paper2006
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da Repubblica
Tata traccia la via indiana al capitalismo delle famiglie
Ha quasi decuplicato la ricchezza del suo gruppo, ha comprato un’icona del lusso a New York ma a Mumbai vive nella solita casa. I capitalisti con l’anima
FEDERICO RAMPINI
Si è comprato un’icona del lusso a New York, The Pierre, che ha aggiunto agli altri 14 hotel cinque stelle della sua catena Taj, ma non si sognerebbe di possedere un jet privato e tantomeno lo yacht. Da vent’anni abita sempre nello stesso appartamento, confortevole ma semplice, al secondo piano di un palazzo di Mumbai dove vive anche sua suocera. I vicini giurano di non avergli mai visto dare una festa. Questo è lo stile di Ratan Tata, 68 anni, capo di un impero con 93 società che includono il secondo produttore di tè del mondo (Tata Tea), il numero uno asiatico del software (Tata Consultancy Services), il gigante dell’acciaio Tata Steel, e poi le automobili, i camion, il turismo, la finanza. Il fatturato, di 22 miliardi di dollari, lui lo ha moltiplicato per sette da quando prese il comando dell’azienda di famiglia nel 1991: un annochiave per l’India, l’inizio delle riforme con cui Manmohan Singh (oggi primo ministro, allora ministro delle Finanze) iniziò la graduale liberalizzazione dell’economia. Tutta la storia del gruppo Tata, la più antica dinastia capitalistica dell’establishment indiano, si svolge in parallelo con la storia del paese nell’ultimo secolo e mezzo. Il meglio dell’India si identifica con loro, ma nelle vicende del gruppo si sono rispecchiati anche i momenti di debolezza e di declino. Il capostipite Jamsetji Nusserwanji Tata era figlio di un commerciante parsi di Bombay, membro della minoranza di antica origine persiana la cui religione discende dal culto di Zoroastro. Era un uomo di stampo aristocratico ma con un forte orgoglio nazionalista, quando l’Impero britannico sembrava ancora nel pieno del suo fulgore lui era già convinto che l’India poteva diventare una grande potenza, capace di svilupparsi con le proprie forze.
Sotto gli inglesi costruì il primo impianto siderurgico del paese, la prima centrale idroelettrica, la prima industria tessile, la prima compagnia di navigazione, il primo cementificio, la prima università scientifica (i suoi discendenti avrebbero proseguito nella vocazione pionieristica creando la prima banca, la prima compagnia aerea, il primo impianto petrolchimico, la prima fabbrica di automobili). J.N. Tata era anche un progressista di idee avanzate, capace di anticipare certe conquiste sociali dei "fabiani" inglesi (i padri del laburismo) in un paese molto più arretrato della Gran Bretagna. Quando iniziò a costruire alloggi popolari per i dipendenti della sua acciaieria, nel 1902, scrisse una lettera ai figli in cui esprimeva il suo disgusto per le condizioni di vita della classe operaia britannica, il grigio squallore dei quartieri popolari di Londra, Manchester e Liverpool. Le consegne che lasciò per la costruzione della città – che dopo la sua morte è stata battezzata in suo onore Jamshedpur – erano avveniristiche: "Le vie devono essere larghe e ariose, piene di alberi che diano ombra. Che ci sia ampio spazio per giardini e aiuole". Il sistema di relazioni industriali di Tata Steel fu in anticipo sui tempi non solo in India ma anche rispetto all’Occidente, precedendo con il suo paternalismo illuminato certe conquiste del movimento sindacale europeo. Tata diede agli operai degli altiforni la giornata lavorativa di otto ore nel 1912, l’assistenza per la maternità nel 1928, la partecipazione agli utili nel 1934. Tuttora la città di Jamshedpur resta un modello irraggiungibile per gran parte dell’India: l’azienda fornisce gratis alle famiglie dei dipendenti alloggi e scuole, ospedali e impianti sportivi. Nel 2004 le Nazioni Unite l’hanno designata fra i sei capolavori mondiali di pianificazione urbana, a pari qualità con San Francisco e Melbourne. Gli ideali del fondatore non sono stati traditi dai suoi eredi. La holding Tata continua a essere controllata da undici fondazioni filantropiche che versano un centinaio di milioni di dollari all’anno in opere di utilità sociale. Oltre alle borse di studio e alla ricerca nelle università il gruppo finanzia progetti per l’ambiente come il risanamento del Gange e la salvaguardia di razze in via di estinzione. Ma nella parabola dei Tata c’è anche una lunga fase di involuzione, in parallelo con "l’esperimento socialista" dei governi di Nehru e Indira Gandhi.
