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Commenti&Inchieste > Europa
Élite politiche piccole piccole
di Carlo Carboni
La debolezza - per i più severi, il nanismo - di una politica europea frammentata in ceti politici nazionali, sta diventando drammatica, ora che il passaggio è più impervio: gli europei si sono inoltrati, senza guida, in un territorio sconosciuto, come l'attuale crisi. Si sente la mancanza di una superclass politica europea in grado di contrastare e spegnere gli incendi finanziari.
Le varie élite politiche nazionali stanno perdendo d'autorevolezza e di capacità di rappresentanza: del resto, le strategie nazionali sono sempre più disegnate da Bruxelles e le braccia operative si articolano nei territori regionali.
Nel caso italiano, dopo essere state imputate di una scarsa manutenzione delle risorse di sistema, di declino economico,
di sprechi e privilegi (costo della politica), oggi, le élite politiche nazionali sono in crisi di rappresentatività per manifesta incapacità di dare risposte alla crisi, di difendere i cittadini dalle turbolenze speculative dei mercati finanziari.
Dalla Germania alla Francia, dalla Spagna all'Italia, i cittadini le hanno percepite come impreparate e, forse, impotenti di fronte agli imponenti marosi dei mercati finanziari globali.
L'angoscia provocata da questa sfiducia nei propri leader politici è diffusa in tutte le democrazie rappresentative delle nazioni europee, troppo piccole per non cadere preda della superclass finanziaria globale.
L'ansia dei cittadini diviene paura e profonda insicurezza nell'Eurosud per i macabri rialzi dello spread.
Si avvertono i limiti di un'
Europa politicamente acefala che, come tale, si preclude il diritto di dire la propria sulle scelte decisive del mondo globale. Peraltro, la foto di gruppo dei ceti politici nazionali è grigia e sbiadita.
I leader politici over 55 rappresentano circa l'80% del totale, in tutti i primi cinque maggiori paesi europei. Sono all'incirca
a sesso unico maschile in Italia, Polonia e Spagna (1 su 6), ma le donne sono penalizzate anche in Scandinavia Francia e Germania (1 su 3).
Nel complesso, British a parte, le élite politiche delle maggiori nazioni europee sono caratterizzate da curricula provinciali che certo non incoraggiano una visone europeista: pochi studi, pochi scambi e poco lavoro all'estero (appena 1 su 5, Carboni, 2010). Anche la noblesse d'État francese non fa eccezione, nonostante sia selezionata dal rinomato sistema delle Grandes Ecoles.
Tutti immersi nei loro feudi elettorali locali e ancorati ai bacini linguistici nazionali scarsamente interconnessi, i ceti politici nazionali, a scala europea, rimangono i più importanti visto che la
Ue ha una trazione intergovernativa (a egemonia franco-tedesca). La politica del vecchio Continente ne risulta penalizzata: le élite politiche nazionali, per ora, non hanno intenzione di compiere il grande balzo per riprendersi efficacia, autorevolezza e sovranità nello spazio europeo. A corto di lungimiranza, nel breve periodo, sembra improbabile la creazione di una democrazia politica europea, un obiettivo formalmente prioritario, ma sbiadito nell'agenda segreta dei due maggiori partiti europei, popolare e socialista. La filosofia dei "piccoli passi" verso una comunità di destino europea non ci evita la flagellazione estiva dello spread.
Manca una visione strategica europea del nuovo scenario globale.
A surrogare questo deficit di capacità della politica europea di porre nuove domande e di dare risposte adeguate, a Bruxelles e Strasburgo si sono gradualmente consolidate classi dirigenti funzionali tecnico-burocratiche che, nell'evanescenza della politica europea, si vestono da élite traenti che "processano" le decisioni a livello dell'Unione. È l'eurobucrazia, (oltre 36mila dipendenti) un ceto la cui ascesa è attestata dalla presenza di poco meno di 25mila lobbisti a Bruxelles. E' una burocrazia che segue riti cetuali nell'arruolamento, nei privilegi (stipendi mensili: dai 5.000 euro dell'usciere ai 15mila dei funzionari), negli stili di vita. All'apparenza, la politica resta regina d'Europa, ma al cospetto dell'euroburocrazia, essa rappresenta un fatto nazionale/provinciale, schiacciato su interessi periferici.
Come il montismo, l'euroburocrazia perciò presenta capacità tecniche che "masticano" di politica. Questo dominio della techné é probabilmente transitorio, perché di fronte alle speculazioni in tempo reale dei mercati finanziari, le soluzioni per uscirne sono possibili solo aprendo un unico ombrello politico-istituzionale europeo. L'élite tecnico-burocratica sarà guidata da una superclass politica europea, post-nazionale e trasformativa, in grado d'illuminare un percorso unitario, di comune destino delle nazioni.
In sintesi, per andare oltre la crisi, dobbiamo ritrovare l'onda lunga europeista. I ceti politici nazionali, al contrario, faticano a rappresentare i cittadini non tanto per i noti "costi della casta", ma per l'assenza di risposte adeguate. Se la politica dei partiti vuole riacquisire credibilità e autorevolezza, - dopo il gift capitalism - deve cercare di ricostruirsi una legittimità democratica a scala continentale.
Nel frattempo, nel vuoto politico europeo, noi italiani «scontiamo i dubbi sullo scudo Ue», per dirla con Monti. Siamo costretti a cavarcela da soli, eliminando sprechi e inefficienze, mettendo in campo le nostre risorse con dismissioni pubbliche, spending review e, magari, confidando in un contributo responsabile della nostra classe "agiata".