Se già non la conoscete, questa ve la dovete leggere ma tutta e fino in fondo.
lunedì 20 gennaio 2014
Quando una donna rifiuta la terapia: le riflessioni di un medico
Tutti i medici che ho incontrato, dal mio medico generico agli oncologi, tutti hanno utilizzato lo stesso disco, lo stesso messaggio, chi più chi meno: “Come medico non posso approvare la tua scelta di non fare la terapia anti ormonale”. All’inizio questo mi sembrava davvero normale, anzi, io stessa davo loro ragione. Certo che sì, un medico fa il medico, è lì per applicare i protocolli, no? Io la mia scelta l'ho presa e non è di questo che voglio parlare. Mi sembra invece molto interessante l'articolo che vi presento e che ho tradotto dall'inglese (grazie Oriana per la splendida dritta), scritto proprio da un medico, mi ha davvero offerto ulteriori spunti di riflessione. In realtà li offre proprio a tutti: a quelli che le terapie le fanno, ed a chi non le fa, ai medici ed anche a chi sta vicino ad un paziente oncologico. I medici stanno all’interno di un certo sistema, è vero, ma esiste un unico e solo modo esclusivo di stare dentro a quel sistema? Siamo, noi, e sono, i medici, così sicuri? Si può essere medici, ma esserlo in modo anche diverso? Forse sì……Magari per un medico un paziente che decide di non fare la terapia proposta potrebbe rappresentare una grande opportunità……..
Questo articolo in lingua inglese è stato pubblicato nella rivista specialistica The Oncologist vol.18 n°5 nel 2013. L'autore è Moshe Frenkel
Eccone la traduzione e l'adattamento che ne ho fatto.
Il rifiuto delle terapie
Le persone decidono le terapie da fare sia in base alle loro opinioni personali che ai pro e contro evidenziati dai medici. I medici devono essere in grado di gestire questa realtà.
Alla fine del 1990, stavo lavorando come medico di famiglia. Durante quel periodo, stavo integrando le terapie complementari nella pratica della medicina, oltre ad essere coinvolto nel lavoro accademico e nell'insegnamento a medici di famiglia. Nonostante la mia mente molto aperta verso terapie complementari, quando si trattava di pazienti affetti da cancro, ho sostenuto con forza che queste terapie non devono essere utilizzate come alternativa al trattamento convenzionale, ma piuttosto come approcci complementari con l'obiettivo di migliorare il benessere e la qualità della vita dei pazienti.
Durante gli anni di consulenza ai pazienti oncologici, ho notato un numero crescente di pazienti che ha rifiutato le terapie ufficiali contro il cancro, un fenomeno che suscitava la mia curiosità ma in qualche modo non era riconosciuto dai miei colleghi che si limitavano a definirli "pazienti difficili" . Una di queste pazienti era Suzanna Marcus.
Suzanna, è nata in Inghilterra ed è emigrata in Israele nella sua tarda adolescenza, era una quarantacinquenne divorziata ed attraente. Quando entrò nella stanza, non si poteva ignorare la sua presenza: alta con i capelli lunghi scuri , penetranti occhi verdi e un sorriso che scaldava il cuore. Un giorno, nel 1997, trovò un nodulo di 3 cm al seno sinistro che si estendeva alla pelle. Da quel momento la sua vita fu sconvolta. Un rapido processo di valutazione tra cui la mammografia, l'ecografia e la biopsia confermarono la diagnosi di carcinoma duttale infiltrante.
In un primo momento Suzanna rimase scioccata e devastata dalla diagnosi. Subì l'escissione chirurgica che ha confermò la malattia avanzata (stadio IIIB ) con 6 degli 8 linfonodi ascellari prelevati colpiti. Le fu consigliato di iniziare la chemioterapia al più presto. Venne da me in evidente difficoltà e con molti dubbi rispetto alla chemioterapia. Durante la nostra lunga discussione improvvisamente una cosa che non avevo mai sentito da nessuno dei miei pazienti. Mi chiese di verificare nella letteratura medica la statistica sulle possibilità di recupero se avesse fatto la chemioterapia. Con la mia limitata conoscenza dell'oncologia, al momento, dentro di me pensai che il tasso di sopravvivenza con la terapia sarebbe stato di circa l'80 % .