Dopo l’Indipendenza il gruppo perse sia le linee aeree che le assicurazioni, nazionalizzate. Le sue dimensioni davano fastidio durante gli anni del flirt ideologico e diplomatico tra New Delhi e Mosca, e le aziende persero una guida unificante. Soprattutto, all’ombra del sistema del "raj" – una complessa impalcatura di lacci e lacciuoli, regolamentazioni amministrative e permessi – il gruppo Tata finì per addormentarsi sugli allori, protetto dalla concorrenza. La rinascita a partire dal 1991 ha seguito una logica capitalistica: l’azienda non ha esitato a far ricorso alle ristrutturazioni, dimezzando i dipendenti della siderurgia in dieci anni. E’ rimasto qualcosa però dello spirito originario. Nella ricerca del profitto Ratan Tata segue una "via indiana": lo attira la parte bassa della piramide sociale, vuole inventare prodotti e servizi adatti a paesi emergenti come il suo, dove il grosso del mercato si situa a livelli di reddito minimi. Su 1,1 miliardi di indiani, solo 58 milioni hanno un reddito annuo che supera i 4.000 euro. Perciò non è un caso se l’automobile da 2.000 euro sta nascendo nei centri di design di Tata. Il camioncino più diffuso in tutta l’India – in realtà un motofurgone su cui contadini e piccoli commercianti sono capaci di caricare una quantità indescrivibile di merci ed esseri viventi – è il suo Ace da 700 centimetri cubi che costa meno di 4.000 euro. Nello stesso spirito il gruppo sta lanciando 200 motel Ginger in tutta l’India che offrono standard di igiene e pulizia impeccabili, bagni singoli, aria condizionata e Internet, per meno di 20 euro a notte. E’ il sogno democratico del turismo e della mobilità di massa alla portata del subcontinente.
Capitalismo con un’anima, è una definizione che si adatta bene anche ad altre grandi dinastie del paese. Il singolo imprenditore più ricco è Mukesh Ambani, maggiore azionista del conglomerato Reliance Industries che pesa da solo per il 3,5% del Pil indiano. Con 20 miliardi di dollari di fatturato il suo business più importante è nell’industria petrolchimica, ma la passione di Ambani sono le energie alternative. Profetizza una seconda "rivoluzione verde" – la prima fu la riforma agraria che riuscì ad affrancare l’India dalle carestie – e finanzia il Life Sciences Center di Mumbai, all’avanguardia nel produrre nuovi biocarburanti estratti da cellulosa e piante tropicali. "Un mondo senza benzina" è il suo slogan, e la Reliance ha creato una vasta rete di generatori di biomasse nei villaggi agricoli, per produrre energia a partire dallo sterco animale e altre fonti naturali.
Altre dinastie del capitalismo indiano ormai molti occidentali le conoscono bene perché le hanno in casa. Il gruppo Mittal di Lakshmi e Aditya, padre e figlio, controlla la maggior parte della siderurgia europea dopo aver acquistato il colosso Arcelor (francobelgospagnolo). Kumar Mangalam Birla, presidente del gruppo Birla, con la sua filiale dell’alluminio Hindalco ha comprato quest’anno il rivale americano Novelis e si è issato al primo posto mondiale nel settore. L’impresa farmaceutica Ranbaxy di Malvinder Singh è reduce da otto acquisizioni in America, Italia, Romania e Sudafrica. Dall’inizio del 2007 le multinazionali indiane hanno dato la scalata con successo a 34 gruppi stranieri, per un valore di 11 miliardi di dollari. The Economist prevede: «Un giorno saranno loro a insegnarci le nuove regole del mestiere d’impresa, proprio come nell’ascesa del Giappone la Toyota divenne l’aziendapilota mondiale, che rivoluzionò il modo di fare le automobili». Le Business School occidentali si stanno già adattando. Se il boom cinese ha dilagare nelle grandi università americane ed europee le teorie di Sun Tzu sulla guerra, l’ultima moda è un manuale di Nury Vittachi che s’intitola "The Kama Sutra of Business: Management Principles from Indian Classics".
