l'editoriale dell'ultimo numero di storia in network
LA VERITÀ SULLE FOIBE.
CHI HA PAURA DI DIRLA?
di GIAN LUIGI FALABRINO
Nel numero 2 del febbraio-marzo 1997 la rivista Il ponte della Lombardia (
www.ilponte.it) pubblicava uno studio di Giacomo Scotti in cui veniva affrontato un tema di grande complessità politica e psicologica: quello delle foibe. Un tema sepolto nel silenzio degli anni seguenti la fine della seconda guerra mondiale e poi esploso in molte ricerche, sia storiche che giornalistiche. Scrivendo questo saggio Giacomo Scotti ebbe il grande merito storico di affrontare per primo l’argomento inquadrandolo in una visione politica distaccata e sostenuta da un supporto documentale solido e preciso. L’introduzione allo studio era del nostro collaboratore Gian Luigi Falabrino, storico, scrittore e docente di storia della comunicazione.
In questi ultimi mesi la discussione sulla questione della foibe è ripresa con forza ma con un’impostazione aggressiva che ci pare essere più strumentale che tesa all’approfondimento storico voluto da un rigoroso e onesto riesame degli avvenimenti per di ricostruire il dramma con precisione, spogliandolo dagli inserti deformanti aggiunti da ciechi e viscerali odii nazionalisti. Visto il taglio di questa discussione, che ci fa pensare piuttosto a una rozza diatriba (salvo gli interventi chiarificatori di Claudio Magris sul Corriere della sera e in televisione), vorremmo riproporre l’introduzione citata, già pubblicata da STORIA in network numero 30, per offrire ai lettori alcuni elementi di riflessione. Al fine di capire se ci sono ancora coloro che hanno paura di dire la verità sulle foibe.
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Lo studio di Giacomo Scotti sugli eccidi del settembre 1943 in Istria è volutamente limitato nel tempo e nei luoghi: non considera infatti le deportazioni e le foibe delle quali furono vittime goriziani e triestini nel maggio 1945, né lo stillicidio di vittime in Istria in mezzo ai due terribili periodi. Ma, forse appunto per queste autolimitazioni, è documentato e preciso, e presenta tre grandi meriti. Il primo è di situare la tragedia del settembre 1943 nel contesto storico più ampio del dominio fascista sulla Venezia Giulia, dal 1922 al 1943, con le proibizioni dei partiti, delle scuole, dei giornali di sloveni e croati, l'interdizione all'uso delle loro lingue, le sentenze del tribunale speciale ecc., cui si aggiunge poi la repressione antipartigiana in Slovenia e in Dalmazia nel 1941-’43.
In ciò Scotti è molto vicino alle tesi di Teodoro Sala, autore di volumi e saggi sul fascismo e la Jugoslavia, sintetizzata su L'Espresso del 19 settembre 1996. Certo, va detto che le colpe degli uni non giustificano le colpe degli altri, e Scotti ne è ben consapevole specialmente quando parla di alcuni delitti particolarmente efferati, quali l'uccisione di Norma Carretto, colpevole di essere figlia di un fascista, o delle tre sorelle Radecchi, di 17, 19 e 21 anni.
Ma il giudizio storico non si preoccupa tanto delle giustificazioni, quanto delle spiegazioni. Comprendere non è perdonare, ma sbaglia chi, da una parte o dall'altra, ancora adesso, a sessant’anni di distanza, crede che le vittime siano da una parte sola. Il secondo merito è di avere posto, con la chiarezza della propria tesi, il problema se le foibe siano state o no un atto di genocidio. Scotti lo nega, e per il settembre 1943 sarebbe difficile credere il contrario. Semmai il problema si pone per il 1944-'45, ma con Scotti, anche lo storico Galliano Fogar sembra esitante ad ammettere il genocidio:
"Non fu un piano di sterminio etnico" (in Lettera ai compagni del settembre 1996). Secondo Fogar, il leader del partito comunista sloveno, Kardelj, aveva dato la direttiva di "epurare non sulla base della nazionalità ma del fascismo"; però per fascismo, chiarisce lo storico, s'intendevano "tutti gli oppositori politici, nazionali, ideologici", compresi gli uomini del CLN di Trieste e Gorizia in quanto non comunisti e oppositori delle annessioni alla Jugoslavia. Questo chiarimento di Fogar sembra dare ragione alla tesi estensiva di Nicola Tranfaglia (L'Unità del 22 agosto 1996): "Si tratta di azioni di terrorismo nazionalista che non hanno nulla da invidiare, quanto a metodi e conseguenze, ad ogni altro eccidio di quegli anni e non hanno alcuna giustificazione storica".
