"Va tutto bene". In Italia triage e bugie per i malati di coronavirus di Emilio Parodi e Silvia Aloi

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"Va tutto bene". In Italia triage e bugie per i malati di coronavirus
"Va tutto bene". In Italia triage e bugie per i malati di coronavirus

MILANO (Reuters) - La lotta contro la morte si ferma tutti i giorni alle 13,00.
A quell’ora, i medici del reparto di terapia intensiva del Policlinico San Donato di Milano chiamano i parenti dei 25 pazienti gravemente malati di coronavirus, tutti sedati e intubati, per aggiornarli sulla situazione. L’ora di pranzo era un tempo il momento delle visite ma adesso, mentre il paese lotta contro la diffusione del virus che ha già ucciso più di 2.000 persone, nessuno può entrare. E nessuno, in Italia, esce più di casa.

Quando i medici chiamano, cercano di non dare false speranze, perché sanno bene che un paziente in terapia intensiva su due ha scarse possibilità di sopravvivenza.

Mentre l’epidemia avanza, i letti della terapia intensiva sono sempre più necessari, soprattutto a causa dei problemi respiratori causati dal virus. Ogni volta che un letto si libera due anestesisti discutono con un rianimatore e uno specialista di medicina interna per decidere chi lo occuperà.

Età e condizioni mediche pregresse sono fattori determinanti. Così come avere una famiglia.

“Abbiamo bisogno di sapere se i pazienti più anziani hanno familiari in grado di prendersi cura di loro una volta usciti dalla terapia intensiva, dato che avranno bisogno di assistenza”, dice Marco Resta, vicedirettore del reparto di terapia intensiva del Policlinico San Donato.

“Anche se ormai non ci sono più speranze, bisogna guardare il paziente in faccia e dirgli ‘va tutto bene’. Una bugia che ci distrugge ogni volta”, spiega Resta.

La crisi sanitaria italiana più devastante dalla seconda guerra mondiale sta costringendo medici, pazienti e famiglie a prendere decisioni di cui Resta, ex medico impegnato in scenari di guerra, non ha memoria. I dati raccolti fino a lunedì mostrano che sono 2.158 i morti e 27.980 i contagi totali da coronavirus in Italia, la seconda nazione più colpita dopo la Cina.

Resta dichiara che il 50% dei pazienti ammessi in terapia intensiva per il COVID-19 in Italia muore, mentre in condizioni normali i morti negli stessi reparti si attestano tra il 12% e il 16%.

Secondo i medici, il sistema sanitario del Nord Italia - tra i migliori al mondo - si trova a gestire prima degli altri le criticità che il virus sta causando in altre parti del mondo. L’epidemia, che ha colpito per prime Lombardia e Veneto, ha paralizzato la rete ospedaliera regionale e ha messo le terapie intensive sotto forte pressione.

Giacomo Grasselli, direttore del reparto di terapia intensiva del Policlinico di Milano ha dichiarato che, in tre settimane, 1.135 persone hanno avuto bisogno di essere curate in terapia intensiva, con soli 800 posti disponibili in regione. Grasselli, pur operando in un ospedale diverso dal San Donato, si occupa di coordinare tutte le terapie intensive pubbliche della Lombardia.

Scelte di questo genere non sono nuove negli ospedali. Nel trattamento di pazienti con difficoltà respiratorie i medici valutano sempre le possibilità di sopravvivenza prima di procedere con l’intubazione, una procedura invasiva che consiste nell’inserimento di un tubo nella bocca dei pazienti fino alla gola e alle vie respiratorie.

Con numeri così alti, tuttavia, i medici si ritrovano a dover decidere molto più spesso e molto più in fretta chi può di lottare per la sopravvivenza, in un sistema di priorità particolarmente straziante per un paese cattolico in cui l’eutanasia non è consentita e in cui la popolazione è tra le più vecchie d’Europa, come confermato da Eurostat, secondo cui una persona su quattro in Italia ha dai 65 anni in su.

“Non siamo abituati a prendere decisioni così drastiche”, dice Resta, che ha 48 anni ed è anestesista.

TENTARE LA SORTE
Secondo i medici italiani, sono così tanti gli anziani malati di COVID-19 con problemi respiratori da non poter rischiare con chi ha poche speranze di guarigione.

Alfredo Visioli era uno di questi pazienti. Fino al momento della diagnosi, l’83enne di Cremona conduceva una vita attiva e vivace con un pastore tedesco di nome Holaf in casa, regalo dei familiari. L’uomo si prendeva cura della moglie di 79 anni, Ileana Scarpanti, che era stata colpita due anni fa da un infarto, ha raccontato la nipote Marta Manfredi.