Tata traccia la via indiana al capitalismo delle famiglie
Ha quasi decuplicato la ricchezza del suo gruppo, ha comprato un’icona del lusso a New York ma a Mumbai vive nella solita casa. I capitalisti con l’anima
FEDERICO RAMPINI
Si è comprato un’icona del lusso a New York, The Pierre, che ha aggiunto agli altri 14 hotel cinque stelle della sua catena Taj, ma non si sognerebbe di possedere un jet privato e tantomeno lo yacht. Da vent’anni abita sempre nello stesso appartamento, confortevole ma semplice, al secondo piano di un palazzo di Mumbai dove vive anche sua suocera. I vicini giurano di non avergli mai visto dare una festa. Questo è lo stile di Ratan Tata, 68 anni, capo di un impero con 93 società che includono il secondo produttore di tè del mondo (Tata Tea), il numero uno asiatico del software (Tata Consultancy Services), il gigante dell’acciaio Tata Steel, e poi le automobili, i camion, il turismo, la finanza. Il fatturato, di 22 miliardi di dollari, lui lo ha moltiplicato per sette da quando prese il comando dell’azienda di famiglia nel 1991: un annochiave per l’India, l’inizio delle riforme con cui Manmohan Singh (oggi primo ministro, allora ministro delle Finanze) iniziò la graduale liberalizzazione dell’economia. Tutta la storia del gruppo Tata, la più antica dinastia capitalistica dell’establishment indiano, si svolge in parallelo con la storia del paese nell’ultimo secolo e mezzo. Il meglio dell’India si identifica con loro, ma nelle vicende del gruppo si sono rispecchiati anche i momenti di debolezza e di declino. Il capostipite Jamsetji Nusserwanji Tata era figlio di un commerciante parsi di Bombay, membro della minoranza di antica origine persiana la cui religione discende dal culto di Zoroastro. Era un uomo di stampo aristocratico ma con un forte orgoglio nazionalista, quando l’Impero britannico sembrava ancora nel pieno del suo fulgore lui era già convinto che l’India poteva diventare una grande potenza, capace di svilupparsi con le proprie forze.
Sotto gli inglesi costruì il primo impianto siderurgico del paese, la prima centrale idroelettrica, la prima industria tessile, la prima compagnia di navigazione, il primo cementificio, la prima università scientifica (i suoi discendenti avrebbero proseguito nella vocazione pionieristica creando la prima banca, la prima compagnia aerea, il primo impianto petrolchimico, la prima fabbrica di automobili). J.N. Tata era anche un progressista di idee avanzate, capace di anticipare certe conquiste sociali dei "fabiani" inglesi (i padri del laburismo) in un paese molto più arretrato della Gran Bretagna. Quando iniziò a costruire alloggi popolari per i dipendenti della sua acciaieria, nel 1902, scrisse una lettera ai figli in cui esprimeva il suo disgusto per le condizioni di vita della classe operaia britannica, il grigio squallore dei quartieri popolari di Londra, Manchester e Liverpool. Le consegne che lasciò per la costruzione della città – che dopo la sua morte è stata battezzata in suo onore Jamshedpur – erano avveniristiche: "Le vie devono essere larghe e ariose, piene di alberi che diano ombra. Che ci sia ampio spazio per giardini e aiuole". Il sistema di relazioni industriali di Tata Steel fu in anticipo sui tempi non solo in India ma anche rispetto all’Occidente, precedendo con il suo paternalismo illuminato certe conquiste del movimento sindacale europeo. Tata diede agli operai degli altiforni la giornata lavorativa di otto ore nel 1912, l’assistenza per la maternità nel 1928, la partecipazione agli utili nel 1934. Tuttora la città di Jamshedpur resta un modello irraggiungibile per gran parte dell’India: l’azienda fornisce gratis alle famiglie dei dipendenti alloggi e scuole, ospedali e impianti sportivi. Nel 2004 le Nazioni Unite l’hanno designata fra i sei capolavori mondiali di pianificazione urbana, a pari qualità con San Francisco e Melbourne. Gli ideali del fondatore non sono stati traditi dai suoi eredi. La holding Tata continua a essere controllata da undici fondazioni filantropiche che versano un centinaio di milioni di dollari all’anno in opere di utilità sociale. Oltre alle borse di studio e alla ricerca nelle università il gruppo finanzia progetti per l’ambiente come il risanamento del Gange e la salvaguardia di razze in via di estinzione. Ma nella parabola dei Tata c’è anche una lunga fase di involuzione, in parallelo con "l’esperimento socialista" dei governi di Nehru e Indira Gandhi.
Dopo l’Indipendenza il gruppo perse sia le linee aeree che le assicurazioni, nazionalizzate. Le sue dimensioni davano fastidio durante gli anni del flirt ideologico e diplomatico tra New Delhi e Mosca, e le aziende persero una guida unificante. Soprattutto, all’ombra del sistema del "raj" – una complessa impalcatura di lacci e lacciuoli, regolamentazioni amministrative e permessi – il gruppo Tata finì per addormentarsi sugli allori, protetto dalla concorrenza. La rinascita a partire dal 1991 ha seguito una logica capitalistica: l’azienda non ha esitato a far ricorso alle ristrutturazioni, dimezzando i dipendenti della siderurgia in dieci anni. E’ rimasto qualcosa però dello spirito originario. Nella ricerca del profitto Ratan Tata segue una "via indiana": lo attira la parte bassa della piramide sociale, vuole inventare prodotti e servizi adatti a paesi emergenti come il suo, dove il grosso del mercato si situa a livelli di reddito minimi. Su 1,1 miliardi di indiani, solo 58 milioni hanno un reddito annuo che supera i 4.000 euro. Perciò non è un caso se l’automobile da 2.000 euro sta nascendo nei centri di design di Tata. Il camioncino più diffuso in tutta l’India – in realtà un motofurgone su cui contadini e piccoli commercianti sono capaci di caricare una quantità indescrivibile di merci ed esseri viventi – è il suo Ace da 700 centimetri cubi che costa meno di 4.000 euro. Nello stesso spirito il gruppo sta lanciando 200 motel Ginger in tutta l’India che offrono standard di igiene e pulizia impeccabili, bagni singoli, aria condizionata e Internet, per meno di 20 euro a notte. E’ il sogno democratico del turismo e della mobilità di massa alla portata del subcontinente.
Capitalismo con un’anima, è una definizione che si adatta bene anche ad altre grandi dinastie del paese. Il singolo imprenditore più ricco è Mukesh Ambani, maggiore azionista del conglomerato Reliance Industries che pesa da solo per il 3,5% del Pil indiano. Con 20 miliardi di dollari di fatturato il suo business più importante è nell’industria petrolchimica, ma la passione di Ambani sono le energie alternative. Profetizza una seconda "rivoluzione verde" – la prima fu la riforma agraria che riuscì ad affrancare l’India dalle carestie – e finanzia il Life Sciences Center di Mumbai, all’avanguardia nel produrre nuovi biocarburanti estratti da cellulosa e piante tropicali. "Un mondo senza benzina" è il suo slogan, e la Reliance ha creato una vasta rete di generatori di biomasse nei villaggi agricoli, per produrre energia a partire dallo sterco animale e altre fonti naturali.
Altre dinastie del capitalismo indiano ormai molti occidentali le conoscono bene perché le hanno in casa. Il gruppo Mittal di Lakshmi e Aditya, padre e figlio, controlla la maggior parte della siderurgia europea dopo aver acquistato il colosso Arcelor (francobelgospagnolo). Kumar Mangalam Birla, presidente del gruppo Birla, con la sua filiale dell’alluminio Hindalco ha comprato quest’anno il rivale americano Novelis e si è issato al primo posto mondiale nel settore. L’impresa farmaceutica Ranbaxy di Malvinder Singh è reduce da otto acquisizioni in America, Italia, Romania e Sudafrica. Dall’inizio del 2007 le multinazionali indiane hanno dato la scalata con successo a 34 gruppi stranieri, per un valore di 11 miliardi di dollari. The Economist prevede: «Un giorno saranno loro a insegnarci le nuove regole del mestiere d’impresa, proprio come nell’ascesa del Giappone la Toyota divenne l’aziendapilota mondiale, che rivoluzionò il modo di fare le automobili». Le Business School occidentali si stanno già adattando. Se il boom cinese ha dilagare nelle grandi università americane ed europee le teorie di Sun Tzu sulla guerra, l’ultima moda è un manuale di Nury Vittachi che s’intitola "The Kama Sutra of Business: Management Principles from Indian Classics".