Cina 2007, segreti e bugie dalla meteorologia all'economia
Angela Pascucci
Mala tempora currunt in Cina. E' il caso di dirlo, sia pure con qualche ironia, dopo aver appreso che dall'anno prossimo sarà vietato a società ed enti stranieri elaborare previsioni del tempo al di fuori del controllo degli organi ufficiali del governo cinese. Raccolta dati ed elaborazioni di previsioni illegali avvenute in passato «hanno violato la sovranità e minacciato la sicurezza del paese» hanno stabilito l'Ufficio meteorologico di Cina e l'Amministrazione nazionale per la Protezione dei segreti di stato che hanno elaborato i nuovi regolamenti.
Messo il futuro del clima sotto chiave, potrebbe presto avvenire che anche le previsioni economiche siano sottoposte allo stesso trattamento, vista la notoria scarsa attendibilità dei dati ufficiali. Che cosa c'è di più sensibile, per la Cina di oggi, che l'andamento della sue economia?
Ieri è arrivato da Pechino il primo outlook ufficiale, che dipinge un 2007 piuttosto roseo: crescita robusta ma non eccessiva, del 9,5%, nessuna ombra di inflazione. Lo ha reso noto il Centro statale per l'informazione, che fa parte della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma. Anche gli investimenti in capitale fisso, dice il rapporto, saranno mantenuti al 20%, grazie alle misure prese dal governo di contenere questa voce chiave, arrivata nel 2006 a toccare un incremento del 31% rispetto all'anno precedente.
In realtà le previsioni ufficiali cinesi di fine anno somigliano un po' ai buoni propositi per Babbo Natale, destinati ad essere disattesi, se la volontà d'animo non sorregge. E la volontà d'animo cinese non dipende più dalle intenzioni del governo centrale, nonostante l'esistenza in vita dei piani quinquennali da economia pianificata che oggi, quando dice bene, riescono solo a indicare al più delle «linee guida». A riprova basterebbe solo ricordare che nel marzo del 2006, in occasione dell'Assemblea plenaria del Parlamento, il premier Wen Jiabao aveva delineato un nuovo modello economico, più attento alla qualità che alla quantità, più orientato verso l'uso efficiente delle risorse (particolarmente quelle energetiche) con una crescita più bilanciata che per ogni anno fino al 2010 non avrebbe dovuto suprerare il 7,5% di incremento annuo. Detto e non fatto. Nei primi tre quarti dell'anno il Pil è cresciuto del 10,7 e nonostante la stretta monetaria decisa a luglio, che avrebbe dovuto incidere sulla seconda parte dell'anno, la crescita economica per l'intero anno si attesterà probabilmente intorno al 10,5%.
Tutta la questione della crescita cinese sta assumendo un aspetto paradossale. Come le scarpette rosse di Andersen che, tanto desiderate, costringevano la protagonista a una forsennata, inarrestabile corsa. Perché uno sviluppo tra i più veloci mai registrati nella storia dell'umanità sta portando a costi ambientali insopportabili, mostrando peraltro al pianeta l'insostenibilità del modello. Perché i costi delle materie prime, sempre più scarse proprio per l'entrata in scena della Cina, stanno aumentando (nella provincia del Jiangsu, dove si trova Shanghai) nella prima metà dell'anno i prezzi di combustibile ed energia sono aumentati del 15,7%, quelli dei materiali da costruzione del 72,5%, mentre i costi complessivi di produzione sono aumentati del 30%. L'etichetta di «fabbrica del mondo» comincia poi a gravare sulla Cina in diversi modi. Il surplus commerciale con il resto del mondo, 120 miliardi di dollari nel 2006, ha attratto il risentimento universale, anche se la maggior parte della produzione «made in China» al dunque è opera di multinazionali che usano il paese soprattutto per la sua manodopera che resta a buon mercato, nonostante che nelle zone calde, come il Guangdong, si sia deciso di aumentare il salario minimo del 18% (810 yuan, circa 80 euro, al mese). Da quando la Cina è entrata nel Wto, nel 2001, e fino al giugno di quest'anno, 31 paesi e territori del mondo hanno lanciato un totale di 288, fra azioni antidumping e misure di salvaguardia, contro i prodotti cinesi.
Ultimo aspetto negativo, e non certo il minore, del modello di sviluppo cinese, la «produzione» di ineguaglianza. Il rapporto sullo sviluppo sociale diffuso ieri dall'Accademia nazionale delle scienze segnala che il coefficiente di Gini (misuratore delle disparità nella distribuzione del reddito) è aumentato quest'anno a 0,496 dallo 0,47 dello scorso anno. Un coefficiente superiore allo 0,4% segnala una situazione patologica. In danaro sonante, significa che i cinesi più ricchi guadagnano in media il 18% in più dei cinesi più poveri. Secondo il Rapporto sulla ricchezza nell'Asia Pacifico stilato da Merryl Lynch e Capgemini, la Cina ha 320mila straricchi che nel 2005 hanno concentrato nei loro forzieri oltre 1500 miliardi di dollari, i due terzi del Pil del paese. Ciò significa che in media, ciascuno di loro detiene ricchezze per 5 milioni di dollari, laddove la media Usa si attesta intorno ai 3,8 milioni di dollari.