All’inizio l’uomo presentava solamente una febbre costante, ma due settimane dopo la diagnosi di COVID-19 ha sviluppato una fibrosi polmonare, una malattia che danneggia e cicatrizza i tessuti polmonari e causa difficoltà respiratorie.

I medici dell’ospedale di Cremona, che conta circa 73.000 abitanti, si sono trovati al punto di dover scegliere se intubare o meno l’uomo per permettergli di respirare.

“Ci hanno detto che era inutile”, ha detto la nipote di Manfredi.

La ragazza avrebbe voluto tenere la mano del nonno mentre si trovava in sedazione profonda da morfina prima di morire e ora teme per la salute della nonna, Ileana, che ha contratto il virus e sta però rispondendo bene al respiratore. Nessuno ha ancora detto a Ileana che il marito è morto.

Secondo il coordinatore delle terapie intensive della Lombardia Grasselli, fino a questo momento tutti i pazienti con effettive possibilità di guarigione e con buone prospettive di vita sono stati presi in cura, aggiungendo però che questo metodo è ora in discussione. “Prima, per alcuni pazienti avremmo detto ‘diamogli una possibilità per qualche giorno ancora’, mentre ora dobbiamo essere più rigidi”.

RIORGANIZZAZIONE DEGLI OSPEDALI
Il triage si applica anche al di fuori degli ospedali.

Venerdì scorso il sindaco di Fidenza, in Emilia Romagna, ha chiuso l’accesso all’ospedale comunale per 19 ore. Il presidio era occupato da pazienti di malati di COVID-19 ben oltre le sue capacità e il personale ospedaliero lavorava ormai da 21 giorni senza sosta. Sebbene la chiusura mirasse a preservare il buon funzionamento dell’ospedale, ha anche causato la morte di molte persone in casa, ha dichiarato il sindaco Andrea Massari.

Il nuovo coronavirus è comparso in Italia per la prima volta in gennaio a Codogno, una cittadina a 60 km da Milano. Secondo alcuni esperti il virus è stato portato da qualcuno che viaggiava dalla Germania all’Italia.

L’Italia si è mossa subito per isolare il Nord, chiudendo innanzitutto 10 città in Lombardia e una in Veneto, ma invano. La settimana successiva, i tamponi di 888 persone sono risultati positivi e 21 sono morte. I casi sono aumentati esponenzialmente e gli ospedali delle piccole cittadine, le prime a essere colpite, sono andati subito sotto stress.

Dalla scorsa settimana, l’Italia è entrata in totale isolamento. Scuole e uffici sono chiusi e vige il divieto di uscire di casa senza autorizzazione o in mancanza di comprovate necessità. Le misure, che sono state prese in seguito anche da altri stati europei, mirano a fermare la diffusione del virus.

Le autorità italiane scongiurano la diffusione specialmente al Sud, dove il sistema ospedaliero è molto meno attrezzato.

Gli ospedali privati, solitamente riservati ai servizi a pagamento, sono stati obbligati dal governo a offrire assistenza gratuita per pazienti affetti da COVID-19. Il Policlinico San Donato, gestito da privati ma autorizzato a curare pazienti del settore pubblico, ha inviato squadre di anestesisti e specialisti nelle città maggiormente colpite. Studenti al quarto e quinto anno di medicina sono stati chiamati a prestare aiuto negli ospedali e molti cardiologi sono stati messi in lista per assistere nei pronto soccorso e nei reparti che trattano pazienti colpiti da COVID-19.

A oggi, la quasi totalità dei reparti operativi della regione Lombardia è stata convertita in reparti di terapia intensiva, ha detto Grasselli. Il personale sanitario fa continuamente straordinari. Qualcuno sostituisce un collega che ha contratto il virus. I pazienti vengono trasferiti tra le diverse regioni.

Secondo Grasselli, il rapporto tra infermieri e pazienti nei reparti di terapia intensiva della regione è solitamente di uno a due, mentre al momento è di uno a quattro o cinque. “Abbiamo riorganizzato interamente il sistema interno dell’ospedale”, ha spiegato.

“MAGGIORE ASPETTATIVA DI VITA”
“Tutti i malati che arrivano all’ospedale con difficoltà respiratorie ricevono l’ossigeno”, ha detto Grasselli. “Il problema è decidere in quale modalità e per quanto tempo mantenerli attaccati al respiratore artificiale”.

I pazienti con problemi lievi sono attaccati a una macchina attraverso una maschera o, se il paziente non risponde alle cure, un casco che copre interamente il viso. Se le loro condizioni peggiorano i medici devono decidere se ammetterli alla terapia intensiva, dove verrebbero intubati.

