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Diffamazione: no al carcere, sì alla rettifica
Mercoledì, 24 ottobre 2012 - 15:00:00
di Tiziana Maiolo
Da giornalista, da diffamata e anche nella mia veste di diffamante (secondo me presunta, ma i giudici la pensano diversamente), mi pare che questa legge sull’informazione in discussione al Senato sia un gran pasticcio. So per esperienza che quando, nella discussione in commissione parlamentare, spuntano troppi emendamenti e sulla proposta mettono le mani in troppi, aggiungendo alla norma-base una serie di ”salvo che”, in genere ne esce una cattiva legge, nel migliore dei casi una legge inapplicabile.
Due sono i problemi: eliminare la sanzione del carcere e imporre la rettifica della notizia diffamatoria.
Sul primo punto va detto (e lo dico da condannata e anche da querelante) che la pena del carcere non viene comminata proprio mai. Per questo è ancor più grave e stupefacente il fatto che una Corte d’appello e poi una sezione della Cassazione abbiano invocato proprio quell’aggravante e quel giudizio di “spiccata capacità a delinquere” che hanno fatto scattare le manette nei confronti del direttore del Giornale Sandro Sallusti.
E’ ovvio però che, eliminando la pena detentiva, questa andrà sostituita con una pena pecuniaria, che dovrà essere commisurata non solo alla gravità del fatto, ma anche alla consistenza patrimoniale della testata.
La seconda questione, e veniamo al nodo centrale del problema, è quella della rettifica. Faccio un esempio personale. Proprio pochi giorni fa la Corte di cassazione ha condannato in via definitiva un giornalista da me querelato per diffamazione a mezzo stampa. Ho appreso in questa circostanza che la mia reputazione vale tremila euro, mentre quella di un magistrato che mi aveva querelato e che ho risarcito valeva dieci volte tanto. Ma io non ho la toga, almeno per ora.
Comunque, questo giornalista nel 2006, quando ero assessore e alla vigilia di una campagna elettorale nella quale mi sarei candidata, aveva sparato un titolone “L’assessore Maiolo non paga l’affitto da due anni”. Potendo io dimostrare in via documentale la falsità totale della notizia, avevo fatto contattare il giornalista dal mio avvocato, chiedendo la rettifica. Invano. Il giorno dopo la testata sparava di nuovo a zero contro di me, rincarando la dose e pubblicando anche il mio indirizzo di casa. Mi dicano i colleghi giornalisti che protestano sempre contro “il bavaglio alla stampa”, mi dicano i colleghi che presiedono l’Ordine che cosa avrebbero fatto al mio posto. Ho querelato, e dopo sei anni sei avrò la soddisfazione di tremila euro. E la mia reputazione di allora? E se questa notizia mi avesse fatto perdere quelle elezioni che invece andarono bene?
Il punto è tutto lì.
La rettifica è lo strumento per eliminare reciproci rancori, tra politici e giornalisti, ma anche per salvaguardare i diritti di tutti i cittadini. Di questo i giornalisti devono rendersi conto. Occorre uno strumento rigoroso che imponga davvero che la versione della persona che si sente diffamata possa avere, immediatamente, lo stesso spazio e la stessa evidenza che ha avuto la notizia che ha messo a rischio la sua reputazione.
Le sanzioni devono essere severe, nei confronti di chi non lo fa.
Lo dico da giornalista che non ha mai preso querele. Quella che ho citato riguardava un mio intervento in un congresso di partito. Solo in assenza di rettifica si dovrebbe poter andare al processo. Nel caso in cui la persona che si sente diffamata possa aver offerto al lettore o telespettatore anche la sua versione dei fatti, nessuna querela dovrebbe essere avanzata.
Due punti semplici, quindi: togliere il carcere e obbligare alla rettifica. E’ così complicato, cari parlamentari?