Cina e l'inflazione della carne di maiale

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La Cina tra “ciclo del maiale” e mercato del lavoro in stallo strutturale

Di Mauro Bottarelli , il 17 agosto 2015 - 1 commento
La Cina tra "ciclo del maiale" e mercato del lavoro in stallo strutturale - Rischio Calcolato | Rischio Calcolato


Dopo tanta America, che comunque tornerà molto presto in risposta all’iniziativa editoriale de “La Stampa” per l’estate (un viaggio-reportage nella ripresa statunitense), torniamo agli amici cinesi. I quali, venerdì scorso, hanno davvero dato il meglio di sé e lo hanno fatto per via ufficiale. Attraverso il suo microblog, la China Securities Regulatory Commission (CSRC) ha infatti annunciato che “per un certo numero di anni a venire, la China Securities Finance Corporation non uscirà dal mercato. La sua funzione di stabilizzazione dello stesso non cambierà”. Ovvero, il mega-broker di Stato resterà permanentemente in servizio attivo, pronto a bloccare a suon di yuan crolli indesiderati. Insomma, la versione in salsa di soya del “Plunge Protection Team” della Fed è nata ufficialmente.
Ma c’è confusione in Cina, perché la stessa CSRC, lo stesso giorno, ha rilasciato anche la seguente dichiarazione: “Con le fluttuazioni del mercato che gradualmente stanno spostandosi verso la normalità, dopo essere state selvagge e anormali, dovremmo lasciare che il mercato eserciti la sua funzione di auto-aggiustamento”! Va beh, cosa volete farci, loro ci provano ad essere credibili ma lo sono quanto Cassano quando promette di aver messo la testa a posto o Gascoigne come testimonial di una campagna anti-alcool..
In compenso, però, la dinamica di cui vi parlavo qualche settimana fa, ovvero il “pork cycle” determinato dall’aumento dei prezzi della carne di maiale, principale voce nel paniere inflazionistico cinese, si è palesata, come ci mostra questo grafico,

visto che i prezzi sono saliti del 17,4% da marzo all’interno del paniere CPI e nel mese di luglio sono saliti su base annua del 16,7%, pesando per la metà della lettura sul tasso di inflazione dell’1,6% su base annua. Ma quest’altro grafico,

ci mostra che l’attuale ciclo è simile ai due precedenti in termini di offerta, entrambi molto pesanti per l’economia del Paese ma è considerevolmente peggiore. E quest’altro grafico,

mostra come il trend dei prezzi sia destinato a salire ancora nei prossimi mesi, portando il dato CPI sopra il 2% ma difficilmente in area 3%: comunque sia, è difficile operare sui tassi o sui requisiti di riserva in tempi di aumento dell’inflazione.
Quindi, l’eventuale stimolo che il governo potrà operare non sarà all-in, qualcosa in stile QE ma una sorta di operazione chirurgica al fine di non mandare completamente fuori controllo la fiammata inflazionistica.

Di più, l’inflazione dovuta all’offerta è per sua natura deflazionistica, visto che prezzi più alti della carne di maiale strizzeranno gli altri consumi in assenza di un’accelerazione nella crescita dei redditi.
Quindi, difficilmente si potrà tentare la via di un’iniezione di liquidità su base ampia.In compenso si sta svalutando lo yuan, ufficialmente per aumentare l’export. Al netto di un circa 4% di svalutazione che non smuove una virgola se non si prosegue e non si arriva almeno al 10-15%, forse a spingere verso questa decisione la PBOC potrebbe essere stata una preoccupante dinamica nel mondo del lavoro cinese, come ci mostra questo grafico.