Del resto, anche in forme meno cruente ma certamente odiose, le intimidazioni anti-italiane continuarono anche dopo la guerra e, in quella piccola parte dell'Istria che con Trieste avrebbe dovuto costituire il Territorio Libero, addirittura fino al 1954. Del resto Milovan Gilas in un'intervista a Panorama (21 luglio 1991) aveva dichiarato: "Nel 1946 io e Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana. Bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo". Il terzo merito del saggio di Scotti sta nel dare un contributo, preciso e documentato, al riesame delle vicende della regione orientale, che l'Italia sembra scoprire soltanto adesso, dopo che nell'agosto 1996 Stelio Spadaro, segretario del Pds di Trieste, ha reso pubblico un suo documento "revisionista" nel quale, fra l'altro, affermava: "La sinistra italiana ha rimosso a lungo la vicenda, ora deve fare i conti con la storia". Allora scoppiò un putiferio, la sinistra si divise, gli storici locali dimostrarono che non avevano mai ignorato le foibe, il Corriere della Sera rilanciò la questione con un editoriale, e molti intervennero con opposte interpretazioni, sia dei fatti, sia del vero o presunto silenzio della sinistra. Ci fu davvero il silenzio della sinistra?
E se fu un silenzio non fu anche degli altri settori della politica e della cultura? Sono sicuro che la rimozione ci fu, e che fu generalizzata, non soltanto della sinistra, non soltanto sulle foibe, ma sull'intera vicenda della Venezia Giulia e degli esuli del 1945-'54, ignorati o respinti come seccatori, come viventi promemoria delle conseguenze della guerra fascista che tutti volevano dimenticare. Nella sua evidente verità, appare perfino ingenua la rivendicazione dei politici e degli storici giuliani, che dicono di non aver mai dimenticato. Claudio Tonel, dirigente del Pds triestino, il 23 agosto 1996 aveva dichiarato "Non è vero che le vicende siano state dimenticate dalla sinistra. Forse nel resto d'Italia, ma non qui. Io stesso ho curato una decina di volumi in materia e ho organizzato convegni". E Fogar ha rivendicato il molto lavoro svolto dall'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione di Trieste. "A Trieste le foibe sono all'ordine del giorno da più di quarant'anni"
Ma guai se non fosse così, in una città che ha avuto molte vittime, che ha la foiba di Basovizza nella propria periferia carsica, e che ha visto alcuni processi per le foibe, come quello del 1948 al gruppo di Villa Segré, che aveva coinvolto il celebre comico dialettale Cecchelin.
Ma quando si parla del silenzio, non ci si riferisce, evidentemente, ai convegni e alle riviste locali; si parla di tutta l'Italia al di qua dell'Isonzo, dei partiti, dei giornali, dei libri di storia. Le parole più chiare e convincenti le ha scritte proprio uno storico, Nicola Tranfaglia: per lui, che si dissocia da quanti cercano di difendere i massacri dei nazionalisti jugoslavi e di trovare una giustificazione storica, "la storiografia di sinistra italiana deve scontare ancora un notevole ritardo sui problemi e sui delitti dello stalinismo".
Ma chi ha vissuto quegli anni con l'interesse e con la sensibilità di chi era a Trieste fra guerra e dopoguerra, sa che il silenzio non fu soltanto della storiografia e non soltanto della sinistra. Tutto lo schieramento democratico lasciò la memoria delle foibe e dell'esodo dei 300 o 350mila istriani all'interessata propaganda dei neofascisti. Questa naturalmente diffuse un velo sulle colpe fasciste e operò quella strumentalizzazione delle vicende giuliane, che Scotti giustamente deplora. Ma la responsabilità di aver lasciato soli i missini è di tutti gli altri, anche dei governi, imbarazzati, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere della Sera del 23 agosto) "per i numerosi episodi di feroce rappresaglia compiuti dalle truppe italiane che avevano occupato la Jugoslavia dal '41 al '43”.
“Alla richiesta di Belgrado, subito dopo la fine delle ostilità, che fossero estradati come criminali di guerra un certo numero di ufficiali italiani che di crimini del genere ne avevano quasi sicuramente commessi davvero, parve politicamente avveduto rispondere mettendo la sordina, da parte nostra, sulle atrocità commesse a loro volta dai partigiani titini nei confronti delle popolazioni italiane".
L'analisi è acuta e probabilmente veritiera; ma forse le cause di una rimozione così generalizzata non possono esaurirsi nella furbizia governativa, ma debbono essere più ampie.
Un'ipotesi è che l'identificazione compiuta dal fascismo di sé stesso con la patria, la riduzione fascista della storia del Risorgimento alla storia del nazionalismo, avessero portato a quel generale rifiuto del concetto di nazionalità, d'italianità, che ci ha distinti in questi cinquant'anni rispetto agli altri popoli europei. Buttare via il nazionalismo dopo l'orgia fascista era più che giusto; confonderlo con il senso, anche culturale, della nazionalità ha creato il vuoto del quale si è cominciato a discutere in Italia soltanto da quando il secessionismo di Bossi ha dato una sgradevole sveglia.