Ma ciò che l’uomo certamente può fare è lo sfiguramento dell’immagine, la contraddizione interiore con essa. Qui occorre citare ancora una volta Lakner: “...la forza divina riluce proprio nel laceramento causato dalle contraddizioni... in questo mondo l’uomo come immagine di Dio è pertanto l’uomo crocifisso”. Fra la figura dell’Adamo terreno formato dal fango, che Cristo in comune con noi ha assunto nell’incarnazione e la gloria della resurrezione sta la croce: il cammino dalle contraddizioni e dagli sfiguramenti dell’immagine verso la conformazione con il Figlio, nel quale si manifesta la gloria di Dio, passa attraverso il dolore della croce. Fra i Padri della Chiesa, Massimo il Confessore ha più di altri riflettuto su questa connessione fra somiglianza divina e croce.
L’uomo, che è chiamato alla “sinergia”, alla collaborazione con Dio, si è invece posto in opposizione a lui. Questa opposizione è “un’aggressione alla natura dell’uomo”. Essa “sfigura il vero volto dell’uomo, l’immagine di Dio, poiché distoglie l’uomo da Dio e lo rivolge verso se stesso ed erige fra gli uomini la tirannia dell’egoismo”. Cristo dall’interno della stessa natura umana ha compiuto il superamento di questo contrasto, la sua trasformazione in comunione: l’ubbidienza di Gesù, il suo morire a se stesso, diviene il vero esodo, che libera l’uomo dal suo decadimento interiore conducendolo all’unità con l’amore di Dio.
Il crocifisso diviene così la vivente “icona dell’amore”; proprio nel crocifisso, nel suo volto scorticato e percosso, l’uomo diventa nuovamente trasparenza di Dio, l’immagine di Dio torna a rilucere. Così la luce dell’amore divino riposa proprio sulle persone sofferenti, nelle quali lo splendore della creazione si è esteriormente oscurato; perché esse in modo particolare sono simili al Cristo crocifisso, all’icona dell’amore, si sono accostate in una particolare comunanza a colui, che solo è la stessa immagine di Dio.
Possiamo estendere a loro la parola, che Tertulliano ha formulato in riferimento a Cristo: “Per misero che possa essere stato il suo corpo..., esso sarà sempre il mio Cristo...” (Adv. Marc. III,17,2). Per grande che sia la loro sofferenza, per quanto sfigurati e offuscati possano essere nella loro esistenza umana – essi saranno sempre i figli prediletti di nostro Signore, ne saranno sempre in modo particolare l’immagine. Fondandosi sulla tensione fra nascondimento e futura manifestazione dell’immagine di Dio possiamo del resto applicare alla nostra questione la parola della prima Lettera di Giovanni: “noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (3,2).
Noi amiamo in tutti gli esseri umani, ma soprattutto nei sofferenti, nei disabili mentali, ciò che essi saranno e ciò che essi in realtà già sono fin d’ora. Già fin d’ora essi sono figli di Dio – ad immagine di Cristo, anche se non è ancora manifesto ciò che essi diverranno. Cristo nella croce si è definitivamente assimilato ai più poveri, ai più indifesi, ai più sofferenti, ai più abbandonati, ai più disprezzati. E fra questi, vi sono coloro di cui il nostro colloquio oggi si occupa, coloro la cui anima razionale non arriva ad esprimersi perfettamente per mezzo di un cervello infermo o malato, come se, per una ragione o per un’altra, la materia resistesse ad essere assunta da parte dello spirito. Qui Gesù rivela l’essenziale dell’umanità, ciò che ne è il vero compimento, non l’intelligenza, né la bellezza, ancor meno la ricchezza o il piacere, ma la capacità di amare e di acconsentire amorosamente alla volontà del Padre, per sconcertante che esso sia.