Per un certo periodo, il mercato cinese ha vissuto su due pilastri, ovvero cittadini che dalle aree rurali si spostavano in città per cercare lavoro e lavoratori di una certa età che uscivano dal mercato. Questa dinamica ha portato la ratio tra lavori offerti e persone in cerca di lavoro al rialzo dal 2010 fino alla fine del 2014, indicando che l’economia cinese era al limite della capacità di offerta e che ogni tipo di stimolo economico avrebbe avuto un impatto limitato.
Poi, qualcosa è cambiato. Quella ratio è cominciata a scendere nettamente all’inizio di quest’anno, di fatto portando a un breakdown del trend rialzista che deve aver colpito e non poco l’attenzione delle autorità. Tanto più che questa dinamica sottolinea e evidenzia la severità reale del rallentamento economico in atto in Cina, di fatto spingendo il governo a intervenire,

prima con l’investimento in progetti infrastrutturali,
poi con l’allentamento delle regole sui mutui residenziali

e infine con la svalutazione dello yuan.


Il problema è che con il trend demografico che vede la popolazione in età da lavoro che comincia a ritirarsi, l’unico modo per far crescere l’economia è attraverso una più alta produttività per unità di lavoro, la quale però richiede un’allocazione efficiente della risorse attraverso l’intero spettro economico. E questo, al netto del comunismo di facciata, non lo si ottiene attraverso lo stanziamento di risorse enormi in progetti faraonici di investimenti pubblici destinati a diventare ghost-town o autostrade verso il nulla. Insomma, un processo che richiederà anni. Ma forse, la Cina, non ha anni a disposizione di fronte a sé, deve agire prima, vista anche questa dinamica di debito, destinata a toccare il 250% del Pil in cinque anni.


E se non lo farà con le riforme, dovrà farlo ancora con la manipolazione. Altrimenti il driver della crescita rischierà di far grippare l’economia globale.
Sono Mauro Bottarelli,
 
