Stampare moneta, e poi?
di ALFONSO TUOR - Alcune banche centrali cominciano ad interrogarsi sugli effetti delle loro politiche monetarie estremamente espansive. La settimana scorsa, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, in un’audizione davanti all’Europarlamento, ha espresso il timore che si possano formare nuove bolle, negli scorsi giorni i verbali della riunione di fine gennaio della Federal Reserve statunitense hanno svelato che alcuni membri del Comitato direttivo hanno invitato il presidente Ben Bernanke a valutare l’efficacia e probabili costi dell’attuale piano che prevede l’acquisto di obbligazioni per 85 miliardi di dollari ogni mese allo scopo di rafforzare la ripresa statunitense.
Se in America ed in Europa si cominciano a temere le conseguenze di queste politiche monetarie, in Giappone ed in Gran Bretagna si è affermata la convinzione che occorre invece pigiare il pedale dell’acceleratore e incrementare la stampa di nuova moneta.
Non è casuale che il dibattito si apra proprio ora, più precisamente dopo la decisione del nuovo Governo giapponese di usare tutti i mezzi a disposizione della sua banca centrale per uscire da un ventennio di deflazione. La scelta di Tokyo ha già provocato un significativo deprezzamento dello yen giapponese e ha spinto alcuni a parlare di una minaccia di una guerra valutaria, nella quale ogni Paese cerca di svalutare la propria moneta a scapito degli altri per guadagnare competitività e aumentare le proprie esportazioni.
La politica giapponese ha però implicazioni che non si limitano all’economia nazionale, ma che si ripercuotono sui fragili equilibri finanziari del mondo. Infatti spinge gli investitori nipponici ad investire ancor più all’estero e soprattutto negli Stati Uniti. Secondo alcuni dati, il processo è già cominciato. In modo grezzo, si può dire che il Giappone stampa moneta e che una parte di questa quantità di moneta attraversa il Pacifico per acquistare titoli americani.
In pratica, si tratta di una nuova catena di Sant’Antonio, che garantisce il collocamento del debito americano, ma che rischia di gonfiare ancor più le bolle speculative che si stanno sempre più gonfiando nei mercati obbligazionari ed azionari del mondo. Continuare a stampare all’attuale ritmo equivarrebbe ad offrire una garanzia contro la caduta dei mercati e quindi un invito ad investire e, di conseguenza, a gonfiare le bolle già esistenti.
Ci sono anche altri fattori che invitano al ripensamento: queste politiche hanno favorito le banche e i mercati finanziari, ma hanno prodotto effetti modesti sull’economia reale.
Negli Stati Uniti, la ripresa, che è comunque modesta e fragile, si è sviluppata anche perché finora non è stata adottata alcuna misura di risanamento dei conti pubblici a causa dei dissidi tra Congresso e Casa Bianca. Quindi la politica monetaria fortemente espansiva della Federal Reserve è stata affiancata da una politica fiscale altrettanto espansiva.
Non è un caso che ora si temono le conseguenze di una mancata intesa politica che farebbero scattare automaticamente delle significative riduzioni della spesa pubblica.
Eurolandia, invece, sta sprofondando in una recessione sempre più grave a causa delle politiche di austerità, che non vengono affatto attutite dalla politica monetaria espansive della BCE. E sempre in Europa è ancora più evidente la discrepanza tra l’andamento euforico di molte borse e lo stato di salute dell’economia reale accompagnato dal caparbio rifiuto di riconoscere che il debito pubblico di molti Paesi europei non potrà mai essere onorato.
Questa discussione mette indirettamente in luce i limiti della risposta politica alla crisi, che finora ha privilegiato gli strumenti di politica monetaria, favorendo unicamente banche e mercati finanziari, senza nemmeno ottenere una reale ed incisiva riforma del loro funzionamento.