Dopo aver consultato la letteratura, però, rimasi sorpreso di scoprire che, data la sua fase di malattia avanzata e gli agenti chemioterapici disponibili in quel momento, le sue possibilità di sopravvivenza sarebbero state solo del 32 % .
Quando le comunicai questa brutta notizia, non sembrò troppo sconvolta. In realtà, mi chiese di farle ancora un favore e di cercare di nuovo nella letteratura medica per verificare le sue probabilità di sopravvivenza senza la chemioterapia. Le dissi con convinzione: "Tu morirai".
Mi concentrai nella ricerca e con mia grande sorpresa, trovai la risposta alla sua domanda: un articolo rilevante stimava il tasso di sopravvivenza delle donne con malattie allo stesso stadio che non avevano fatto la chemioterapia del 26% .
A quel punto, Suzanna con fermezza disse: "Guardi, la chemioterapia potrebbe aggiungere solo il 6 % a tasso di sopravvivenza. Ma perderei i miei capelli, che sono così importanti per me, avrei problemi nelle mie relazioni sociali, soffrirei di nausea e vomito. L'oncologo mi ha dato una lista di effetti collaterali lungo due pagine! Ho deciso che io sono disposta a rischiare di perdere un teorico 6% di vantaggio che avrei con la chemioterapia perchè la terapia mi distruggerebbe la vita. Ho deciso di non farla"
Sono rimasto molto sorpreso da questi suoi calcoli così freddi, le dissi che stava facendo un grande errore e che avrei cercato di farle cambiare idea. Nemmeno l'insistenza del suo oncologo e del personale della clinica riuscirono a far cambiare idea a Suzanna. Il suo oncologo, un medico esperto, era perplesso dalla sua decisione e la informò che le rimanevano sei mesi di vita se non avesse seguito il trattamento e se quella era la sua decisione, non c'era ragione per lei di continuare a vederlo. Nonostante tutto questo lei decise di non fare la chemioterapia e cominciò a cercare una serie di terapie alternative e complementari di cui aveva sentito parlare da altri malati di cancro.
Sono quasi passati 15 anni ed il numero di pazienti che rifiutano le terapie convenzionali mi preoccupa ancora profondamente. Qual è la portata reale e l'incidenza di questi casi? Qual è l'approccio migliore per affrontare questo problema? Come un medico dovrebbe affrontare la questione di un paziente che sceglie consapevolmente di rifiutare una terapia che lui ritiene invece utile? Dovremmo interrompere il follow up di questi pazienti?
Sebbene il rifiuto del trattamento del cancro è un problema serio e ha dimostrato di ridurre l'efficacia del trattamento e diminuire la durata della sopravvivenza dopo la diagnosi, questo tipo di fenomeno è stato poco studiato. Il numero di pazienti che prendono questa decisione non è molto conosciuto, ma sembra abbastanza rilevante da giustificare la nostra considerazione. Gli studi hanno riportato tassi inferiori all'1% per i pazienti che hanno rifiutato qualsiasi trattamento convenzionale e il 3-19 % dei pazienti che hanno rifiutato la chemioterapia parzialmente o completamente .
Tendiamo a pensare che rifiutare la terapia porta ad un peggioramento della qualità della vita perchè la malattia progredisce senzadi essa. È interessante notare che potrebbe non esserecosì.
Uno studio che ha valutato 140 pazienti affetti da tumore che avevano rifiutato la chemioterapia ha rivelato che la loro qualità di vita non era diversa da quella di pazienti che hanno completato il trattamento.
Nelle mie interazioni con i pazienti che cercano consigli su scelte terapeutiche complementari a volte incontro persone che hanno effettivamente deciso di rifiutare i trattamenti convenzionali. Alcuni hanno condiviso il loro processo di decisione, parzialmente o completamente, ma la maggior parte non hanno condiviso questa decisione con il proprio medico curante. Più comunemente, durante la loro ricerca di un secondo o terzo consulto, i pazienti non ritornano dai loro medici originali per il trattamento e non vengono quindi monitorati nei follow up. I pazienti sono alla ricerca di un medico con cui condividere la loro decisione, un professionista di fiducia che è disposto ad ascoltare il racconto del loro viaggio doloroso. Quando si condividono con loro le motivazioni che li hanno portati a rifiutare il trattamento convenzionale, adducono molteplici ragioni, come la paura di effetti collaterali negativi (soprattutto per la chemioterapia), l'incertezza circa l'efficacia del trattamento, disperazione, impotenza, perdita di controllo, la negazione della loro malattia, disturbi psichiatrici, disfunzioni del sistema sanitario, e soprattutto problemi di comunicazione e il rapporto medico-paziente.