Wall Street ancora non l’ha capito, ma la Cina darà fuoco alle polveri


di David Stockman
http://davidstockmanscontracorner.com/wall-street-still-didnt-get-the-memo-chinas-done-tops-in/
Scott Wapner ha quasi sfondato a testate il grande schermo mentre descriveva le vendite sul mercato azionario statunitense. Erano completamente ingiustificate, ha tuonato, perché la Cina non ha niente a che fare con nulla.
Questa cheerleader della CNBC sosteneva che il mercato azionario cinese non è mai stato correlato con l’ economia americana, e, in ogni caso, l’economia cinese ha scarsa influenza sull’S&P 500 perché la Cina rappresenta solo il 14% del PIL mondiale.
Oltre a questo, il mercato azionario cinese è esattamente quello che Yogi Berra ha detto circa il suo ristorante preferito: è così affollato che ormai non ci va più nessuno!
Cioè, secondo le teste di legno dello zombie-box le famiglie cinesi non giocano più in borsa. Poche di loro possiedono azioni, solo il 20% della ricchezza delle famiglie rispetto al 65% negli Stati Uniti.
Abbastanza da riempire un po’ di bilanci con qualche prestito. Acquistate durante i ribassi!
Infatti è stato esattamente ciò che hanno fatto gli insensibili robo-trader con l’S&P 500 lunedì scorso.
Per quanto riguarda gli esseri umani presumibilmente senzienti, il consiglio migliore sarebbe quello di stare alla larga da questa bisca clandestina. La verità è che la Cina non è uno show secondario; è il nucleo radioattivo dell’intera bolla globale.
Inutile dire che i giocatori d’azzardo a Wall Street sono così ignari di questa realtà fondamentale, che non riescono nemmeno a vedere i fatti evidenti riguardanti la Cina — per non parlare delle sabbie mobili dentro cui è finita l’intera economia globale.
Il meme del giorno — che la Cina non ha così tanti giocatori d’azzardo — è davvero esilarante. In lungo e in largo, la versione cinese del capitalismo rosso si è evoluta nella più grande bisca clandestina nella storia. È una gigantesca scommessa — dai 60 milioni d’appartamenti vuoti, alle città fantasma e centri commerciali, ai ponti infiniti, alle autostrade e aeroporti verso il nulla. È stato buttato più cemento in tre anni in Cina rispetto a quello negli Stati Uniti durante tutto il ventesimo secolo.
Ma il monito odierno di Wall Street, di procedere oltre perché non c’è nulla da vedere nel tonfo delle borse rosse, è qualcosa di assolutamente paradossale. In realtà, il calo dell’8.5% di ieri sul mercato di Shanghai è solo uno shock d’avvertimento; si tratta di un avviso riguardante terremoti finanziari su scala globale che intaccheranno l’esercito degli “acquirenti durante i ribassi” a New York, a Londra e altrove.
In primo luogo, nel mercato azionario cinese ci sono 90 milioni di famiglie, la maggior parte di loro sepolta sotto il debito marginale. Sono titolari di 258 milioni di conti di trading e una parte significativa di questi è stata aperta proprio l’anno scorso da allevatori cinesi, autisti di autobus e fornitori di banane, tra i milioni di altri quasi-alfabetizzati.
Il paese è impazzito speculando in azioni, proprio come ha fatto con gli appartamenti vuoti, le miniere di carbone, gli orologi costosi, le slot machine a Macao, i vini pregiati, le scorte di rame e quasi tutto quello che può essere comprato e venduto. Così, quando i signori di Pechino andranno in modalità panico per il tonfo del mercato azionario, avranno dalla loro una ragione più che valida: ci sono più conti di trading nei loro casinò rossi che persone in Giappone, Corea, Thailandia e Malesia messi insieme!
Temono l’ira delle decine di milioni di cinesi benestanti che di recente sono stati attirati nel mercato azionario? Sì, e per una buona ragione. Vale a dire, se il mercato azionario si schianterà di nuovo — allora la posta in gioco non sarà rappresentata solo dai miliardi di dollari di ricchezza di carta, ma dalla credibilità del sistema stesso.
Dopo tutto, anche nelle sale da gioco febbrili della Cina si noterà l’assenza di $7,000 miliardi e ci si interrogherà sulle implicazioni che avrà sullo schema di Ponzi di Pechino. Vale a dire, al picco del 13 giugno l’indice di Shanghai è stato tradato al 70X dei guadagni annuali delle sue società costituenti. Se queste valutazioni dovessero essere ri-valutate ad un 30X, l’indice di Shanghai precipiterebbe di nuovo al suo livello di un anno fa, vaporizzando i già citati $7,000 miliardi.
La verità è che il mercato azionario cinese non arriva nemmeno a quel 30X, perché l’intero schema di Ponzi si sta sfaldando. L’economia cinese è pregna di cattivi investimenti ed eccessi improduttivi — mai visti fino ad ora in un’economia industriale moderna.
Di conseguenza, mentre è impossibile valutare l’entità e la tempistica dell’hard landing ormai imminente, una cosa è certa: la quasi impossibilità che un’economia passata da un debito da $2,000 miliardi a $28,000 miliardi in soli 14 anni — un’economia che, tra le altre cose, non ha alcuna norma sul diritto contrattuale o anche una parvenza di mercati dei capitali onesti — possa evitare un crollo deflazionistico.Detto in altro modo, i profitti sono già quasi scomparsi in settori come quello del carbone, dell’acciaio, dell’alluminio e del cemento; ora stanno scomparendo anche quelli nella costruzione navale, nelle macchine scavatrici, negli impianti solari e in altri beni d’investimento; e presto scenderanno anche quelli nel settore del consumo, soprattutto in quello automobilistico. Come il Giappone a metà degli anni ’90, la Cina si sta dirigendo verso un’era di deflazione senza profitti poiché la baldoria del credito facile sta volgendo al termine.

In breve, le aziende cinesi non rispecchiano affatto la valutazione del mercato azionario del luglio scorso, e tanto meno il loro attuale picco pericoloso.
Ed è qui che arrivano i problemi.
I suzerain di Pechino hanno giocato le loro carte. Non possono permettersi di pompare più credito fiat nel mercato azionario, il che significa che l’unica possibilità rimasta è quella d’arrestare i venditori come nemici dello stato.

Inutile dire che il capitalismo rosso non è la stessa cosa del socialismo rosso di Mao. Quest’ultimo riteneva che il potere fuoriuscisse dalla canna di un fucile, e se i nodi venivano al pettine, le carceri piene e i plotoni d’esecuzione avrebbero fatto rispettare i dettami del regime. Infatti, anche dopo che Mao denudò scioccamente la campagna dagli uccelli insettivori e dagli attrezzi agricoli durante il Grande Balzo in Avanti, il regime sopravvisse nonostante i 40 milioni di morti per le carestie.


