Claire
ἰοίην
Il Tempo - adnkronos
Cassazione: mai apostrofare le donne con offese sessiste
Roma, 31 gen. (Adnkronos) - Le donne? Mai apostrofarle con offese sessiste. La Cassazione interviene per censurare una brutta e diffusa "consuetudine" tra gli uomini per cui "ogni volta che si deve offendere una donna e' immancabile il riferimento a presunti comportamenti sessuali della stessa". La Suprema Corte registra con amarezza che "qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione, l'uomo di norma non accusa la sua avversaria donna di dire il falso, di essere una imbrogliona, di sopravalutarsi - tutte accuse nella specie piu' pertinenti all'oggetto della discussione - ma di essere una puttana o una zoccola - offese del tutto inconferenti rispetto alla contesa verbale. Con cio' non solo offendendo gravemente la reputazione della donna, ma cercando di porla in una condizione di marginalita' e minorita'". La Quinta sezione penale - sentenza 5070 - e' stata sollecitata a censurare il malcostume maschile, occupandosi del ricorso, bocciato, di un 61enne di Messina, Giuseppe L., condannato per ingiuria per avere indirizzato alla collega Domenica B. l'espressione 'sei una zoccola'. Tra i due colleghi di una struttura ospedaliera era sorta una accesa discussione, ricostruisce piazza Cavour, sul conferimento di un incarico che Domenica riteneva che le dovesse essere conferito in virtu' della maggiore anzianita', e che era stato, invece, attribuito, al collega. I due contendenti, registra la Cassazione, "non si scambiarono certo complimenti, avendo lei sostenuto esplicitamente che Giuseppe aveva brigato per ottenere l'incarico". Detto questo, la Suprema Corte non tollera che quando ci si rivolge ad una signora lo si faccia con epiteti sessisti. "E' davvero singolare - registrano i supremi giudici - che un uomo, che si presume di cultura, non si renda conto della gravita' di un tale comportamento e invochi la reciprocita' delle offese". Piazza Cavour prende atto del fatto che "sovente tra colleghi nascono discussioni, anche aspre e concitate, per motivi di lavoro e che per sostenere le proprie ragioni si faccia ricorso anche ad ironie e perfino ad accuse di scarsa attenzione, di impreparazione, di eccessiva vicinanza al capo dell'ufficio e simili, che non possono rientrare, pero', nella categoria del fatto ingiusto che legittima l'uso di frasi pesantemente volgari ed offensive". L'offesa sessista alla collega costera' a Giuseppe L. anche una condanna al risarcimento dei danni, oltre al pagamento delle spese processuali.
Cassazione: mai apostrofare le donne con offese sessiste
Roma, 31 gen. (Adnkronos) - Le donne? Mai apostrofarle con offese sessiste. La Cassazione interviene per censurare una brutta e diffusa "consuetudine" tra gli uomini per cui "ogni volta che si deve offendere una donna e' immancabile il riferimento a presunti comportamenti sessuali della stessa". La Suprema Corte registra con amarezza che "qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione, l'uomo di norma non accusa la sua avversaria donna di dire il falso, di essere una imbrogliona, di sopravalutarsi - tutte accuse nella specie piu' pertinenti all'oggetto della discussione - ma di essere una puttana o una zoccola - offese del tutto inconferenti rispetto alla contesa verbale. Con cio' non solo offendendo gravemente la reputazione della donna, ma cercando di porla in una condizione di marginalita' e minorita'". La Quinta sezione penale - sentenza 5070 - e' stata sollecitata a censurare il malcostume maschile, occupandosi del ricorso, bocciato, di un 61enne di Messina, Giuseppe L., condannato per ingiuria per avere indirizzato alla collega Domenica B. l'espressione 'sei una zoccola'. Tra i due colleghi di una struttura ospedaliera era sorta una accesa discussione, ricostruisce piazza Cavour, sul conferimento di un incarico che Domenica riteneva che le dovesse essere conferito in virtu' della maggiore anzianita', e che era stato, invece, attribuito, al collega. I due contendenti, registra la Cassazione, "non si scambiarono certo complimenti, avendo lei sostenuto esplicitamente che Giuseppe aveva brigato per ottenere l'incarico". Detto questo, la Suprema Corte non tollera che quando ci si rivolge ad una signora lo si faccia con epiteti sessisti. "E' davvero singolare - registrano i supremi giudici - che un uomo, che si presume di cultura, non si renda conto della gravita' di un tale comportamento e invochi la reciprocita' delle offese". Piazza Cavour prende atto del fatto che "sovente tra colleghi nascono discussioni, anche aspre e concitate, per motivi di lavoro e che per sostenere le proprie ragioni si faccia ricorso anche ad ironie e perfino ad accuse di scarsa attenzione, di impreparazione, di eccessiva vicinanza al capo dell'ufficio e simili, che non possono rientrare, pero', nella categoria del fatto ingiusto che legittima l'uso di frasi pesantemente volgari ed offensive". L'offesa sessista alla collega costera' a Giuseppe L. anche una condanna al risarcimento dei danni, oltre al pagamento delle spese processuali.