilizzo del loro oro, il tutto in lira turca. E se questo interesse sarà legato al trend del prezzo dell’oro, il gold-covered loan certificate garantirà inoltre al detentore di ricevere l’interesse dopo che l’oro fisico o la gioielleria aurea saranno stati depositati presso la banca intermediaria.
Insomma, cosa accade?
Il timore è che il governo, visto il premio di rischio richiesto per finanziarsi sui mercati esteri, stia cercando di confiscare in maniera gentile l’oro dei suoi cittadini, il tutto attraverso uno schema obbligazionario destinato a terminare in default per chi cede il proprio metallo.
Funzionerà?
Lira_turca.jpg


Una cosa è certa: si tratta del sintomo di una crisi sempre più forte per l’economia e i conti pubblici turchi. Nonostante si sia garantito una sorta di sultanato a vita, infatti, Erdogan deve fare i conti con questo,

turkey_misery1.jpg


ovvero con l’indice di miseria del proprio Paese giunto a livelli massimi, a causa dell’inflazione sempre crescente, di una moneta al collasso e di un tasso di disoccupazione che non accenna a diminuire dai suoi livelli di allarme.
Che la stretta repressiva posta in essere dopo il fallito golpe del luglio scorso e dopo il referendum sia una mossa preventiva, in vista di manifestazioni di massa, magari con qualche “spintarella” estera che le fomenti?
Il fatto che a mettere in fila le criticità macro della Turchia in un ampio e dettagliato servizio sia stato la settimana scorsa il quotidiano tedesco “Die Welt” fa pensare, viste le recenti tensioni tra Berlino e Ankara, legate proprio alle comunità turche all’estero e alla possibilità per i politici di fare campagna elettorale in vista del referendum. Il report è sconfortante: in aprile l’inflazione ha accelerato all’11,9%, il tasso più alto dall’ottobre 2008 e ben al di sopra delle aspettative.
turkey-inflation_1.jpg

In particolare, poi, ad aumentare maggiormente sono i beni di uso più comune e diffuso come cibo, abbigliamento, trasporti e alcool, tanto che le percentuali di crescita più alte raggiungono addirittura il 22%. E se la nuova tassa sugli alcolici ha colpito i prezzi al consumo, ad aprile – su base mensile – anche l’abbigliamento ha visto un aumento del 9%. Il tasso di disoccupazione è salito al 13%, il massimo dal 2010 ed ecco che, come per magia, il “misery index” è salito ai massimi dal 2005, a quasi il 25%.
Inoltre, c’è un altro indicatore che ci mostra come il potere d’acquisto dei turchi stia subendo un’erosione devastante, il numero di nuove auto vendute: il calo su base annua è stato dell’11,6% ad aprile, mese nel quale sono state vendite solo 57.998 unità.
E’ questo a fare paura ad Erdogan, tanto da compiere l’ennesima capriola e posizionarsi dietro lo scudo di Putin, pagando il prezzo della sua protezione con l’abbandono di ogni velleità atlantista in Siria?
Questo grafico
turkey_misery2.jpg

sembra suggerirci di sì, visto che non si era mai arrivati a un pattern simile e che alcuni analisti temono che, se non interverrà qualcosa a bloccare la dinamica e a placare il sempre crescente malcontento economico e sociale dei cittadini, il prossimo passo per il sultano sarà quello di entrare in modalità “full-Maduro”.

lg.php

Publy.png

lg.php

lg.php

lg.php

E che a ridosso della capriola politica di Erdogan e della nuova tregua raggiunta ad Astana, uno “scudo” molto potente possa essersi palesato in favore della Turchia, ce lo mostra un dato. Se questo grafico
TURK_inflation.jpg

spiega impietosamente quale sia la correlazione tra bond sovrano turco a 10 anni e inflazione, peggiore lettura da 2 anni a questa, parte, Bloomberg fa notare come i fondi esteri stiano comprando quelle obbligazioni con il badile: nei cinque giorni terminati il 29 aprile, l’inflow di capitali su quella carta è stato di 739 milioni di dollari, il maggiore da nove mesi e nel momento economicamente peggiore. Certo, l’allure di quei titoli può essere aumentata dal fatto che gli investitori in dollari sulla lira turca hanno ottenuto un return sul carry valutario del 4,4% lo scorso mese, il più alto di tutti i mercati emergenti, dinamica confermata da questo,
TURK_flows.jpg

ovvero dal continuo outflow di capitale dalle equities ma tutto questo attivismo è figlio di qualcosa che si muove sottotraccia.
Si tratta della Canossa definitiva di Erdogan verso la Russia, garante di quel debito così appetito nonostante i dati macro oppure siamo all’ennesima sciarada, con USA e Israele pronti alla proposta a cui non si può dire di no, magari dopo una rottura ad hoc della tregua in Siria? Una cosa è certa, guai a fare uscire la Turchia dai riflettori o a mantenercela solo per qualche arresto di troppo. Il nuovo assetto mediorientale passa da lì e dalle elezioni presidenziali iraniane del 19 maggio prossimo, già surriscaldate dal botta e risposta con Ryad.