Ma sin dai tempi di Deng, il potere del Partito Comunista Cinese è fuoriuscito da una stampante monetaria, e ora la PBOC è finita nei guai. Questo perché la Cina è ormai sull’orlo di una massiccia fuga di capitali.
Negli ultimi cinque trimestri ha subito un’emorragia da $800 miliardi a causa di deflussi di capitali privati. Questa cifra sconcertante rappresenta la somma delle sue eccedenze delle partite correnti più il calo delle sue riserve ufficiali. Detto in modo diverso, se i $400 miliardi d’eccedenze delle partite correnti della Cina fossero state aggiunte alle sue riserve, il suo saldo ammonterebbe a $4,500 miliardi, non a $3,700 miliardi. La differenza è una fuga massiccia di capitali, come illustrato nel grafico qui sotto..
Un sistema che sopravvive grazie alla stampante monetaria è destinato a morire. Di conseguenza, Pechino non può aprire il rubinetto del credito ancora una volta senza aggravare ulteriormente la fuga di capitali di cui sta soffrendo.
Così l’unico strumento rimasto per sostenere il casinò azionario è la flotta di furgoni della polizia a disposizione di Pechino. Ma con 258 milioni di conti di trading, è improbabile che anche Pechino possa arrestare i venditori abbastanza veloci.
Mentre gli oligarchi comunisti saltano disperatamente da manovre di stimolo sempre più ingannevoli al pugno di ferro della repressione economica, una cosa è abbastanza prevedibile: anche la sua macchina sforna-numeri-fasulli non sarà più in grado di nascondere il fatto che l’economia cinese si sta fermando, e che il miracolo del capitalismo rosso non era affatto quello che volevano farci credere le teste di legno a Wall Street.
Tra il picco pre-crisi nel 2007 e il 2014, il PIL mondiale è cresciuto da $53,000 miliardi a circa $69,000 miliardi. Ma il 33% di quei $17,000 miliardi è dovuto alla Cina; e più della metà di quel totale è riconducibile all’effetto moltiplicatore di fornitori di risorse come Australia, Brasile e Canada, e fornitori di componenti intermedi come Corea del Sud, Malesia, Giappone e Taiwan.
Altro che 14%. Il collasso del capitalismo rosso in Cina sta esportando la burrasca della deflazione all’economia globale.
Quindi i profitti dell’S&P non ne sono immuni. Uno di questi giorni, forse presto, anche Scott Wapner lo capirà.

[*]
traduzione di Francesco Simoncelli: Francesco Simoncelli's Freedonia
 
Nell’occhio del ciclone cinese

News
by Redazione itConsilium - ago 20, 2015 0 26


L’eco del ciclone cinese ha raggiunto l’abbronzata popolazione italica sotto l’ombrellone (o similia). A molti è suonata come una sorta di continuazione della vicenda greca. Sembra di sentirli i bagnanti intenti spalmarsi creme o sorbire bevande: “… ma questi con ‘sti mercati finanziari non possono farla finita?”
Purtroppo la risposta è no, per due motivi.
Il primo è che, parafrasando Ligabue, più stai tranquillo e più qualcun altro pensa a quello a cui non vuoi pensare tu.
Il secondo è che la Cina non è la Grecia. Per risolvere quest’ultima bastava (e non è detta l’ultima parola) decidere di farlo. Per la Cina no.
Rimandiamo i lettori alle, peraltro dottissime, valutazioni approfondite sui perché e percome della crisi tratteggiate su altre testate o magari altri articoli di questa stessa. Cercheremo in questa sede di focalizzarci sui grafici, sia cinese che dei paesi più immediatamente coinvolti.
Iniziamo proprio dalla CINA:
com’è noto i problemi sono due: mancata crescita e bolla finanziaria. Le aziende cinesi sono indebitate pesantemente, troppo. Un debito molto elevato può essere sostenuto solo da una crescita robusta, appunto!
La crescita cinese è nominalmente al 7%. Però le rilevazioni del consumo di elettricità, sulle importazioni ed alcuni dati sui consumi interni ridimensionano molto il dato ufficiale. Va bene l’efficientamento energetico ma in primis in Cina è questo un tema molto meno sviluppato che da noi ed in secundis non possono certo diminuire import, export, costo delle case e contemporaneamente restare stabile il PIL, peraltro esattamente al livello previsto… al decimale!
Sull’altro piatto della bilancia: una svalutazione che alla fin fine è stata del 5%, insomma non esattamente una bomba atomica monetaria. La crescita che non sarà del sette ma certo è diverse volte più alta di quella occidentale….
Dicevamo i grafici
La sleppa che ha incassato l’indice di Shangai è di quelle epocali ma, ed è davvero un bel “ma”, i massimi in area 3400/3500 hanno retto (linea nera) così come ha retto la media annuale. Certo la volatilità è bella alta ma se dovesse reggere il minimo potrebbe aver ragione quel mio amico trader istituzionale che diceva “e se il vero obiettivo fossero le economie emergenti limitrofe?”



