Ma a chi ha fatto male Ricucci?
Nessuno danneggiato dalle sue azioni
Oscar Giannino su Libero di venerdì 21 aprile
Caro direttore, non ti arrabbiare. La premessa obbligata ai lettori di Libero - ché non pensino male di me, o di te come fossi impazzito - è che non ho il piacere di aver mai conosciuto Stefano Ricucci. Né alcuno dei suoi collegati. Né familiari. Compresa - ohimé - quell'Anna Falchi che tutti noi giornalisti dovremmo accuratissimamente tener fuori dalle vicende tumultuose d'affari che riguardano il marito, se solo fossimo dei gentiluomini e non degli allupati furieri da caserma.
La premessa è dovuta. Perché non vorrei si pensasse male. Ma c'è un fatto insolito, che avviene in questi giorni. E da gazzettieri senza epos fuori luogo né eroismi millantati quali siamo, bisognerà pure che qualcuno allora ne dia atto, lo racconti e cerchi di spiegarlo. Il fatto è questo. Stefano Ricucci langue da due giorni nel carcere romano di Regina Coeli, arrestato per aggiotaggio informativo e violazione del segreto d'ufficio. Anche noi inguaribili garantisti, che diffidiamo per principio dal fatto che siano i pubblici ministeri e il diritto penale a dover far da regolatori e guardiani dei mercati finanziari, nel recente passato abbiamo dovuto fare i conti con l'inevitabile reazione giustizialista, insomma con un certo esteso plauso popolare quando le manette sono scattate ai polsi di prìncipi della frode come Calisto Tanzi, o come Gianpiero Fiorani.
Non parlo del trionfalismo assai sospetto intonato a cappella dai grandi giornaloni confindustriali quando le Procure hanno smantellato gli assalti al cielo banco-industriali tentati nel 2005. Perché in quel caso il trionfalismo si spiegava bene: erano gli assediati nei fortini del malcerto equilibrio dell'attuale Mediobanca riprodotto in Rcs, a gioire dell'olio bollente riversato a carrettate sulla testa di chi, senza il consenso della cupola dominante e per di più con un governatore in Bankitalia che aveva cambiato fronte, tentava di acquisire il controllo di banche come Antonveneta e Bnl. Che i giornali mediobancheschi e confindustriali gioissero, era più che giustificato: si trattava di difendere con le unghie e con i denti il potere dei loro padroni stretti in patti di sindacato chiusi al mercato. E che ci pensassero le Procure ispirate dall'indirizzo autorevole del professor Guido Rossi, diventato una sorta di centrale unica dei sigillo di garanzia per la contendibilità proprietaria italiana e per non aver noie penali, a quei giornali lì non poteva che sembrare una provvidenziale mano dal cielo.
Ma, al di là di quello, era la reazione popolare, che per parecchi versi riecheggiava quella all'arresto dei politici accusati di corruzione ai tempi di Mani Pulite. Per i correntisti lodigiani traditi e frodati nei loro depositi da Fiorani, per i soci di Antonveneta tenuti all'oscuro delle vere poste di bilancio e di affidamenti di comodo per cifre astronomiche garantiti a prestanome per far lucrare il management della Popolare italiana, era in qualche modo motivo di soddisfazione, saperlo in carcere. Per quanto ingiusto fosse che in carcere fosse finito solo lui, e ci restasse per quattro mesi, mentre altri grandi banchieri italiani non vengono neanche scalfiti, da misure giudiziarie per vicende non meno rilevanti, e anzi tornino trionfalmente a esercitare il loro ruolo di riverito comando. Parlo naturalmente di quel che è accaduto a Capitalia ieri: cosa che al garantista non può che far piacere, naturalmente.
Con la differenza che il garantista avrebbe l'insana pretesa che ciò che vale per un banchiere romano vale anche per un banchiere del Nord, e viceversa. Lasciamo perdere poi quanto ampia e diffusa fosse la soddisfazione popolare all'arresto del cavalier Tanzi, mister 14 miliardi di euro di buco. Senonché questa volta - eccoci al fatto inusuale - per Ricucci al gabbio l'esultanza popolar non c'è. Non solo è assai più contenuta. Molti lettori riservatamente ti chiamano al telefono e ti mandano mail, vogliono sapere che cosa ne pensi, perché insomma Ricucci da Zagarolo a loro non dico che stia simpatico, ma di certo considerano lontano un milione di miglia da quel figuro "socialmente pericoloso" che è descritto nelle 20 cartelle del mandato di arresto spiccato nei suoi confronti. Alla prima telefonata, caro direttore, puoi pensare che si tratti della simpatia ingenerata da migliaia di pagine di settimanali rosa e popolari, per le vicende mondane collegate alla compagna di Ricucci, al suo modo colorito di esprimersi, al fatto che qualcuno ricordi che a proposito di Bnl agli altri concertisti Ricucci aveva proposto di formalizzare in piena luce il proprio patto, invece di restare nell'ombra.
