C’era una volta il Lustrascarpe
Un mestiere antico dell’Italia meridionale del dopoguerra, molto presente nel periodo in cui gli italiani decidevano di migrare verso gli Stati Uniti in cerca di fortuna.
Generalmente posizionato
all’aperto per la strada, in
grandi piazze e in luoghi di passeggio dell’alta e media borghesia,
il lustrascarpe lucidava le scarpe altrui e si guadagnava da vivere, chiedendo pochi soldi. Chiamato anche
sciuscià, questa simpatica parola è nata dalla italianizzazione del termine
inglese shoe-shiner.
Gli attrezzi che si utilizzavano per questo bizzarro lavoro, erano una
cassetta in legno con delle estremità dove i clienti poggiavano i piedi, vari tipi di
spazzole, pezzuole e
lucido, nero o marrone in base alle scarpe da lucidare.
Anche la
fotografia raggiunse il suo primo successo proprio con un lustrascarpe: nella
Parigi del 1838, a causa del lungo tempo di esposizione, non era possibile nè tanto meno facile, fotografare carrozze e persone in movimento. Un lustrascarpe e il
suo cliente invece, rimanendo fermi abbastanza, divennero i
primi soggetti mai immortalati in una
foto.
Anche nel cinema, la figura del Lustrascarpe divenne famosa in film come Sciuscià di Vittorio De Sica, o ancora L’Immigrato con Charlie Chaplin.
Il lavoro del lustrascarpe era un lavoro fatto di lentezza, di pause, di attenzione e di cura. La scarpa è come un “biglietto da visita”, e ha la capacità di raccontarci anche delle storie, la storia di chi la indossa.
E’ per questo che il mestiere dello sciuscià, era molto più che un semplice lavoro. I
suoi gesti avevano qualcosa di
magico: Prima di tutto si toglievano i lacci, in seguito la scarpa veniva spazzolata per eliminare la polvere e pulita a fondo. Ogni scarpa doveva avere la sua specifica cura che la riportava al suo splendore. Si stendeva poi un latte detergente per eliminare le macchie e contemporaneamente si nutriva la pelle, rendendola morbida. Infine, si cercava il colore più simile per trattare la scarpa, e completare così tutto il “rito”. Un lavoro
lento e preciso, dalle tempistiche quasi
“zen” che sembrava voler guardare al passato più che al futuro.