– Passiamo all’altra grande economia dell’area: la Korea
Oltre il 10% di PIL 2014 esportazioni verso la Cina ed un debito delle famiglie che ormai è al 150% del reddito mettono in forse da un lato l’export e dall’altro i consumi interni.
Sull’altro piatto della bilancia una spiccata innovazione tecnologica (secondo tasso di investimento in R&S dell’OCSE) ed il semplice fatto che si tratta di un’economia del tutto svilupata.
Il grafico ci racconta di congestione. Una reazione nel breve sembra probabile, ma soprattutto niente panico fino a che regge l’area 1900.

Malesia ed Indonesia ai fini di questo articolo sono assolutamente accomunabili. La parola chiave è materie prime. I rispettivi grafici parlano da soli…




– per l’Australia discorso a metà tra Korea ed esportatori quali Malesia ed Indonesia. L’impressione è che la Cina abbia acuito una tendenza già in atto facendo travolgere i minimi estivi a 5300. La linea del Piave sarebbe da collocare in area 5200 e volendo risparmiare ai lettori le elucubrazioni da piccoli geometri su linee orizzontale ed oblique aggiungiamo solo che stiamo parlando di uno dei pochi paesi rimasti a tripla A, il che magari sarà meno di moda ma qualcosa vuol pur dire.


– Per le Filippine il discorso è un po’ particolare.
Essendo uno dei maggiori produttori al mondo di Nichel ( e non solo) ha imposto nel 2012 il divieto di vendita di materiale grezzo imponendo che la raffinazione avvenga in loco. Questo ha inevitabilmente avuto due riflessi positivi: si sono aggiudicati una fetta ben più ampia di guadagni ed hanno obtorto collo obbligato gli investitori a sviluppare un’industria. Il tutto ha limitato il ribasso a meno del 10% e l’area 7250 sembra reggere (purtroppo il grafico non è perfetto per un dato errato che per mia incapacità non sono riuscito a correggere, me ne scuso con i lettori).


– In ultimo il Vietnam. Industrialmente dipende moltissimo dalle importazioni di macchinari cinesi, il che nei primi sette mesi dell’anno ha fatto registrare un deficit commerciale (appunto con la Cina) di oltre 19mld di dollari. La crescita economica rispetto al luglio 2014 è stata ‘solo’ del 9,5% contro il precedente 14%. L’impressione è che la Cina, approdo della delocalizzazione mondiale, stia delocalizzando in Vietnam. Avete presente i concorrenti di cui parlava il mio amico?
Il grafico oltre che qualitativamete pessimo (ancora scuse, ma è difficile davvero trovarne uno decente) essenzialmente ci racconta di una congestione nella fascia alta caratterizzata da forte volatilità. Con una pistola puntata alla tempia potrei anche operare sulla base di questo grafico…


Nella speranza di non aver confuso troppo la mente dei lettori non resta che dire “noi speriamo che ce la caviamo”.
 