Ma quando mail e telefonate si infittiscono, allora il fatto è diverso. E una spiegazione inizia a essere dovuta. La mancata òla tifoidea agli schiavettoni per Ricucci ha infatti a ben vedere almeno tre spiegazioni oggettive. Grandi come una casa. E tanto vale allora spararle fuori. Prima ragione. Ma a chi ha fatto danno, Ricucci? Alle grosse: a nessuno. Non ai suoi soci, perché la sua Magiste, posta sotto occhiuto controllo dai pm milanesi che l'hanno affidata all'avvocato Vittorio Ripa di Meana, non era né quotata né aveva soci terzi ai quali Ricucci nascondeva le propri spericolate manovre ed eventuali ammanchi. Non al popolo dei risparmiatori: perché Ricucci mica ha emesso bond piazzati dalle banche e andati in fumo per centinaia di milioni di euro svaniti dalle tasche di famiglie e pensionati italiani, com'è avvenuto per i casi Cirio e Parmalat.
A dirla tutta, a chi ha investito in titoli Res negli ultimi due anni lo tsunami della tentata scalata portata da Ricucci ha fatto solo bene: ha portato un titolo che languiva poco sopra i 3 euro fino a oltre i 6 nell'agosto del 2005, e dopodiché a tenere stabilmente la quota tra i 4,25 e i 4,5 euro da inizio anno ad oggi. Dirai tu, caro direttore, che i soci delle banche che prestavano le cifre stellari a Ricucci perché comprasse i titoli che scalava di certo non son contenti. Però Ricucci dava in pegno alle banche stesse i titoli per cui era finanziato, tanto che è la Popolare italiana - a sua volta "risanata" dai pm - a dover proprio in questi giorni liquidare il 14,5% di titoli Rcs accumulati da Ricucci nel tentato raid. Ragione numero due. Magari questa è solo per addetti ai lavori. Ma fatto sta che al reato di aggiotaggio informativo per il quale sono scattate le manette a Ricucci, in apparenza manca uno dei presupposti costitutivi. Ricucci viene accusato, intercettazioni alla mano, di aver continuato a comprare piccoli quantitativi di titoli Res anche negli ultimi mesi, quando il suo gruzzolo era già sotto sequestro per ordine dei pm, al fine che le dichiarazioni d'acquisto a prezzi artefatti manipolassero l'andamento del titolo Res in Borsa.
Obiettivo, che la liquidazione del 14,5% detenuto dalla Popolare Italiana avvenisse a un prezzo non troppo lontano, da quello al quale Ricucci aveva comprato nel 2005. Senonché, se uno analizza la curva del titolo Rcs da gennaio 2006 in avanti, constata facilmente che il prezzo sta buono buono nella forchetta tra 4,25 e 4,5 euro, E l'unica volta che sfora il tetto è un mese fa, quando si diffonde la notizia poi rivelatasi infondata che interessati a rilevarne una quota erano i Benetton. Non era stato Ricucci l'autore di quell'indiscrezione. Che cavolo di manipolazione del titolo è mai, quella di un titolo che non si schioda? Basta l'intenzione del reato, a perseguire un reato come tale? Poveri noi, se questo è il metro non scampa nessuno. Terzo elemento, quello di fondo. Su Panorama di oggi Paolo Mieli rivela che si aspetta altri attacchi al Corriere. Perché dietro Ricucci c'erano di sicuro burattinai altolocati.
Ecco, caro direttore, io ho come l'impressione che ad alcuni milioni di italiani inizi ad essere chiaro, che la sparuta pattuglia di banchieri e industriali rinchiusa nei patti di sindacato che governano l'asfittico capitalismo italiano non è per definizione meritoria di quell'aureola di santità che pretende, rispetto al demone assalitore Ricucci. Sbaglierò, ma in tanti cominciano a ricordare che la IfiIfil degli Agnelli ha mentito al mercato, la scorsa estate, nascondendo che si stava rimpadronendo dell'azionariato di riferimento Fiat a danno delle banche che le avevano prestato tre miliardi e che dovevano diventare prime socie. Convertendo il prestito. Ma di Ifi e Ifil nessuno è andato in carcere. Naturalmente. I due pesi e le due misure sono la fotografia di un capitalismo malato. Dove Ricucci finisce per fare la parte dell'eroe. Per quanto pazzo, millantatore, sbruffone e illetterato. Una pazzesca simpatica canaglia.
Che però ci ha aiutato tutti a dire una verità: il Corriere della Sera non è affatto un tempio della sacertà o un'istituzione della Repubblica. È uno strumento di potere, e come tale viene usato dai suoi 15 padroni, e difeso con determinazione da chi lo dirige.