I pazienti sono spesso consapevoli dei gravi effetti collaterali e delle complicanze che possono accompagnare le terapie convenzionali e alcuni hanno constatato l'inutilità di tali interventi. Pesano le prove e spesso fanno scelte che riflettono i loro valori e credenze più che le prove mediche o i consigli . Tuttavia, questi pazienti vogliono mantenere i loro appuntamenti medici e cercano rassicurazione sul fatto che non saranno abbandonati, che, quando necessario, le cure palliative sono a loro disposizione, che non moriranno nel dolore ma con dignità. Nel frattempo cercano di vivere nel presente, mantenendo la loro routine di lavoro, famiglia ed amici.
I pazienti che rifiutano il trattamento convenzionale a volte sono auto-diretti , fiduciosi, attivi e hanno pensato profondamente al significato della vita e del cancro valuntando le varie opzioni di trattamento .
Può non essere sempre facile per i medici affrontare questi tipi di pazienti che si discostano dalla norma e contestano le evidenze mediche. La reazione del medico non è sempre favorevole a queste decisioni. Anche se i medici comprendono che i pazienti hanno il diritto di decidere le loro terapie e riconoscono la possibilità che gli effetti del trattamento ed i risultati non siano così prevedibili, tuttavia, tendono a classificare i propri pazienti in modo dicotomico: quelli che possono essere curati e quelli per i quali non c'è una cura. I pazienti che rientrano nella prima categoria e rifiutano il trattamento convenzionale sono considerati "pazienti difficili".
L'evidenza attuale suggerisce che gli operatori sanitari si sentono spesso a disagio, turbati, in difficoltà di fornte a pazienti che prendono decisioni che vanno contro il parere medico. In tali situazioni , la comunicazione tra i pazienti e il team di assistenza sanitaria può diventare tesa, influenzando i futuri contatti e la qualità della interazione terapeutica. In un recente studio qualitativo sulle donne che rifiutano il trattamento convenzionale viene evidenziato che una migliore esperienza iniziale con i loro medici avrebbe fatto la differenza nel percorso di trattamento che alla fine hanno scelto. Hanno detto che sarebbero state più propense ad accettare il trattamento convenzionale se avessere percepito che i medici riconoscevano le loro paure e speranze, le avessero informate meglio sulle possibilità di trattamento, e avessero dato loro il tempo di adattarsi alla diagnosi ed assimilare tutte le informazioni prima di iniziare trattamento.
Questa esperienza con Suzanna mi ha reso consapevole che la comunicazione tra il paziente e il medico deve rapportare i pro e i contro dette terapie con la prospettiva personale del paziente. Sembra che l'attuale tendenza verso una 'cura centrata sul paziente' crei la necessità di ottenere una migliore comprensione del ruolo che la visione della vita, i valori ed i giudizi personali del paziente giocano nel processo decisionale. E' necessario quindi un approccio che utilizza la comunicazione efficace con questi pazienti e integra i loro valori con l'evidenza medica.
La qualità della comunicazione nella cura del cancro ha mostrato di influenzare la soddisfazione del paziente, il processo decisionale, l'angoscia del paziente e il suo benessere. Il processo decisionale è una dinamica in corso, quindi, i pazienti che inizialmente rifiutano un trattamento possono successivamente cambiare idea se è dato loro il sostegno adeguato, le informazioni e il tempo necessario per prendere la decisione. Inolre i pazienti hanno bisogno di sentire che non sono stati definitivamente esclusi dal sistema sanitario anche se hanno fatto scelte che sono in contrasto con le raccomandazioni dello staff medico.
Per quanto riguarda Suzanna, con mio grande stupore iniziale, ha continuato a vivere e prosperare. Nel 2007 ha pubblicato un libro dal titolo stimolante : "Sei mesi di vita, dieci anni dopo". E' per me diventato un promemoria quotidiano che mi ricorda che ci sono pazienti eccezionali e che il rifiuto delle terapie è solo la punta di un iceberg e presenta una grande sfida che deve essere affrontata .
Fonte:
Afrodite K