Sono Mauro Bottarelli, Seguimi su Twitter! Follow @maurobottarelli
 
Cosa succede all’economia turca
Ieri la lira turca è crollata per una crisi diplomatica con gli Stati Uniti, e c'è molta preoccupazione su come gestirà la questione Erdogan

La crisi della lira turca è ulteriormente peggiorata dopo che venerdì il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato che raddoppierà i dazi sull’acciaio e sull’alluminio provenienti dalla Turchia. La lira turca ha perso oltre il 20 per cento del suo valore rispetto al dollaro dopo l’annuncio di Trump, un crollo arrivato dopo mesi di andamento negativo: da gennaio la valuta ha perso circa il 40 per cento del suo valore rispetto al dollaro.

L’aumento dei dazi di Trump ha peggiorato una crisi diplomatica in corso tra Turchia e Stati Uniti, iniziata con l’arresto da parte delle autorità turche di un predicatore evangelico americano accusato di terrorismo e di complicità con gli autori del tentato colpo di stato del 2016. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha parlato di “guerra economica” contro gli Stati Uniti e ha fatto appello alla retorica religiosa e nazionalista che lo ha fatto rieleggere lo scorso giugno, incolpando gli speculatori e i nemici internazionali della Turchia per la crisi e sostenendo che «se loro hanno i dollari, noi abbiamo dalla nostra la gente, la giustizia e Dio».

I mercati internazionali hanno risentito gravemente della crisi dell’economia turca. I primi a essere stati colpiti sono i mercati emergenti: il rand sudafricano, il peso argentino e il rublo russo hanno perso tra l’1,5 e il 3,5 per cento.
Ma è presto arrivata anche in Europa, dove l’euro ha perso l’1,2 per cento, toccando il minimo rispetto al dollaro da un anno a questa parte. Ci sono infatti importanti banche, come la spagnola BBVA, l’italiana UniCredit e la francese BNP Paribas, che hanno prestato molto denaro alla Turchia e rischiano di subire forti perdite se i loro debitori inizieranno a non essere più in grado di restituire il denaro ricevuto in prestito.

Secondo il Financial Times, il 40 per cento del patrimonio del settore bancario turco è costituito da titoli di debito denominati in valuta estera, i cui interessi devono quindi essere ripagati in monete rispetto alle quali la lira turca vale sempre meno. Ma a essere fortemente indebitate con l’estero e fragili sono anche le imprese.
Il Sole 24 Ore dice che le banche italiane sono esposte per 16,9 miliardi di dollari con la Turchia,
molti meno degli 84 miliardi delle banche spagnole
e dei 37 miliardi di quelle francesi, più o meno come la Germania e il Regno Unito.

UniCredit possiede però il 40,9 per cento di Yapi Kredi, quarta banca privata del paese. Secondo quanto riporta il Sole, «nel primo semestre il contributo di Yapi Kredi al conto economico di UniCredit è stato di 183 milioni di euro. Si tratta, comunica la banca, di meno del 2% dei ricavi del gruppo».
Cosa succede all'economia turca - Il Post
 
Turchia: Italia partner importante, 20mld di scambi
Da Unicredit a Fca, tuti gli investimenti nel paese a rischio
Turchia: Italia partner importante, 20mld di scambi - Economia

Dalle banche alle infrastrutture, dalle auto alle autostrade: la Turchia è da anni un mercato importante per le imprese italiane, con un interscambio totale che sfiora i 20 miliardi di euro e investimenti importanti di gruppi come Pirelli, Fiat e, da alcuni anni, Unicredit.

Un "mercato prioritario" per l'export italiano, lo definisce la Sace, la società di assicurazioni degli esportatori: Inevitabile che si senta anche in Italia l'impatto della crisi finanziaria che colpisce il paese, riflesso di un rischio politico crescente vista la spaccatura sempre più importante fra il presidente Erdogan, protagonista di una riforma costituzionale giudicata un po' troppo autoritaria, e i partner occidentali a partire dagli Usa.

Unicredit è azionista di peso di Yapi Kredi, con una quota dell'81,9% detenuta attraverso la joint venture paritaria con Koc Group.
Fca è presente da decenni con lo stabilimento di Bursa-Tofas (Instanbul), con decine di migliaia di veicoli prodotti.
Da 50 anni è in Turchia anche Pirelli, che ha concentrato la produzione nello stabilimento di Izmit, a 100 chilometri da Instanbul, costato 170 milioni di euro di investimenti negli ultimi anni, la produzione di 2 milioni di pneumatici industriali l'anno destinati ai mercati di Europa, Medio Oriente e Africa.
Cementir ha investito in Turchia dal 2001 oltre 530 milioni di dollari acquisendo Cimentas e Cimbeton.

Leonardo, tramite Alenia Aermacchi, è in qualche modo toccato dalla crisi turca in quanto contribuisce alla produzione dell'F-35 (che vede 30 ordini dalla Turchia con opzione per altri 70 velivoli) e partecipa a una commessa importante, 30 elicotteri da parte di Turkish Aerospace al Pakistan.

Tanti i progetti italiani nel paese, a partire dal comparto infrastrutture-costruzioni-logistica: come quelli di Salini Impregilo nella costruzione di due autostrade, la Kinali-Sakarya e la Tarsus-Adana-Gaziantep, in un impianto idroelettrico, nella linea ad alta velocità che collega Ankara ad Istanbul, nella depurazione delle acque a istanbul.

E poi c'è l'export dell'Italia, nel 2017 quinto partner commerciale con 19,8 miliardi di dollari di interscambio totale (+11,1% rispetto al 2016), di cui 11,3 miliardi di dollari in esportazioni e 8,5 miliardi di dollari in importazioni e una quota di mercato del 5,1%.
 

Users who are viewing this thread

Back
Alto