“Il problema è che l’intubazione può avere effetti estenuanti sul corpo dei pazienti, specialmente in quelli più anziani”, dichiara Grasselli. “Anche se riescono a sopravvivere, molti dei pazienti più anziani rischiano di sviluppare altre problematiche, come difficoltà motorie o cognitive. Nonostante questo, prima del virus i dottori avevano la tendenza a intubare anche i pazienti più anziani, semplicemente perché avevano strumenti e risorse necessari”, prosegue Grasselli precisando che non intuberebbe mai suo padre di 84 anni.

Prima dello scoppio dell’epidemia, “potevamo permetterci molto più spesso il lusso di provare a salvare un paziente al limite intubandolo”, dichiara Mario Riccio, direttore del reparto di anestesia all’ospedale Oglio Po nei pressi di Cremona.

Ora tutto è cambiato. L’Associazione italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti) ha pubblicato delle nuove linee guida il 7 marzo. Prevedendo “una forte discrepanza” tra le necessità assistenziali della popolazione e le risorse delle terapie intensive nelle settimane a venire, ha ordinato a chi sta in prima linea di dare priorità a chi ha “una maggiore aspettativa di vita”.

“LASCIAMI MORIRE A CASA”
In Italia la quarantena di massa aggiunge sofferenza alla sofferenza. I familiari non hanno il permesso di viaggiare nelle ambulanze con i parenti malati e i reparti dedicati al coronavirus non permettono l’ingresso a chi non sia un dottore o un paziente.

Alcuni malati che non necessitano ancora della terapia intensiva si sentono intrappolati nelle corsie sovraffollate.

“Portami via da qui. Lasciami morire a casa. Voglio vederti un’ultima volta”, ha scritto in un messaggio alla moglie casalinga un magazziniere di 55 anni dal reparto di terapia pre-intensiva del Policlinico San Donato, dove è in cura per una polmonite dopo aver contratto il virus.

I due non si vedono da quando due settimane fa lei l’ha portato in macchina davanti alla porta dell’ospedale milanese. Tutto quel che la donna sa è che le condizioni del marito sarebbero migliorate negli ultimi giorni. “Ci sono cose che un marito non dovrebbe (dover) scrivere alla moglie che è fuori e non può vederlo”, aggiunge.

Alcuni pazienti più anziani si sono rifiutati di andare in ospedale. Carlo Bertolini, agronomo cremonese di 76 anni, che in zona si è fatto un nome per aver tracciato una storia dettagliata delle antiche vigne e taverne di Cremona, si era dimostrato parecchio restio a chiedere aiuto, inizialmente, racconta la figlia.
Bertolini, che viveva da solo, ha iniziato a stare male all’inizio di marzo ed è stato il suo migliore amico a chiamare un’ambulanza per trasportarlo in ospedale a Cremona. La figlia Mara racconta che telefonandole dall’ospedale ha detto di sentirsi “come in guerra” per descrivere il numero impressionante di pazienti e il frastuono del reparto.
Carlo è stato in seguito trasferito nella terapia intensiva di un ospedale più grande a Milano. Mara e sua sorella sono riuscite ad andare a trovarlo indossando una tuta protettiva (maschera, guanti e tuta bianca) solo per guardarlo dal vetro della stanza. “Ci hanno detto che era il paziente più grave in reparto”, ha detto.

“RESTATE A CASA”
Resta ha detto che la situazione in Lombardia sembra ben peggiore della guerra del 1999 in Kosovo, dove serviva nella squadra del soccorso aereo che si occupava di trasportare pazienti dall’Albania all’Italia.

Ogni volta che un paziente malato di coronavirus viene ammesso nel suo ospedale, il personale scrive una mail ai parenti per rassicurarli che i loro cari verranno trattati “come nostri familiari”. L’ospedale, spiega, sta tentando di attivare un sistema di video chiamate per consentire ai pazienti di vedere i parenti durante la telefonata delle 13,00.

Un dottore e non un parente è spesso inevitabilmente l’ultima persona che una persona malata di COVID-19 vedrà prima di morire. I cari non possono nemmeno avvicinarsi alla bara per il rischio di contrarre il virus.

L’ultima notizia che Mara Bertolini ha ricevuto su suo padre è giunta dall’obitorio, che ha contattato un altro membro della famiglia per comunicare che il corpo era lì.

Mara non porta alcun rancore verso i medici e ne loda la dedizione. Ciò che più l’ha colpita dell’ultima settimana di sofferenza del padre è stato lo sguardo del medico l’ultima volta che l’ha incontrato.

“Non saprei dire se fosse di preoccupazione o di tristezza”, ha detto. “Tutto ciò che è riuscito a dirci è stato ‘Restate a casa’”.

Tradotto da Redazione Danzica, in Redazione a Roma Francesca Piscioneri, [email protected]
 

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