Borse, crollo per tutti i listini asiatici. Tokyo cede il 4,6%, sprofonda Shanghai


24 agosto 2015

Borse, crollo per tutti i listini asiatici. Tokyo cede il 4,6%, sprofonda Shanghai - Repubblica.it


Profondo rosso oggi per tutti i mercati asiatici. Apre per prima Tokyo e il segnale è totalmente negativo e le cose peggiorano con il passare dei minuti: a fine seduta il NIkkei cede il 4,61% a 18.540,68 punti, sui minimi di giornata con un cross dollaro-yen a 121,12. Drammatiche le notizie che arrivano da Shanghai con l'indice principale precipitato dell'8% a 3.211,20 punti prima di 'stabilizzarsi' a - 6,6%. Shenzhen, la seconda piazza cinese, perde il 7,61%. L'indice Nikkei della borsa di Tokyo ha perso il 3,21%. Il contagio è proseguito ovunque: la Borsa di Taiwan è crollata del 7,46%, la peggiore seduta mai registrata nella sua storia. Taipei registra una perdita del 7,46%. Molto male anche Hong Kong, a meno 3,83. A soffrire le perdite maggiori sono i titoli di società alberghiere, della ristorazione e del trasporto pubblico.

Nella Corea del Sud, particolarmente esposta al rallentamento dell'economia cinese, l'indice Kospi risulta in rosso del 3%. Anche la Borsa indiana di Mumbai registra il peggiore esordio mattutino dell'anno, con l'indice Sensex dei 30 migliori titoli in caduta di 1.006 punti (-3,67%) all'apertura.

A pesare su tutti i mercati, ancora una volta, è infatti proprio la preoccupazione per la crisi dell'economia di Pechino. La seduta di oggi era attesa per valutare la gravità del crollo cominciato con la svalutazione dello yuan. Ed evidentemente la risposta è del tutto negativa.

La Federal Reserve che - per evitare il contagio - potrebbe rinviare la decisione di un rialzo dei tassi. Anche Pechino, peraltro, ha provato a correre ai ripari autorizzando i fondi pensione a investire in azioni e le banche a limitare le riserve, nel tentativo di accrescere la liquidità, ma le misure finora non sono bastate a rasserenare gli investitori.

A condizionare i mercati c'è anche la preoccupazione per la Grecia con le elezioni indette da Alexis Tsipras. Un fattore che pesa soprattutto sull'Europa con un rialzo degli spread per i Paesi economicamente più fragili del vecchio continente. A picco anche il prezzo del petrolio: il barile Usa è scivolato sotto la soglia dei 40 dollari al barile. Il Wti (West Texas Intermediate) ha perso 60 centesimi a 39,85 dollari in Asia, dopo aver toccato il minimo della seduta a 39,71, il livello più basso da marzo 2009 quando era crollato a 39,44 dollari. Il Brent ha perso 44 centesimi a 45,02 dollari al barile dopo aver raggiunto il minimo di 45 dollari come non avveniva da 6 anni. Nel marzo del 2009, il Brent era sceso a quota 42,59 dollari. Oltre alla crisi cinese, sul petrolio incide anche la preoccupazione per l'aumento della produzione iraniana.

Il crollo dei listini asiatici fa volare l'euro e anche lo yen, cioè le monete considerate beni rifugio. La moneta europea passa di mano a 1,1445 dollari; il cambio euro/yen è a 138,57 e quello dollaro/yen ai minini da un mese e mezzo a 120,71. Il dollaro australiano, spesso considerato
una sorta di braccio della liquidità cinese scende ai minimi da sei anni a 0,7201 sul biglietto verde.

Anche per le Borse europee si annuncia una giornata di passione, con i futures tutti pesantemente negativi: Eurostoxx 50 -3%, Francoforte -3,3%, Parigi -2,5%, Londra -2,8%.
 
Ultima modifica:
CINA: piano a chiamarla CRISI (così parlò il FMI)
Noto a tutti come Mr. "spending review", Carlo Cottarelli parla della crisi cinese e mette in guardia sull'arrivo dell'orso. Al momento, tutto sotto controllo. convinto lui... Continua a leggere →
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