Ma la passione di Gesù sfocia nella sua resurrezione. Il Cristo risuscitato è il punto culminante della storia, l’Adamo glorioso verso il quale tendeva già il primo Adamo, l’Adamo “terreno”. Così si manifesta il fine del progetto divino: ogni uomo è in cammino dal primo al secondo Adamo. Nessuno di noi è ancora pienamente se stesso. Ciascuno deve diventarlo, come il grano di frumento che deve morire per portare frutto, come il Cristo resuscitato è infinitamente fecondo perché si è infinitamente donato.
Una delle grandi gioie del nostro paradiso sarà senza dubbio scoprire le meraviglie che l’amore avrà operato in noi, e che l’amore avrà operato in ciascuno dei nostri fratelli e sorelle, e nei più colpiti, nei più sofferenti fra di essi, mentre noi non comprendevamo neppure come l’amore era possibile da parte loro, mentre il loro amore rimaneva nascosto nel mistero di Dio. Sì, una delle nostre gioie sarà di scoprire i nostri fratelli e sorelle in tutto lo splendore della loro umanità, in tutto il loro splendore di immagini di Dio.
La Chiesa crede, fin da oggi, a questo splendore futuro. Essa vuole essere attenta e sottolineare anche il minimo segno che già lo lasci intravvedere. Perché, nell’al di là, ciascuno di noi brillerà tanto più quanto più avrà imitato il Cristo, nel contesto e con le possibilità che gli saranno state date.
Ma mi sia permesso qui di rendere testimonianza all’amore della Chiesa per le persone mentalmente sofferenti. Sì, la Chiesa vi ama. Essa non ha verso di voi solo la “predilezione” naturale della madre per i più sofferenti dei suoi figli. Essa non resta ammirata solo davanti a ciò che voi sarete, ma a ciò che voi già siete: immagini di Cristo.
Immagini di Cristo da onorare, da rispettare, da aiutare nella misura del possibile, certamente, ma soprattutto, immagini di Cristo portatrici di un messaggio essenziale sulla verità dell’uomo. Un messaggio che tendiamo troppo a dimenticare: il nostro valore davanti a Dio non dipende né dall’intelligenza, né dalla stabilità del carattere, né dalla salute che ci permettono molteplici attività di generosità. Questi aspetti potrebbero sparire in ogni momento. Il nostro valore davanti a Dio dipende solamente dalla scelta che avremo fatto di amare il più possibile, di amare il più possibile nella verità.
Dire che Dio ci ha creati a sua immagine, significa dire che egli ha voluto che ciascuno di noi manifesti un aspetto del suo splendore infinito, che egli ha un progetto su ciascuno di noi, che ciascuno di noi è destinato a entrare, per un itinerario che gli è proprio, nell’eternità beata. La dignità dell’uomo non è qualcosa che si impone ai nostri occhi, non è misurabile né qualificabile, essa sfugge ai parametri della ragione scientifica o tecnica; ma la nostra civiltà, il nostro umanesimo, non hanno fatto progressi se non nella misura in cui questa dignità è stata più universalmente e più pienamente riconosciuta a sempre più persone.
Ogni ritorno indietro in questo movimento di espansione, ogni ideologia o azione politica che estromettesse alcuni esseri umani dalla categoria di coloro che meritano rispetto, segnerebbero un ritorno verso la barbarie. E noi sappiamo che sfortunatamente la minaccia della nostra barbarie pende sempre sui nostri fratelli e sorelle che soffrono di una limitazione o di una malattia mentale. Uno dei nostri compiti di cristiani è di far riconoscere, rispettare e promuovere pienamente la loro umanità, la loro dignità e la loro vocazione di creature ad immagine e somiglianza di Dio.
Vorrei approfittare di questa occasione che mi è offerta per ringraziare tutti coloro, e sono qui numerosi, che con la riflessione o la ricerca, lo studio o le diverse cure, si impegnano a rendere sempre più riconoscibile questa immagine.
Sua Eminenza il Cardinale JOSEPH RATZINGER
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede