tontolina
Forumer storico
L’eroica Falluja
Maurizio Blondet
01/04/2007
I combattenti di Falluja
IRAQ - Nell'aprile del 2004, e poi di nuovo nell'autunno, gli invasori americani «pacificarono» Falluja, roccaforte dei sunniti fedeli a Saddam.
Bombe al fosforo, napalm, volumi di fuoco superiori a quelli scatenati durante la seconda guerra mondiale.
Questa città di 300 mila abitanti, di cui almeno 25 mila erano rimasti intrappolati nelle case, fu ridotta a un cumulo di rovine fumanti, dove, come a Stalingrado, i cani divoravano i cadaveri insepolti.
Seguirono i rastrellamenti, casa per casa.
Gli americani - lo provarono diversi video - finivano i combattenti feriti a mitragliate, per rabbia.
Dopo un mese di diluvio di fuoco, i tikriti continuavano a combattere.
«Sono pochissimi quelli che si arrendono», ammise un colonnello dei marine.
Ma i marine spararono anche sui civili che, con la bandiera bianca, cercavano di uscire dalla città.
Gli aggressori non permisero che aiuti medici e rifornimenti, organizzati dagli iracheni di Baghdad, entrassero nella città devastata.
Lo vietarono perfino a delegazioni dell'ONU e dell'Organizzazione Mondiale della Sanità: prima, raschiarono il terreno completamente, per nascondere l'uso di fosforo e di tossici proibiti.
I cecchini americani uccisero 17 fra medici e infermieri che cercavano di entrare nella città per curare i feriti.
I feriti americani furono 417, i morti non sono stati comunicati.
Nel marzo 2005, molti mesi dopo, un rapporto del Tribunale Russell definì il risultato delle operazioni a Falluja come «genocidio». (1)
«Al momento di diffondere questo rapporto», si leggeva, «il recupero dei cadaveri provocati dall'attacco del novembre 2004 continua. Gli operatori specializzati hanno trovato circa 700 corpi. Gli americani dicono di averne uccisi 1.300, ma non si sa dove i corpi siano stati sepolti. Il fatto che continuino a negare l'accesso ai delegati dell'ONU conferma che hanno riempito delle fosse comuni. I dispersi sono centinaia, ma le famiglie esitano a riferire i nomi dei loro familiari presso l'ufficio di registrazione dei dispersi, per timore di arresti e intimidazioni delle forze americane. I cittadini di Falluja detenuti soffrono di trattamenti inumani».
«Gli abitanti di Falluja subiscono ogni sorta di umiliazioni quando entrano o escono dalla città. Nella loro vita quotidiana soffrono vari tipi di angherie e di minacce da parte delle forze occupanti americane, che li considerano terroristi semplicemente perché rifiutano l'occupazione. Ci sono continue uccisioni casuali, che non escludono bambini e vecchi, uomini e donne. Molti bambini hanno dovuto guardare i loro genitori uccisi davanti ai loro occhi. Uomini hanno dovuto assistere all'uccisione dei loro figli e delle mogli. Quasi ogni famiglia di Falluja ha dovuto seppellire un familiare nel cortile.
La forza d'occupazione americana ha assegnato speciali carte di identità ai cittadini di Falluja, per impedire a visitatori di entrarvi. Ciò isola Falluja dai suoi dintorni e dal resto del Paese, e l'ha trasformata in una grande prigione.
Come misura di punizione collettiva, la forza occupante ha sequestrato le scuole della città che usa come sue caserme, privando gli studenti della possibilità di continuare a studiare, e senza offrire un'alternativa.
Avvengono ritardi deliberati nella ricostruzione di Falluja, e nel ripristino dei servizi essenziali.
Gli annunci in questo senso sono pure menzogne, rivelate dal fatto che le persone che stanno lavorando alla ricostruzione di Falluja, per numero, non sono adeguate alla misura delle distruzioni. Gli americani stessi ammettono che sono state demolite 90 mila case» […].
Ma non c'è stato un vescovo, un pastore o un rabbino a protestare.
Non uno dei grandi media ha più parlato di Falluja dopo quel rapporto: la città era, comunque, «pacificata».
Invece no.
Nel settembre 2006, gli americani hanno dovuto dare una ripassata brutale: stavano perdendo il controllo della città e della provincia di Anbar.
La resistenza, irriducibile, li ha messi di nuovo alle strette: fra l'altro ha abbattuto un F-16 con un missile a spalla «Strela».
La gente non ha mai cessato di resistere, di infliggere colpi.
E ciò, nonostante gli americani abbiano affidato l'ordine a Falluja alle loro squadre della morte sciite.
Altri mesi di silenzio.
Arriviamo ad oggi: la settimana scorsa, due autocarri guidati da combattenti suicidi, uno carico di esplosivi e l'altro di gas tossici al cloro, sono riusciti a penetrare nell'accampamento fortificato americano facendolo saltare.
I ribelli hanno intensificato gli attacchi mordi-e-fuggi di giorno, e di notte hanno il completo controllo della città.
Così ora gli americani stanno montando la terza pacificazione. (2)
Bombardamenti dal cielo, massacri a terra: dalle poche notizie che ci giungono, le operazioni USA hanno intento palesemente genocida, perché ormai è impossibile distinguere fra combattenti e civili, ed è chiaro che la rovina, la fame, la sete, le ferite non curate hanno unito gli uni e gli altri allo stesso destino.
Combattono ancora.
Da soli, contro la superpotenza militare mondiale.
Contro forze schiaccianti, contro una brutalità senza limiti.
Senza alcuna speranza umana, senza alcun aiuto e appoggio da fuori.
La cosiddetta «Al Qaeda», che si proclama la guardia armata sunnita, non ha mai combattuto a Falluja: e nei giorni scorsi ha ucciso 400 sciiti nel sud del Paese: ancora una volta, «Al Qaeda» fa il lavoro indicato dal Mossad.
La gente di Falluja è sola.
Possiamo solo immaginare le sue condizioni; ma resiste e contrattacca.
Combattono ormai da tre anni.
Questa è la verità atroce della guerra di popolo: mai darsi per vinti, resistere un giorno di più del nemico.
Dopo tre anni, essi ancora lo fanno, difendono la loro città, la loro dignità come popolo, il loro sistema di vita.
E il mondo li chiama «terroristi».
Nessuno prende atto del loro eroismo e del loro valore, spinto oltre ogni limite di sacrificio.
Lo facciamo qui noi, umilmente, anche se da soli.
Ma ci obbliga a farlo il nostro stesso onore di occidentali.
Anzitutto, è il minimo, li chiameremo con il loro vero nome: onore ai patrioti di Falluja.
Onore agli eroi di Falluja, onore a Falluja.
La El Alamein dei sunniti.
La Stalingrado dei tikriti.
Maurizio Blondet
http://www.effedieffe.com/interventizeta.php?id=1866¶metro=
Maurizio Blondet
01/04/2007
I combattenti di Falluja
IRAQ - Nell'aprile del 2004, e poi di nuovo nell'autunno, gli invasori americani «pacificarono» Falluja, roccaforte dei sunniti fedeli a Saddam.
Bombe al fosforo, napalm, volumi di fuoco superiori a quelli scatenati durante la seconda guerra mondiale.
Questa città di 300 mila abitanti, di cui almeno 25 mila erano rimasti intrappolati nelle case, fu ridotta a un cumulo di rovine fumanti, dove, come a Stalingrado, i cani divoravano i cadaveri insepolti.
Seguirono i rastrellamenti, casa per casa.
Gli americani - lo provarono diversi video - finivano i combattenti feriti a mitragliate, per rabbia.
Dopo un mese di diluvio di fuoco, i tikriti continuavano a combattere.
«Sono pochissimi quelli che si arrendono», ammise un colonnello dei marine.
Ma i marine spararono anche sui civili che, con la bandiera bianca, cercavano di uscire dalla città.
Gli aggressori non permisero che aiuti medici e rifornimenti, organizzati dagli iracheni di Baghdad, entrassero nella città devastata.
Lo vietarono perfino a delegazioni dell'ONU e dell'Organizzazione Mondiale della Sanità: prima, raschiarono il terreno completamente, per nascondere l'uso di fosforo e di tossici proibiti.
I cecchini americani uccisero 17 fra medici e infermieri che cercavano di entrare nella città per curare i feriti.
I feriti americani furono 417, i morti non sono stati comunicati.
Nel marzo 2005, molti mesi dopo, un rapporto del Tribunale Russell definì il risultato delle operazioni a Falluja come «genocidio». (1)
«Al momento di diffondere questo rapporto», si leggeva, «il recupero dei cadaveri provocati dall'attacco del novembre 2004 continua. Gli operatori specializzati hanno trovato circa 700 corpi. Gli americani dicono di averne uccisi 1.300, ma non si sa dove i corpi siano stati sepolti. Il fatto che continuino a negare l'accesso ai delegati dell'ONU conferma che hanno riempito delle fosse comuni. I dispersi sono centinaia, ma le famiglie esitano a riferire i nomi dei loro familiari presso l'ufficio di registrazione dei dispersi, per timore di arresti e intimidazioni delle forze americane. I cittadini di Falluja detenuti soffrono di trattamenti inumani».
«Gli abitanti di Falluja subiscono ogni sorta di umiliazioni quando entrano o escono dalla città. Nella loro vita quotidiana soffrono vari tipi di angherie e di minacce da parte delle forze occupanti americane, che li considerano terroristi semplicemente perché rifiutano l'occupazione. Ci sono continue uccisioni casuali, che non escludono bambini e vecchi, uomini e donne. Molti bambini hanno dovuto guardare i loro genitori uccisi davanti ai loro occhi. Uomini hanno dovuto assistere all'uccisione dei loro figli e delle mogli. Quasi ogni famiglia di Falluja ha dovuto seppellire un familiare nel cortile.
La forza d'occupazione americana ha assegnato speciali carte di identità ai cittadini di Falluja, per impedire a visitatori di entrarvi. Ciò isola Falluja dai suoi dintorni e dal resto del Paese, e l'ha trasformata in una grande prigione.
Come misura di punizione collettiva, la forza occupante ha sequestrato le scuole della città che usa come sue caserme, privando gli studenti della possibilità di continuare a studiare, e senza offrire un'alternativa.
Avvengono ritardi deliberati nella ricostruzione di Falluja, e nel ripristino dei servizi essenziali.
Gli annunci in questo senso sono pure menzogne, rivelate dal fatto che le persone che stanno lavorando alla ricostruzione di Falluja, per numero, non sono adeguate alla misura delle distruzioni. Gli americani stessi ammettono che sono state demolite 90 mila case» […].
Ma non c'è stato un vescovo, un pastore o un rabbino a protestare.
Non uno dei grandi media ha più parlato di Falluja dopo quel rapporto: la città era, comunque, «pacificata».
Invece no.
Nel settembre 2006, gli americani hanno dovuto dare una ripassata brutale: stavano perdendo il controllo della città e della provincia di Anbar.
La resistenza, irriducibile, li ha messi di nuovo alle strette: fra l'altro ha abbattuto un F-16 con un missile a spalla «Strela».
La gente non ha mai cessato di resistere, di infliggere colpi.
E ciò, nonostante gli americani abbiano affidato l'ordine a Falluja alle loro squadre della morte sciite.
Altri mesi di silenzio.
Arriviamo ad oggi: la settimana scorsa, due autocarri guidati da combattenti suicidi, uno carico di esplosivi e l'altro di gas tossici al cloro, sono riusciti a penetrare nell'accampamento fortificato americano facendolo saltare.
I ribelli hanno intensificato gli attacchi mordi-e-fuggi di giorno, e di notte hanno il completo controllo della città.
Così ora gli americani stanno montando la terza pacificazione. (2)
Bombardamenti dal cielo, massacri a terra: dalle poche notizie che ci giungono, le operazioni USA hanno intento palesemente genocida, perché ormai è impossibile distinguere fra combattenti e civili, ed è chiaro che la rovina, la fame, la sete, le ferite non curate hanno unito gli uni e gli altri allo stesso destino.
Combattono ancora.
Da soli, contro la superpotenza militare mondiale.
Contro forze schiaccianti, contro una brutalità senza limiti.
Senza alcuna speranza umana, senza alcun aiuto e appoggio da fuori.
La cosiddetta «Al Qaeda», che si proclama la guardia armata sunnita, non ha mai combattuto a Falluja: e nei giorni scorsi ha ucciso 400 sciiti nel sud del Paese: ancora una volta, «Al Qaeda» fa il lavoro indicato dal Mossad.
La gente di Falluja è sola.
Possiamo solo immaginare le sue condizioni; ma resiste e contrattacca.
Combattono ormai da tre anni.
Questa è la verità atroce della guerra di popolo: mai darsi per vinti, resistere un giorno di più del nemico.
Dopo tre anni, essi ancora lo fanno, difendono la loro città, la loro dignità come popolo, il loro sistema di vita.
E il mondo li chiama «terroristi».
Nessuno prende atto del loro eroismo e del loro valore, spinto oltre ogni limite di sacrificio.
Lo facciamo qui noi, umilmente, anche se da soli.
Ma ci obbliga a farlo il nostro stesso onore di occidentali.
Anzitutto, è il minimo, li chiameremo con il loro vero nome: onore ai patrioti di Falluja.
Onore agli eroi di Falluja, onore a Falluja.
La El Alamein dei sunniti.
La Stalingrado dei tikriti.
Maurizio Blondet
http://www.effedieffe.com/interventizeta.php?id=1866¶metro=